Inclusività e anglicizzazione: la nuova lingua che si vuole imporre dall’alto

Di Antonio Zoppetti

Il Consiglio di amministrazione dell’Università di Trento ha varato da pochi giorni il Regolamento generale di Ateneo scritto con il “femminile sovraesteso”, come l’hanno chiamato, cioè cambiando l’uso storico dell’italiano e introducendo il femminile inclusivo. Tutte le cariche sono state femminilizzate, anche se includono il personale maschile, perché si sottintende la parola “persona”: la presidente, la rettrice, la segretaria, le componenti del Nucleo di valutazione, la direttrice del Sistema bibliotecario di Ateneo, le professoresse, la candidata, la decana…

“Una scelta che ha una valenza fortemente simbolica e che segue altre decisioni in questo senso intraprese dall’Ateneo a partire dal 2017 con l’approvazione del vademecum ‘Per un uso del linguaggio rispettoso delle differenze’”, si legge nel comunicato stampa che si può trovare sulla loro “pressroom” (ufficio stampa forse non è rispettoso delle differenze):

Questa provocazione – che fa però parte del linguaggio istituzionale e ha dunque la sua ufficialità – vuole fare riflettere sul sacrosanto problema della discriminazione femminile, anche se considerare il maschile inclusivo “discriminante” è una presa di posizione politica piuttosto discutibile, non condivisa e che non si fa alcun problema a entrare a gamba tesa sull’uso storico dell’italiano e la sua norma. Personalmente preferirei che le donne avessero delle reali pari opportunità sul lavoro, che fossero pagate come gli uomini e che avessero la possibilità di fare carriera e magari anche di diventare “rettrici” universitarie, visto che al momento sembra che ce ne siano solo 12 in Italia (fonte: Lorenza Ferraiuolo, “Università, Giovanna Spatari è la prima rettrice del Sud Italia”, Fortune Italia, 28/11/2023).

Se poi si vogliono far chiamare “rettori” o “rettrici” credo che dovrebbe essere una loro scelta, e vorrei ricordare che la maggior parte delle donne che sono avvocati, notai o architetti preferiscono il maschile inclusivo, dunque femminilizzarle a forza e volerle “educare” è un atto che non pare troppo “rispettoso delle differenze”. La verità è che questa inclusività esclude… ma comunque la si pensi, non resta che constatare che le fortissime pressioni sociali che spingono per cambiare l’uso in nome dell’inclusività sono le stesse che vogliono cambiare l’uso introducendo l’inglese. Basta contare gli anglicismi presenti sulla pagina principale del sito dell’Ateneo di Trento per vedere come sono “rispettosi” della lingua italiana: ci sono le call, gli hackathon, la reception del Rettorato, le news e le newsletter, gli open days (con la s del plurale), una challenge, la brand identity, il fundraising, lo staff, la categoria “people“…

Anche la Treccani nel 2022 ha deciso di registrare i femminili di nomi e aggettivi prima del maschile, e contemporaneamente ha deciso anche di introdurre il modulo Whistleblowing (proprio sopra la Cookie Policy e la Privacy Policy) invece delle Segnalazioni come si legge all’interno del documento.

Come ho ribadito anche la scorsa settimana al dibattito di Pordenone su dove va la lingua italiana – che è stato archiviato su YouTube se qualcuno è interessato – mentre in Italia sono state emanate raccomandazioni sulla femminilizzazione delle cariche in cui è stata coinvolta la Crusca, sugli anglicismi ci si volta dall’altra parte. E il paradosso è che si usano due pesi e due misure: sull’inclusività si interviene senza remore per educare tutti a parlare in un certo modo, ma davanti ai troppi anglicismi si risponde che sull’uso non si può di certo intervenire perché la lingua arriverebbe “dal basso”. Al contrario si diffondono dall’alto e del fatto che non siano trasparenti o rispettosi del nostro patrimonio linguistico storico o che creino fratture e barriere sociali sembra che non importi niente a nessuno.

Università in inglese: aggiornamenti e riflessioni sul caso Rimini

Di Antonio Zoppetti

Ringrazio i circa 400 cittadini che hanno sottoscritto la protesta organizzata da Italofonia.info contro l’abolizione del corso di Economia del turismo all’università di Rimini sostituito da quello erogato solo in inglese. E torno sul tema con qualche aggiornamento e riflessione.

Anche la Crusca ha preso posizione

L’accademia della Crusca, in copia agli appelli, ha appoggiato il nostro grido, ha inserito la questione nel Consiglio direttivo del 22 febbraio 2024, e ha formalizzato una lettera aperta (che si può leggere sul loro sito) indirizzata al rettore dell’università di Bologna, Giovanni Molari, e alla ministra dell’università e della ricerca, Anna Maria Bernini.

Il documento segnala che, stando alla legge, i corsi triennali (come quello del caso riminese) devono avere come obiettivo il pieno possesso dell’italiano, e questo obiettivo non può essere garantito da un corso erogato solo in inglese. Inoltre ricorda la sentenza della corte Costituzionale che ha sancito la “primazia” dell’italiano nell’offerta formativa, e domanda come sia possibile non rispettarla. Nella conclusione afferma che:

“La progressiva eliminazione dell’italiano dall’insegnamento universitario (come pure dalla ricerca) in vista di un futuro monolinguismo inglese costituisce, come ha osservato anche la European Federation of National Institutions for Language (EFNIL), un grave rischio per la sopravvivenza dell’italiano come lingua di cultura, anzitutto, ma anche come lingua tout court, una volta privata di settori fondamentali come i linguaggi tecnici e settoriali.”

La lettera firmata dal presidente Paolo D’Achille non chiede esplicitamente il ripristino del corso in italiano, perché come precisato nella premessa l’accademia non ha alcun titolo ufficiale per intervenire sulle decisioni del Ministero – da cui dipende – né su quelle dell’ateneo in questione, libero di agire in piena autonomia, anche se le decisioni devono essere approvate dal Ministero. Ma pone delle domande e delle pungenti questioni su cui si spera che l’università Alma Mater e la ministra diano almeno una risposta.

L’eco mediatica: sprazzo o cambiamento?

L’intervento dell’accademia, da ieri sera, è stato riportato dalle agenzie e dai giornali, e la speranza è che generi un dibattito serio sulla questione, perché dietro decisioni come quella di Rimini si consuma la cancellazione del diritto allo studio nella nostra lingua madre con una logica che si è già vista nel caso delle scuole coloniali africane, le cui conseguenze sono state ben denunciate da un autore come Ngugi wa Thiong’o in Decolonizzare la mente (Jaca Book, Milano 2015).

Proprio ieri, sulla prima pagina del Corriere.it (che per il momento non riporta la notizia), c’era un pezzo sull’impoverimento culturale dell’università (“Università: studiare senza libri, con l’ok dei prof”); l’Italia, si legge, è in fondo alle classifiche dei giovani laureati: sono il 28% contro l’obiettivo europeo fissato al 40% (solo la Romania è indietro rispetto a noi); il 25% degli iscritti abbandona senza raggiungere la laurea; nei prossimi vent’anni in Italia è previsto un calo di 400mila iscritti; e l’impoverimento culturale dei corsi a distanza rischia di creare un forte indebolimento delle future classe dirigenti. Ma nulla si dice nel pezzo sulla tendenza a insegnare in inglese, che come è emerso nel caso di Rimini rappresenta un ostacolo per gli studenti e un disincentivo a frequentare i corsi erogati. Insegnare in italiano non aiuterebbe? Gli autori del pezzo si sono guardati bene dal tirare fuori simili questioni, ma forse dopo la presa di posizione della Crusca qualcuno farà 2+2.

Nell’articolo a fianco, “Intelligenza artificiale e sviluppo sostenibile: le scelte degli atenei”, si pubblicizzava invece una gran quantità di corsi in inglese che stanno per essere inaugurati, senza che la giornalista spendesse una riflessione su cosa significhi e comporti. Nessun accenno alla “sostenibilità” dell’inglese, insomma, solo propaganda ai corsi in quella lingua: all’università di Trieste c’è la magistrale in “Materials and Chemical Engineering for Nano, Bio, and Sustainable Technologies (in inglese), mentre sono in fase di accreditamento ministeriale anche le lauree magistrali in “Engineering for the energy transition” e “European policies for digital, ecological and social transitions”. All’università di Torino il nuovo corso erogato in inglese si chiama invece “Economics of innovation for sustainable development”, mentre all’università di Parma da settembre 2024 partirà il corso di laurea magistrale in “Global Food Law: Sustainability Challenges and Innovation” (biennale, in inglese).

Questa prassi si aggiunge alle scelte anglomani del Politecnico di Milano, della Bocconi e di sempre più atenei, mentre spuntano i primi segnali per cui la stessa tendenza rischia di allargarsi anche alle scuole secondarie, come nel caso del liceo Avogadro di Torino.
Siamo al punto di non ritorno. O l’anglificazione dell’università si ferma adesso o ne saremo travolti, e poi sarà un po’ tardi per porre rimedio. Bisogna fare in modo che la presa di posizione della Crusca non sia destinata a essere uno sprazzo, ma inneschi una discussione politica seria.

L’economista Michele Gazzola – uno dei sottoscrittori più autorevoli delle lettere di protesta di Italofonia.info – ha ben spiegato ciò che sta avvenendo nelle università al convegno “LaLinguaMadre – La lingua che conviene” (svoltosi il 21 febbraio 2024 nella Sala Capitolare del Senato della Repubblica, a Roma).

La lingua madre: la lingua che conviene

Il problema principale riguarda le famigerate classifiche internazionali che assegnano a ogni ateneo dei punteggi dove uno degli indicatori più importanti è proprio la capacità di attirare gli studenti e i docenti stranieri. Per salire rapidamente nelle classifiche, gli atenei erogano perciò i corsi in inglese fregandosene delle competenze linguistiche o delle esigenze degli studenti italiani; impongono questa lingua, anche se gli italofoni calano, tanto con l’entrata degli stranieri complessivamente aumentano gli iscritti. Questo “turismo universitario”, però, favorisce gli studenti di passaggio che arrivano dall’estero, e ottenuta la laurea tornano a casa loro o vanno altrove (anche perché non parlano italiano), con conseguenze devastanti per il territorio, come lamentano gli albergatori di Rimini. Come se non bastasse, anche gli studenti italiani che studiano in inglese sono incentivati a trasferirsi all’estero, e così la “fuga dei cervelli” – secondo i dati di Gazzola – si incrementa dell’11%.
Per noi tutto ciò rappresenta un costo colossale. Le rette universitarie, infatti, non coprono interamente le ingenti spese dell’università, e lo stato deve intervenire in modo pesante per compensarle. Dunque i soldi delle nostre tasse finiscono per formare in lingua inglese gli studenti che poi andranno all’estero, con la conseguenza che altri Paesi si godranno i frutti della loro formazione fatta a nostre spese.

Questi sono i bei risultati di una classe dirigente miope che lavora per la distruzione dell’italiano e della cultura. A parte le questioni economiche, se si analizza l’aspetto qualitativo e didattico, Gazzola ha citato dei dati molto interessanti per capire il disastro di questo modello. La Libera Università di Bolzano, dove si insegna in italiano, tedesco e inglese, ha condotto delle ricerche da cui emerge che uno studente che studia in una lingua diversa da quella madre ottiene in media un voto inferiore dell’8% rispetto a chi studia nella propria lingua. Dunque apprende meno e peggio.

Ma simili dati arrivano da tutto il mondo. Sul sito Campagna per salvare l’italiano sono stati riportati quelli provenienti dalla Spagna.

Altre statistiche citate da Gazzola che arrivano dalla Svezia mostrano come gli studenti che studiano in islandese, nei questionari danno risposte corrette nel 73% dei casi, ma che questa percentuale precipita drasticamente nel caso di quelli che studiano in inglese.

Mentre in Italia si dà per scontato che l’inglese debba essere la lingua su cui puntare per la formazione – in una voluta confusione tra ciò che è internazionale e ciò che anglofono – basta vedere cosa sta avvenendo nei Paesi scandinavi per rendersi conto di come stiano davvero le cose. Lì hanno sperimentato l’insegnamento in inglese da tempo, ma stanno facendo retromarcia, perché si sono accorti che l’inglese si trasforma in un processo sottrattivo, non aggiuntivo: insegnare in inglese porta alla regressione delle lingue e della terminologia locali, all’impoverimento dell’istruzione, e alla semplificazione degli argomenti. Lo stesso problema denunciato in Olanda alla Bbc dalla professoressa di linguistica all’Università di Amsterdam Annette de Groot:

“Se usi l’inglese nell’istruzione superiore, l’olandese chiaramente peggiorerà. Si tratta di usarlo o perderlo. L’olandese si deteriorerà e la vitalità della lingua scomparirà. Si chiama bilinguismo squilibrato. Aggiungi un po’ di inglese e perdi un po’ di olandese”.

Se questo vale per i Paesi dove l’inglese è inteso dal 90% della popolazione, in Italia, dove è conosciuto da una minoranza degli italiani, l’impatto è ancora più devastante. E scelte di questo tipo creano barriere sociali, escludono e discriminano chi è italofono, imponendo a tutti la dittatura dell’inglese.

Vedremo se l’intervento della Crusca otterrà una risposta, dai destinatari ma anche dall’intellighenzia del Paese. Gli atenei seguono il proprio profitto, non gli interessi collettivi, né quelli etici di garantire il diritto di studio in italiano. Passano sopra persino a una sentenza della Corte costituzionale e dopo averla aggirata con l’introduzione di qualche sporadico corso in italiano (di solito di importanza marginale, ma che fa numero) sembra che adesso riescano addirittura a calpestarla impunemente. La questione è allora politica.

L’unica speranza è che il Ministero dell’Università e Ricerca intervenga, invece che essere complice della morte dell’italiano. E che si facciano sentire altre le altre voci autorevoli, oltre a quelle della Crusca.

La partita per estromettere l’italiano dall’università e la protesta che parte da Rimini

Tra pochi giorni sarà formalizzata la decisione dell’università di Bologna che ha deciso di sopprimere il corso di Economia del Turismo in italiano che si svolge a Rimini. Dal prossimo anno diventerà “Economics of Tourism and Cities” e si terrà solo in lingua inglese.

Qual è la novità? Il corso in inglese era già stato introdotto e già esisteva: la novità è che viene abolito quello in italiano per insegnare solo in inglese.

Questa decisione ha suscitato le proteste sia dei cittadini, che vogliono studiare nella propria lingua madre visto che è un loro diritto e che pagano le tasse, sia dalle associazioni degli albergatori che spiegano come quell’indirizzo di studi avesse da sempre un fortissimo legame con il territorio. In pratica gli studenti che uscivano da quel corso trovavano subito lavoro nelle realtà alberghiere locali. E l’offerta formativa di quella facoltà richiamava a Rimini moltissimi studenti giovani provenienti da ogni regione d’Italia. La sua cancellazione per passare all’inglese punta soprattutto agli studenti stranieri, che però una volta formati non lavoreranno a Rimini ma torneranno nei propri Paesi, anche perché se non parlano in italiano cosa li può trattenere?

Visto che nessuno o quasi dà voce al malcontento, l’associazione/portale Italofonia ha mobilitato tutti gli Attivisti dell’italiano predisponendo un modulo per inviare una protesta digitale indirizzata all’Università e in copia al Ministero dell’Università e Ricerca, all’accademia della Crusca, e ai giornali locali.

In pochi giorni sono partite centinaia e centinaia di proteste, tanto che il Resto del Carlino ha titolato: “Pioggia di mail all’Università: Salvate il corso in italiano”.

Intanto, la pioggia si fa sempre più fitta, e l’ateneo – spiazzato – ha dovuto rispondere attraverso una dichiarazione che lo stesso giornale ha riassunto in nuovo pezzo: “Corso di laurea in inglese: Una scelta condivisa“.

La risposta non ascolta né tiene conto dei pareri contrari e dei cittadini, annuncia di continuare nella strada intrapresa, e rivolta la frittata sostenendo che si tratterebbe di una “scelta condivisa” (da chi? dai vertici della scuola-azienda che non racconta di come l’associazione Promozione Alberghiera si sia invece espressa in senso contrario, secondo le testimonianze raccolte) appellandosi alle solite tiritere:

Le scelte che riguardano i progetti didattici sono il risultato di un percorso ben definito, lungo e con diversi passaggi. Un corso di laurea ha una gestazione pluriennale. Si tratta di scelte meditate, non certo di decisioni prese dall’oggi al domani. L’inglese è una lingua che apre al mondo. Per il territorio è un’opportunità (…) Dopo un’attenta e ponderata valutazione, abbiamo optato per l’inglese come lingua ufficiale del corso, scelta in linea con l’elevato livello di internazionalizzazione che caratterizza tradizionalmente il campus di Rimini.”

Queste scelte “meditate” seguono gli interessi dell’ateneo, che non coincidono con quello dei cittadini e degli italiani. Attraverso la manipolazione delle parole, la cancellazione dell’italiano e le difficoltà degli studenti si trasformano in un’imprecisata “opportunità per il territorio”. Il concetto di “internalizzazione” cela invece l’insegnamento in inglese e solo in inglese – non nelle lingue straniere e all’insegna del plurilinguismo – e forse si potrebbe meglio parlare di colonizzazione linguistica e di dittatura dell’inglese, visto che questa strana “internalizzazione” a senso unico implica l’anglificazione della formazione dei Paesi non anglofoni. Come se tutti i turisti tedeschi, spagnoli, francesi e gli altri che giungono in Italia si esprimessero normalmente in inglese (altra bufala che non risponde alla realtà).

Dietro questa visione c’è in gioco il diritto di studio nella nostra lingua madre, una partita vitale per l’italiano.

Italofonia ha intervistato un’albergatrice nonché mamma di uno studente che ha spiegato disperata:

Mio figlio e gli altri ragazzini della sua classe non possono più scegliere. Vede, noi siamo a Rimini, qui c’è il cuore del turismo, noi viviamo di turismo, e questa facoltà era molto ambita dai ragazzi di zona.  Ed era già in due lingue, ma separate: un percorso di Economia del Turismo, in italiano, pensato per le esigenze del territorio, e Turismo Internazionale, in inglese. Ora questa scelta è stata tolta. E questo li metterà in difficoltà.

Passando dal punto di vista dei cittadini a quello di un esperto come Michele Gazzola [1], economista dell’Università dell’Ulster che ci ha risposto appoggiando il nostro appello, le motivazioni di queste scelte che portano all’anglificazione della formazione universitaria nascono da un preciso interesse economico.

La parola chiave per comprendere ciò che è in atto da tempo e che nei prossimi vent’anni potrebbe esplodere in modo ancora più profondo è “razionalizzazione”, ci ha scritto Gazzola, che ha così sintetizzato la questione:

Le università hanno prima aperto corsi paralleli in italiano e in inglese, e adesso stanno chiudendo quelli in italiano perché costa troppo averne due uguali, e perché tanto sanno che con un corso in inglese possono coprire sia il mercato nazionale (sempre più piccolo a causa della denatalità) sia quello internazionale. Tanto lo studente italofono non ha scampo, può studiare in italiano solo in Italia (e in pochissimi altri posti all’estero), quindi se lo si priva del corso in italiano non andrà via.

L’ateneo di Bologna, insomma, pensa solo ai propri interessi e a reclutare gli studenti stranieri per fare numero e batter cassa – è il bel modello delle nuove scuole-aziende che hanno come “mission” il profitto — ed è poco interessato al diritto allo studio in italiano. Dietro le motivazioni ufficiali c’è proprio il fatto che il numero degli iscritti non è poi così interessante per l’Università che si vuole allargare a scapito della qualità della didattica e delle esigenze reali degli studenti del nostro Paese.

Il progetto di cancellazione dell’italiano dalla scuola alta

Tutto è iniziato al Politecnico di Torino che nell’anno accademico 2007-2008 ha avviato i primi corsi in inglese rendendoli gratuiti, al contrario di quelli in italiano, per fare in modo che partissero con un buon numero di iscritti. Ma così facendo discriminava il pubblico pagante che voleva studiare in italiano.

Il secondo episodio, ancora più grave perché ha costituito il precedente che ha fatto saltare il sistema, è avvenuto nel 2012, quando il Politecnico di Milano ha deciso di estromettere l’italiano dalla formazione di ingegneri e architetti che avrebbero potuto studiare solo in inglese. Maria Agostina Cabiddu [2], docente di Istituzioni di diritto pubblico, ha raccolto le proteste di un agguerrito gruppo di insegnanti che, dopo un appello al presidente della Repubblica Mattarella, si sono rivolti al Tar della Lombardia che ha dato loro ragione.

Ma l’ateneo e il Miur – cioè il Ministero dell’istruzione italiano che pare lavorare in favore dell’inglese – non hanno accettato il verdetto e si sono opposti. Dopo lunghi e complicati corsi e ricorsi in cui è intervenuta anche la Corte Costituzionale, è finita con una sentenza (a mio avviso “cerchiobottista”) che da una parte sanciva la “primazia” della lingua italiana nell’università, ma ammetteva i corsi in inglese con una logica di buon senso e proporzionalità che però non era definita, ma lasciata alla discrezione delle parti. E nell’atto finale della vicenda è andata a finire che il Politecnico se ne è infischiato della “primazia” sancita solo sulla carta, e ha continuato a erogare corsi quasi esclusivamente in inglese con una concezione della proporzionalità diciamo così “discutibile”. In sostanza lo spirito della legge viene aggirato con il semplice inserimento di qualche sporadico corso in italiano, magari delle materie più marginali.

Tutto ciò non era affatto destinato a rappresentare un caso isolato, fa parte di un preciso progetto – imposto dall’alto in modo surrettizio e senza interpellare gli italiani – che negli anni successivi si è diffuso in modo sempre più preoccupante. Gli altri atenei-aziende aspettavano solo la via spianata per seguire la stessa strategia per loro più remunerativa. E infatti, Maria Agostina Cabiddu, un’altra importantissima voce che ha raccolto il nostro appello, ha commentato:

Ci eravamo mossi a suo tempo proprio perché avevamo capito che si trattava di un progetto pilota.

Quello che è avvenuto negli anni successivi e quello che sta avvenendo in questi giorni è l’allargamento di questo modello, che dopo tanti altri casi è da poco stato perseguito anche dalla Bocconi di Milano, ma soprattutto rischia di estendersi anche alle scuole secondarie, come ho già denunciato a proposito del liceo Avogadro di Torino.

La novità delle proteste di Rimini è che a mettere in discussione questo progetto “italianicida” e “linguicista” [3] non ci sono solo associazioni come Italofonia e comunità virtuali come quella degli Attivisti dell’italiano, ma anche gli stessi imprenditori, le associazioni degli albergatori, e i cittadini che lottano – mi sembra impossibile doverlo raccontare – per il diritto alla studio nella propria lingua madre!

Tutto ciò è inaccettabile. Ed è inaccettabile che la cancellazione dell’italiano dalle scuole avvenga nel silenzio mediatico – a parte un giornale locale come il Resto del Carlino – e nel vuoto di prese di posizioni di intellettuali e politici.

La speranza è che le nostre proteste possano almeno riaprire un dibattito. La decisione dell’Università di Bologna sembra ormai presa, anche se formalmente sarà ufficializzata entro il 29 febbraio. Ma è importante far arrivare più voci possibili di dissenso per cercare di fare in modo che altri atenei, prima di scegliere di andare in questa direzione, debbano tenere conto anche delle resistenze dei cittadini oltre ai numerini del proprio “businness plan”.

Chi vuole aiutare i riminesi, gli albergatori, Italofonia e soprattutto il diritto allo studio in italiano e la lingua italiana si faccia sentire, e si unisca al nostro appello.

In meno di 30 secondi puoi aderire alla protesta sottoscrivendo e inviando un messaggio precompilato, ma è possibile personalizzarlo a piacere, attraverso il modulo a fine di questo articolo.

Grazie.

Antonio Zoppetti

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Note
[1] Per approfondire la questione: Michele Gazzola, “La ‘anglificazione’ dell’università in Europa è evitabile?Analisi e proposte per una università plurilingue” (2023).
[2] Maria Agostina Cabiddu ha curato: L’italiano alla prova dell’internalizzazione (goWare ed Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA, 2017).
[3] Il linguicismo è concetto introdotto dalla finlandese Tove Skutnabb-Kangas: come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo è la discriminazione in base alla lingua madre, che porta a giudizi sulla competenza o non competenza nelle lingue ufficiali o internazionali.