Inclusività e anglicizzazione: la nuova lingua che si vuole imporre dall’alto

Di Antonio Zoppetti

Il Consiglio di amministrazione dell’Università di Trento ha varato da pochi giorni il Regolamento generale di Ateneo scritto con il “femminile sovraesteso”, come l’hanno chiamato, cioè cambiando l’uso storico dell’italiano e introducendo il femminile inclusivo. Tutte le cariche sono state femminilizzate, anche se includono il personale maschile, perché si sottintende la parola “persona”: la presidente, la rettrice, la segretaria, le componenti del Nucleo di valutazione, la direttrice del Sistema bibliotecario di Ateneo, le professoresse, la candidata, la decana…

“Una scelta che ha una valenza fortemente simbolica e che segue altre decisioni in questo senso intraprese dall’Ateneo a partire dal 2017 con l’approvazione del vademecum ‘Per un uso del linguaggio rispettoso delle differenze’”, si legge nel comunicato stampa che si può trovare sulla loro “pressroom” (ufficio stampa forse non è rispettoso delle differenze):

Questa provocazione – che fa però parte del linguaggio istituzionale e ha dunque la sua ufficialità – vuole fare riflettere sul sacrosanto problema della discriminazione femminile, anche se considerare il maschile inclusivo “discriminante” è una presa di posizione politica piuttosto discutibile, non condivisa e che non si fa alcun problema a entrare a gamba tesa sull’uso storico dell’italiano e la sua norma. Personalmente preferirei che le donne avessero delle reali pari opportunità sul lavoro, che fossero pagate come gli uomini e che avessero la possibilità di fare carriera e magari anche di diventare “rettrici” universitarie, visto che al momento sembra che ce ne siano solo 12 in Italia (fonte: Lorenza Ferraiuolo, “Università, Giovanna Spatari è la prima rettrice del Sud Italia”, Fortune Italia, 28/11/2023).

Se poi si vogliono far chiamare “rettori” o “rettrici” credo che dovrebbe essere una loro scelta, e vorrei ricordare che la maggior parte delle donne che sono avvocati, notai o architetti preferiscono il maschile inclusivo, dunque femminilizzarle a forza e volerle “educare” è un atto che non pare troppo “rispettoso delle differenze”. La verità è che questa inclusività esclude… ma comunque la si pensi, non resta che constatare che le fortissime pressioni sociali che spingono per cambiare l’uso in nome dell’inclusività sono le stesse che vogliono cambiare l’uso introducendo l’inglese. Basta contare gli anglicismi presenti sulla pagina principale del sito dell’Ateneo di Trento per vedere come sono “rispettosi” della lingua italiana: ci sono le call, gli hackathon, la reception del Rettorato, le news e le newsletter, gli open days (con la s del plurale), una challenge, la brand identity, il fundraising, lo staff, la categoria “people“…

Anche la Treccani nel 2022 ha deciso di registrare i femminili di nomi e aggettivi prima del maschile, e contemporaneamente ha deciso anche di introdurre il modulo Whistleblowing (proprio sopra la Cookie Policy e la Privacy Policy) invece delle Segnalazioni come si legge all’interno del documento.

Come ho ribadito anche la scorsa settimana al dibattito di Pordenone su dove va la lingua italiana – che è stato archiviato su YouTube se qualcuno è interessato – mentre in Italia sono state emanate raccomandazioni sulla femminilizzazione delle cariche in cui è stata coinvolta la Crusca, sugli anglicismi ci si volta dall’altra parte. E il paradosso è che si usano due pesi e due misure: sull’inclusività si interviene senza remore per educare tutti a parlare in un certo modo, ma davanti ai troppi anglicismi si risponde che sull’uso non si può di certo intervenire perché la lingua arriverebbe “dal basso”. Al contrario si diffondono dall’alto e del fatto che non siano trasparenti o rispettosi del nostro patrimonio linguistico storico o che creino fratture e barriere sociali sembra che non importi niente a nessuno.

L’imposizione manipolatoria dell’inglese nella comunicazione pubblica

Di Antonio Zoppetti

Durante l’Occupazione, mille parole tedesche sono spuntate sui muri di Parigi e di altre città francesi. È iniziato qui il mio orrore per le lingue dominanti e l’amore per quelle che si volevano eradicare. Visto che oggi, in quegli stessi luoghi, conto più parole americane che non parole destinate ai nazisti all’epoca, cerco di difendere la lingua francese, che ormai è quella dei poveri e degli assoggettati. E constato che, di padre in figlio, i collaborazionisti di questa importazione si reclutano nella stessa classe, la cosiddetta élite.
(Michel Serres, Contro i bei tempi andati, Bollati Boringhieri, 2018).

Ogni volta che prendo un Frecciarossa vengo travolto da nuovi anglicismi imposti agli utenti in modo voluto e prepotente. I clienti, che un tempo per definizione avevano sempre ragione, si sono trasformati in utenti da manipolare; e la prima regola della comunicazione trasparente, che una volta presupponeva l’adozione di un linguaggio adatto e comprensibile per il destinatario, è stata sostituita dalle nuove prassi che impongono a tutti la lingua decisa dagli strateghi della comunicazione con il risultato che è il destinatario che deve per forza di cose assoggettarsi alla terminologia decisa dal mittente.

La lingua è potere. Attraverso le parole si può controllare il destinatario, intimidirlo, trasformare chi non è d’accordo in chi non ha capito, e soprattutto educarlo. La lingua della comunicazione pubblica, cittadina e istituzionale ci martella a suon di anglicismi in modo sistematico e ben preordinato. E la sensazione è davvero quella di vivere in un Paese occupato.

Cronaca di un viaggio nell’itanglese

Alle 9 esco di casa per raggiungere la stazione. Passo davanti all’insegna di un Italian Bakery aperto non da molto accanto all’Italian Hair Line. Si tratta banalmente di un fornaio e di un parrucchiere in un’area semiperiferica o semicentrale (dipende dai punti di vista) di Milano, in un quartiere popolare dove non ci sono turisti. Queste attività commerciali che si elevano attraverso l’inglese magari con il pretesto di voler essere internazionali hanno come clientela gli italiani che scendono nel negozio sotto casa, o se sono di passaggio sono attirati dalle pizzette nelle vetrine, ma dubito che mediamente sappiano cosa significhi “bakery”.

Alle 9 e 15 sono in metropolitana. A quell’ora l’affluenza è media, c’è persino qualche posto a sedere. Mi guardo intorno. Ci sono studenti, gente comune, e una buona fetta di “stranieri” di varia provenienza. Cinesi, ispanici, altri che parlano in qualche lingua che non identifico, e che dall’aspetto potrebbero essere arabi, rumeni, slavi… ma non vedo inglesi o americani. Eppure la comunicazione è bilingue a base inglese, nella cartellonistica e soprattutto negli annunci sonori. A ogni fermata l’inglese ti penetra come un mantra: prossima fermata Loreto, next stop Loreto
La porta della carrozza è interamente coperta da una pubblicità con scritte in inglese e, in piccolo, un motto italiano che specifica di cosa si stia parlando, ma anche la logica degli altri pannelli pubblicitari segue quasi sempre lo stesso andazzo.

Alle 9 e 30 attraverso il “gate” della stazione (a Milano non ci sono le porte, solo i gate), mi dirigo verso il mio binario e mi sento sollevato perché penso a come è bello che ci sia ancora il “binario”, anche se mi assale l’angoscia che la prossima volta a qualcuno sarà venuto in mente di chiamarlo tracks o alla peggio binary, perché binario è un po’ troppo italiano. Su Italo hanno già sostituito ufficialmente il “capotreno” con il train manager, nella comunicazione ai passeggeri e anche nei contratti di lavoro.
Intanto devo preoccuparmi di fare il “Self Check In” del mio “ticketless”, perché le Ferrovie hanno deciso che la “convalida” “del “biglietto digitale” si debba chiamare in inglese. È la globalizzazione bellezza! È la nuova terminologia imposta alla gente, e se qualcuno si perde e non capisce, il personale gli spiega tutto nella terminologia che hanno deciso gli strateghi della “comunication”. Cartellonistica e annunci sono solo in italiano e inglese. Il mantra dell’inglese sonoro, come nella metropolitana, ritorna ad anglificare la mente e il cuore dei passeggeri. Un tempo c’erano i corsi di lingua da apprendere durante il sonno, adesso lo si può fare anche nel dormiveglia in treno, il corso d’inglese è compreso nel prezzo del biglietto. Il plurilinguismo non esiste, è stato cancellato.
Guardo i nuovi schermi informativi in italiano-itanglese o inglese, e ripenso ai vecchi cartellini che invitavano a non sporgersi dai finestrini, a non gettare oggetti e a non fumare in quattro lingue: italiano, inglese, francese e tedesco. Oggi le altre lingue sono state buttate via. Che gli stranieri imparino l’inglese, e se no, si arrangino. L’inglese è la nuova lingua da imporre. Punto. Lo si fa nella sua interezza come lingua “internazionale” della comunicazione cittadina e ferroviaria, e attraverso gli anglicismi che vengono introdotti in italiano al posto delle nostre parole storiche.

Un annuncio spiega che per ogni reclamo è possibile usare il “webform” sul sito Trenitalia oppure il modulo cartaceo. “Webform” è il nuovo anglicismo introdotto, o forse sono io che non l’avevo mai sentito declamare prima, comunque sia fa parte ormai della terminologia ufficiale della colonia Italia. Mi domando perché un modulo digitale sia indicato come webform mentre se la stessa cosa è cartacea diventa “modulo”. La risposta è che tutto ciò che è nuovo o riguarda l’informatica viene riproposto in inglese: “webform” è ripetuto anche nella traduzione in inglese, e arriva da lì. Gli strateghi hanno pensato bene di introdurlo invece di tradurlo.

Due ore dopo il treno è in forte ritardo. Capisco che ho ormai perso la coincidenza che da Mestre mi dovrebbe portare a Pordenone. La gente è spazientita. Arriva l’annuncio ufficiale e rimango incredulo di fronte a quelle parole, soprattutto quando vengo informato anche attraverso un messaggino:

“A causa di un guasto … il tempo di viaggio del treno Frecciarossa XXX è superiore di circa 30 minuti rispetto al programmato … Distinti saluti, Customer care…”

Nulla è lasciato al caso. Gli strateghi della comunicazione devono aver pensato di eliminare la parola “ritardo” che probabilmente suscita “vibrazioni negative” per l’azienda (e incentivano la richiesta dei rimborsi), dunque preferiscono usare la locuzione manipolatoria “il tempo di viaggio è superiore di 30 minuti”. Nove parole contro una: ri-tar-do. In compenso non si firmano Assistenza clienti, ma Customer Care, e in questo modo la presa per il culo del passeggero è conclusa. Gli strateghi della comunicazione – gli stessi che magari sono pronti a spiegarci che il ricorso all’inglese è motivato anche al fatto che gli anglicismi sono più sintetici rispetto all’italiano – hanno le idee chiare: la sinteticità è un valore solo per giustificare gli anglicismi, ma se si deve occultare il ritardo qualunque cosa va bene.

La lingua è un fiume che va dove vuole?

Qualche ora dopo sono finalmente al mio dibattito su dove sta andando la lingua italiana. Il mio interlocutore è un convinto seguace del “liberismo” linguistico, sostiene che la lingua è un fiume che va dove vuole, non è possibile controllarla.

Chiedo: ma “la lingua è un fiume che va dove vuole chi?”. La gente e il popolo? Mi pare che vada dove vuole chi è nelle condizioni di imporla al popolino a cui non resta che ripetere self check in e gli altri 4000 anglicismi che ci arrivano prevalentemente dall’alto, dall’espansione delle multinazionali e della loro lingua, dalla nuova cultura coloniale dove sembra esserci solo l’inglese e dai collaborazionisti dell’inglese che si annidano proprio nelle élite. Il punto è che l’acqua “va dove vuole” nella natura selvaggia, altrimenti viene incanalata per farla scorrere sotto i ponti delle città, nei sistemi di irrigazione, mentre si costruiscono gli argini proprio per orientarne i flussi, e quando le acque tracimano è perché è mancata la manutenzione, sono stati trascurati o fatti male.

L’idea che orientare la lingua sia un’imposizione autoritaria è tipica italiana, perché prevale lo stereotipo che l’unico modello di politica linguistica a cui guardare sia quello del fascismo. Mi viene fatto notare che anche se da un punto di vista razionale una parola come “covid” che indica una malattia, e non un virus (il coronavirus), dovrebbe essere femminile, e nonostante inizialmente l’allora presidente della Crusca avesse consigliato di usare il genere più appropriato, nell’uso si è imposto il maschile. Questa non è però la prova dell’ingovernabilità della lingua, ma del fatto che da noi mancano delle istituzioni che la regolamentino in modo ufficiale. Infatti anche in Francia si è posta la questione, e il giorno dopo che l’Accademia francese ha spiegato la correttezza del femminile, tutti si sono adeguati e hanno scritto così, non perché l’accademia sia un organo che obbliga la gente a parlare in un certo modo, tutto il contrario: la gente – e i giornali – riconoscono questo ruolo di consulenza che accettano e seguono, contenti che esistano delle prescrizioni e delle uniformazioni su cui modellarsi. Da noi questo ruolo appartiene ai mezzi di informazione che si muovono in modo caotico, istintivo e spesso pasticciato (oltre a preferire l’inglese). C’è insomma una bella differenza tra autoritarismo e autorevolezza, tra imposizione forzata e spontaneo riconoscimento di un punto di riferimento normativo necessario per conservare l’integrità e l’identità linguistica.

E allora è più sensato seguire l’autorevolezza di un’accademia o lasciare che la lingua la facciano i giornali o le ferrovie? Se questi ultimi introducono l’inglese al posto dell’italiano non è anche questa un’imposizione?

Mentre nell’italietta provinciale pensiamo che lo tsunami anglicus sia inarginabile, all’estero gli argini si costruiscono e funzionano, magari non sempre, ma complessivamente l’anglicizzazione del francese o dello spagnolo non è certo paragonabile alla nostra. Il liberismo linguistico, che io chiamo invece anarchismo metodologico, presuppone che sulla lingua non si debba intervenire, il che è una presa di posizione politica (più che linguistica) comprensibile ma anche discutibile. Per giustificarla si dice che tanto non è possibile imporre alla gente come parlare. Ma basta prendere un Frecciarossa per constatare che non è affatto così. La verità è che la lingua è un meccanismo di imitazione per cui la gente segue i modelli che arrivano dai centri di irradiazione linguistici, e questi ci stanno presentando un ben preciso modello di newlingua che di liberale non ha proprio nulla. Vige la legge del più forte, e non voler tutelare l’italiano davanti alla glottofagia dell’inglese significa essere complici della sua distruzione, che qualcuno scambia per una “normale” evoluzione e pensa pure che arrivi dal basso, come se l’attuale “dittatura dell’inglese” fosse qualcosa di “democratico”.

A me pare invece che siamo in presenza di un cambio di paradigma conflittuale dove una minoranza di collaborazionisti che occupano i centri di irradiazione della lingua – dalle istituzioni ai mezzi di informazione – sta educando le masse e imponendo la lingua dei padroni. A questo modello dominante bisognerebbe contrapporne un altro, che purtroppo non si vede tra gli intellettuali, ma è invece presente e sentito in larghe fasce della popolazione che non ne possono più degli anglicismi e si trovano tagliate fuori.

La partita per estromettere l’italiano dall’università e la protesta che parte da Rimini

Tra pochi giorni sarà formalizzata la decisione dell’università di Bologna che ha deciso di sopprimere il corso di Economia del Turismo in italiano che si svolge a Rimini. Dal prossimo anno diventerà “Economics of Tourism and Cities” e si terrà solo in lingua inglese.

Qual è la novità? Il corso in inglese era già stato introdotto e già esisteva: la novità è che viene abolito quello in italiano per insegnare solo in inglese.

Questa decisione ha suscitato le proteste sia dei cittadini, che vogliono studiare nella propria lingua madre visto che è un loro diritto e che pagano le tasse, sia dalle associazioni degli albergatori che spiegano come quell’indirizzo di studi avesse da sempre un fortissimo legame con il territorio. In pratica gli studenti che uscivano da quel corso trovavano subito lavoro nelle realtà alberghiere locali. E l’offerta formativa di quella facoltà richiamava a Rimini moltissimi studenti giovani provenienti da ogni regione d’Italia. La sua cancellazione per passare all’inglese punta soprattutto agli studenti stranieri, che però una volta formati non lavoreranno a Rimini ma torneranno nei propri Paesi, anche perché se non parlano in italiano cosa li può trattenere?

Visto che nessuno o quasi dà voce al malcontento, l’associazione/portale Italofonia ha mobilitato tutti gli Attivisti dell’italiano predisponendo un modulo per inviare una protesta digitale indirizzata all’Università e in copia al Ministero dell’Università e Ricerca, all’accademia della Crusca, e ai giornali locali.

In pochi giorni sono partite centinaia e centinaia di proteste, tanto che il Resto del Carlino ha titolato: “Pioggia di mail all’Università: Salvate il corso in italiano”.

Intanto, la pioggia si fa sempre più fitta, e l’ateneo – spiazzato – ha dovuto rispondere attraverso una dichiarazione che lo stesso giornale ha riassunto in nuovo pezzo: “Corso di laurea in inglese: Una scelta condivisa“.

La risposta non ascolta né tiene conto dei pareri contrari e dei cittadini, annuncia di continuare nella strada intrapresa, e rivolta la frittata sostenendo che si tratterebbe di una “scelta condivisa” (da chi? dai vertici della scuola-azienda che non racconta di come l’associazione Promozione Alberghiera si sia invece espressa in senso contrario, secondo le testimonianze raccolte) appellandosi alle solite tiritere:

Le scelte che riguardano i progetti didattici sono il risultato di un percorso ben definito, lungo e con diversi passaggi. Un corso di laurea ha una gestazione pluriennale. Si tratta di scelte meditate, non certo di decisioni prese dall’oggi al domani. L’inglese è una lingua che apre al mondo. Per il territorio è un’opportunità (…) Dopo un’attenta e ponderata valutazione, abbiamo optato per l’inglese come lingua ufficiale del corso, scelta in linea con l’elevato livello di internazionalizzazione che caratterizza tradizionalmente il campus di Rimini.”

Queste scelte “meditate” seguono gli interessi dell’ateneo, che non coincidono con quello dei cittadini e degli italiani. Attraverso la manipolazione delle parole, la cancellazione dell’italiano e le difficoltà degli studenti si trasformano in un’imprecisata “opportunità per il territorio”. Il concetto di “internalizzazione” cela invece l’insegnamento in inglese e solo in inglese – non nelle lingue straniere e all’insegna del plurilinguismo – e forse si potrebbe meglio parlare di colonizzazione linguistica e di dittatura dell’inglese, visto che questa strana “internalizzazione” a senso unico implica l’anglificazione della formazione dei Paesi non anglofoni. Come se tutti i turisti tedeschi, spagnoli, francesi e gli altri che giungono in Italia si esprimessero normalmente in inglese (altra bufala che non risponde alla realtà).

Dietro questa visione c’è in gioco il diritto di studio nella nostra lingua madre, una partita vitale per l’italiano.

Italofonia ha intervistato un’albergatrice nonché mamma di uno studente che ha spiegato disperata:

Mio figlio e gli altri ragazzini della sua classe non possono più scegliere. Vede, noi siamo a Rimini, qui c’è il cuore del turismo, noi viviamo di turismo, e questa facoltà era molto ambita dai ragazzi di zona.  Ed era già in due lingue, ma separate: un percorso di Economia del Turismo, in italiano, pensato per le esigenze del territorio, e Turismo Internazionale, in inglese. Ora questa scelta è stata tolta. E questo li metterà in difficoltà.

Passando dal punto di vista dei cittadini a quello di un esperto come Michele Gazzola [1], economista dell’Università dell’Ulster che ci ha risposto appoggiando il nostro appello, le motivazioni di queste scelte che portano all’anglificazione della formazione universitaria nascono da un preciso interesse economico.

La parola chiave per comprendere ciò che è in atto da tempo e che nei prossimi vent’anni potrebbe esplodere in modo ancora più profondo è “razionalizzazione”, ci ha scritto Gazzola, che ha così sintetizzato la questione:

Le università hanno prima aperto corsi paralleli in italiano e in inglese, e adesso stanno chiudendo quelli in italiano perché costa troppo averne due uguali, e perché tanto sanno che con un corso in inglese possono coprire sia il mercato nazionale (sempre più piccolo a causa della denatalità) sia quello internazionale. Tanto lo studente italofono non ha scampo, può studiare in italiano solo in Italia (e in pochissimi altri posti all’estero), quindi se lo si priva del corso in italiano non andrà via.

L’ateneo di Bologna, insomma, pensa solo ai propri interessi e a reclutare gli studenti stranieri per fare numero e batter cassa – è il bel modello delle nuove scuole-aziende che hanno come “mission” il profitto — ed è poco interessato al diritto allo studio in italiano. Dietro le motivazioni ufficiali c’è proprio il fatto che il numero degli iscritti non è poi così interessante per l’Università che si vuole allargare a scapito della qualità della didattica e delle esigenze reali degli studenti del nostro Paese.

Il progetto di cancellazione dell’italiano dalla scuola alta

Tutto è iniziato al Politecnico di Torino che nell’anno accademico 2007-2008 ha avviato i primi corsi in inglese rendendoli gratuiti, al contrario di quelli in italiano, per fare in modo che partissero con un buon numero di iscritti. Ma così facendo discriminava il pubblico pagante che voleva studiare in italiano.

Il secondo episodio, ancora più grave perché ha costituito il precedente che ha fatto saltare il sistema, è avvenuto nel 2012, quando il Politecnico di Milano ha deciso di estromettere l’italiano dalla formazione di ingegneri e architetti che avrebbero potuto studiare solo in inglese. Maria Agostina Cabiddu [2], docente di Istituzioni di diritto pubblico, ha raccolto le proteste di un agguerrito gruppo di insegnanti che, dopo un appello al presidente della Repubblica Mattarella, si sono rivolti al Tar della Lombardia che ha dato loro ragione.

Ma l’ateneo e il Miur – cioè il Ministero dell’istruzione italiano che pare lavorare in favore dell’inglese – non hanno accettato il verdetto e si sono opposti. Dopo lunghi e complicati corsi e ricorsi in cui è intervenuta anche la Corte Costituzionale, è finita con una sentenza (a mio avviso “cerchiobottista”) che da una parte sanciva la “primazia” della lingua italiana nell’università, ma ammetteva i corsi in inglese con una logica di buon senso e proporzionalità che però non era definita, ma lasciata alla discrezione delle parti. E nell’atto finale della vicenda è andata a finire che il Politecnico se ne è infischiato della “primazia” sancita solo sulla carta, e ha continuato a erogare corsi quasi esclusivamente in inglese con una concezione della proporzionalità diciamo così “discutibile”. In sostanza lo spirito della legge viene aggirato con il semplice inserimento di qualche sporadico corso in italiano, magari delle materie più marginali.

Tutto ciò non era affatto destinato a rappresentare un caso isolato, fa parte di un preciso progetto – imposto dall’alto in modo surrettizio e senza interpellare gli italiani – che negli anni successivi si è diffuso in modo sempre più preoccupante. Gli altri atenei-aziende aspettavano solo la via spianata per seguire la stessa strategia per loro più remunerativa. E infatti, Maria Agostina Cabiddu, un’altra importantissima voce che ha raccolto il nostro appello, ha commentato:

Ci eravamo mossi a suo tempo proprio perché avevamo capito che si trattava di un progetto pilota.

Quello che è avvenuto negli anni successivi e quello che sta avvenendo in questi giorni è l’allargamento di questo modello, che dopo tanti altri casi è da poco stato perseguito anche dalla Bocconi di Milano, ma soprattutto rischia di estendersi anche alle scuole secondarie, come ho già denunciato a proposito del liceo Avogadro di Torino.

La novità delle proteste di Rimini è che a mettere in discussione questo progetto “italianicida” e “linguicista” [3] non ci sono solo associazioni come Italofonia e comunità virtuali come quella degli Attivisti dell’italiano, ma anche gli stessi imprenditori, le associazioni degli albergatori, e i cittadini che lottano – mi sembra impossibile doverlo raccontare – per il diritto alla studio nella propria lingua madre!

Tutto ciò è inaccettabile. Ed è inaccettabile che la cancellazione dell’italiano dalle scuole avvenga nel silenzio mediatico – a parte un giornale locale come il Resto del Carlino – e nel vuoto di prese di posizioni di intellettuali e politici.

La speranza è che le nostre proteste possano almeno riaprire un dibattito. La decisione dell’Università di Bologna sembra ormai presa, anche se formalmente sarà ufficializzata entro il 29 febbraio. Ma è importante far arrivare più voci possibili di dissenso per cercare di fare in modo che altri atenei, prima di scegliere di andare in questa direzione, debbano tenere conto anche delle resistenze dei cittadini oltre ai numerini del proprio “businness plan”.

Chi vuole aiutare i riminesi, gli albergatori, Italofonia e soprattutto il diritto allo studio in italiano e la lingua italiana si faccia sentire, e si unisca al nostro appello.

In meno di 30 secondi puoi aderire alla protesta sottoscrivendo e inviando un messaggio precompilato, ma è possibile personalizzarlo a piacere, attraverso il modulo a fine di questo articolo.

Grazie.

Antonio Zoppetti

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Note
[1] Per approfondire la questione: Michele Gazzola, “La ‘anglificazione’ dell’università in Europa è evitabile?Analisi e proposte per una università plurilingue” (2023).
[2] Maria Agostina Cabiddu ha curato: L’italiano alla prova dell’internalizzazione (goWare ed Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA, 2017).
[3] Il linguicismo è concetto introdotto dalla finlandese Tove Skutnabb-Kangas: come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo è la discriminazione in base alla lingua madre, che porta a giudizi sulla competenza o non competenza nelle lingue ufficiali o internazionali.

Nomophobia e italianofobia

Di Antonio Zoppetti

Ultimamente mi è capitato di imbattermi più volte nella parola “nomofobia”, che non è la paura per i nomi (magari quelli inglesi), bensì l’acronimo di “no mobile phone phobia”, la sindrome da disconnessione dalla Rete, la paura di rimanere sconnessi, la “non-prende-fobia” si potrebbe dire spiritosamente.

Non è un concetto nuovissimo, è un termine coniato nel 2008 nel Regno Unito in seguito a una ricerca commissionata dal governo per indagare sui disturbi connessi all’utilizzo dei cellulari. Inizialmente era legato anche al timore di perdere il telefonino, di scaricare la batteria sul più bello o di rimanere senza credito, ma oggi prevale l’accezione dell’ansia da sconnessione in generale.

Quello che mi colpisce non è tanto il fatto che in italiano “nomo” è di solito un suffisso – più che un prefisso – che deriva dal greco e ha a che fare con il governare, il gestire e l’amministrare (economo, agronomo) o con le leggi, come nell’eteronomia di Kant (il contrario di autonomia) vocabolo che utilizzava per indicare le norme etiche o morali che arrivano dalle leggi e dall’esterno, invece che dalla propria coscienza.

Comunque, anche se nomo acquista un altro significato un po’ fuorviante e poco trasparente, fuori dall’inglese, pazienza, non è poi così grave.

Trovo invece assurdo e insopportabile ricorrere all’espressione inglese al posto dell’adattamento, e parlare di nomophobia anziché di nomofobia, come dovrebbe essere naturale.
Purtroppo, le menti servili e colonizzate dei giornalisti preferiscono spesso i grafemi e i fonemi inglesi, dal Corriere a Io donna (con le sue rubriche beauty e royal), passando per WOMLifestyle (che inquadra il pezzo nella categoria “Selfcare”, ma del resto il nome della rivista dice tutto) e finendo con la Guida psicologi dove si raggiunge l’apoteosi dell’itanglese.

L’ultimo titolone dell’immagine sopra è composto da 10 parole, di cui 4 anglicismi (online, offline, nomophobia e smartpone). La parola italiana è una sola (dipendenza) e il resto si riduce a due articoli (la), una preposizione (da), due congiunzioni (o ed e) di cui la prima è scritta in modo errato: la d eufonica su “od” è decaduta nell’italiano moderno e non si usa nemmeno davanti alla vocale “o”. Un titolo che la dice lunga sullo stato dell’italiano (sempre meno conosciuto) e sulla sua regressione davanti all’inglese.

Se l’eteronomia designa la “dipendenza da leggi esterne o straniere” anche la nomophobia rivela lo stesso fenomeno, ma le leggi esterne e straniere si devono reinterpretare come dipendenza dal solo inglese che invece di essere percepito come esterno viene interiorizzato come fosse il nostro naturale nuovo idioma. È l’anglomania tipica italiana.

Anglomania e italianofobia

Il rovescio della medaglia dell’anglomania è l’italianofobia, dove fobia non significa solo timore e paura, ma più precisamente disprezzo e avversione, come in xenofobia o omofobia. Questi due ultimi sentimenti sono però stigmatizzati e si possono persino configurare come un reato, mentre il vilipendio alla nostra lingua non solo non è contemplato, ma se qualcuno prova a dire qualcosa in merito viene subito estromesso dal branco. Giornalisti, intellettuali e persino molti linguisti sono pronti a dargli di volta in volta del purista, del retrogrado contrario agli internazionalismi (parola che dietro l’ipocrisia indica gli anglicismi, anche se l’inglese non è affatto la lingua del mondo), del sovranista fanatico dell’autarchia linguistica (un nuovo modo per dare del fascista), o dell’oscurantista che non accetta che le lingue si evolvono (certo, peccato che l’italiano si sta invece involvendo come nel titolo della Guida psicologi).

E così la nostra lingua viene sempre più abbandonata in favore dei fonemi e grafemi inglesi, fino a che qualcuno non penserà di chiamarli graphemi e phonemi che gli suoneranno forse più familiari, come quando si parla di photo gallery come fosse normale, invece di galleria fotografica. È l’italianofobia che induce a dire vision, mission, tutor e competitor invece di visione, missione, tutore o competitore, e gli anglopuristi si irritano quando si notare loro l’equivalenza lessicale, perché, si sa, l’inglese è portatore di ben altre sfumature di significato ed è in grado di evocare e di connotare ciò che l’italiano svilirebbe. È così che l’alberto-sordità della nostra classe dirigente porta a parlare di economy invece che di economia, di food invece di alimentazione e via dicendo.

Per parafrasare Freud, l’inglese è il nuovo totem, e l’italiano è sempre più tabù. Ai miei studenti di “storytelling” (la scrittura persuasiva, la retorica, l’arte della narrazione non sono espressioni utilizzabili, suonerebbero meno tecniche) ho dovuto spiegare che tabù si scrive con la “ù” accentata (come appunto in Totem e tabù, un libro mai sentito) e non taboo che veniva loro istintivo sul modello di tatoo (a quando i tatooaggi?).

L’anglofobia non è contemplata

Visto che sono di moda le nuove malattie figlie dell’anglomondo globalizzato viene da chiedersi perché non si contempli anche l’anglofobia, che non è la semplice avversione per gli anglicismi, è proprio un senso di fastidio che genera ansia davanti allo tsunami anglicus che sta snaturando le lingue di tutto il mondo, quando va bene, per farle regredire allo status di dialetti di un mondo che parla inglese, quando va male, o farle estinguere e morire quando va ancora peggio.

Non è un patema immotivato.

Il tunisino Claude Hagège ha osservato che il “monolinguismo a vantaggio dell’inglese è vissuto come garanzia (…) della modernità e del progresso, mentre il plurilinguismo è associato al sottosviluppo e all’arretratezza economica, sociale e politica, oppure è considerato una fase, negativa e breve, sulla via che deve condurre al solo inglese” [Claude Hagege, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 100]. E quando preferiamo gli anglicismi non facciamo altro che aderire – più o meno inconsapevolmente – a questa mentalità. Non ci rendiamo conto che l’anglicizzazione dell’italiano non è un’evoluzione ma un’involuzione e che l’inglese globale è una minaccia per le lingue locali. Hagège ha denunciato “un olocausto che fluisce senza sosta, apparentemente nell’indifferenza generale” determinato soprattutto dall’inglese, che “svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle lingue” (ivi, p. 7). Ha calcolato che nel mondo “ogni anno muoiono venticinque lingue: un fenomeno di dimensioni spaventose” (ivi, p. 99). Se oggi quelle vive sono circa 5.000, fra un secolo saranno la metà, se non cambia qualcosa. Una preoccupazione espressa anche in molti altri studi e persino dall’Onu.

Lo scrittore africano Ngũgĩ wa Thiong’o ha vissuto sulla sua pelle la regressione delle lingue della sua terra schiacciate dalle lingue imposte dalle scuole coloniali, e ha scritto un libro in cui ha raccontato molto bene questi processi [Decolonizzare la mente, Jaca Book, 2015]. Perciò, in una recente intervista, ha invitato tutti a ribellarsi alla dittatura dell’inglese, la lingua che “fiorisce sul cimitero degli altri idiomi” [“Scrittori, ribelliamoci all’inglese”, di Pietro Veronese (intervista a Ngũgĩ wa Thiong’o), la Repubblica, 2 agosto 2019].

Invece noi continuano a farci del male da soli, a scrivere nomophobia e ad anglicizzarci a più non posso. L’anglofobia non è contemplata perché l’inglese globale non è riconosciuto come un morbo, ma è spacciato per una medicina. È la ricostruzione della torre di Babele che finalmente permetterà a tutti di comunicare senza problemi nella lingua superiore, la lingua naturale dei padroni che la impongono a tutti gli altri. Costoro si possono permettere il lusso di non impararne altre, perché puntano a far diventare la loro lingua madre quella internazionale e hanno tutti gli interessi a proclamarla lingua franca. Quanto al plurilinguismo e alla regressione delle altre lingue… amen! Del resto è risaputo che ogni medicina ha i suoi piccoli effetti collaterali.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Colonialismo linguistico, collaborazionisti e colonizzati: handle, reverse shopping e underdog

[di Antonio Zoppetti]

Davanti allo tsunami anglicus che travolge la lingua italiana ricorre sempre la stessa domanda. Perché?
Perché continuiamo ad accumulare parole ed espressioni in inglese e stiamo abbandonando l’italiano?
Perché gli anglicismi sono preferiti, evocano qualcosa di più dei corrispondenti italiani e sono diventati un tratto socio-distintivo con cui chi appartiene agli strati sociali alti si eleva e si identifica?

Il fenomeno non trova una spiegazione nell’ambito della linguistica, ma in quello sociale. Per comprenderlo basta analizzare tre anglicismi che sono spuntati nelle ultime settimane: handle, reverse shopping e underodog.

Gli handle e il colonialismo linguistico

Il primo esempio risale alla settimana scorsa, quando Youtube ha inondato le caselle postali di tutti con un messaggio il cui oggetto recita: “Ti presentiamo gli handle di YouTube”.
Che cosa cavolo sono gli handle? Qual è la novità?

La tecnica di questa comunicazione è volutamente cialtrona, e punta non alla chiarezza, ma a diffondere la terminologia in inglese senza definirla – la definizione rivelerebbe il trucco e il nulla – in modo che il destinatario si faccia da solo l’idea di che cosa possa essere questa nuova parola, in modo intuitivo. Così arriva a comprendere in modo confuso un concetto, ma non ha la parola per definirlo se non nell’inglese imposto dall’alto. A dare il nome delle cose non sono più i nativi italiani, ma le multinazionali d’oltreoceano.

La tecnica si basa sugli stessi schemi comunicativi che prevedono la ripetizione ossessiva della parola handle come fosse un nome proprio necessario e insostituibile associato a una serie di frasi esperienziali fumose di cui non si deve spiegare il significato. Ecco il testo con cui Youtube si rivolge ai colonizzati:

“Ti scriviamo per comunicarti che nelle prossime settimane YouTube introdurrà gli handle, per permettere ai membri della community di trovare altri utenti ed entrare in contatto con loro più facilmente. Il tuo handle è univoco per il tuo canale e viene utilizzato per menzionarti nei commenti, nei post della scheda Community e non solo. Ecco ciò che devi sapere: Nel corso delle prossime settimane, implementeremo gradualmente la possibilità di scegliere un handle per tutti i canali. Riceverai un’altra email e una notifica in YouTube Studio quando potrai scegliere il tuo. Nella maggior parte dei casi, se hai già un URL personalizzato per il tuo canale, te lo assegneremo come handle. Se desideri un handle diverso da quello assegnato, potrai cambiarlo. Se al momento non hai un URL personalizzato, potrai comunque scegliere un handle per il tuo canale. A partire dal 14 novembre 2022, se non avrai ancora selezionato un handle per il tuo canale, YouTube te ne assegnerà automaticamente uno. Potrai cambiare l’handle assegnato in YouTube Studio, se lo desideri. Nel frattempo, scopri di più sugli handle e sul loro utilizzo: Cos’è un handle di YouTube? Un handle di YouTube è un nuovo modo con cui gli spettatori possono trovare il tuo canale e interagire con te. A differenza dei nomi dei canali, gli handle sono unici per ogni creator, così sarà più facile stabilire una presenza distinta su YouTube. Handle e URL del canale. Il tuo nuovo handle sarà incluso nell’URL del canale. Nella maggior parte dei casi, l’URL personalizzato diventerà il tuo handle. Puoi utilizzare il tuo handle per indirizzare gli utenti al tuo canale, anche quando non sono su YouTube. Ad esempio, se il tuo handle è @user123, l’URL del tuo canale sarà youtube.com/@user123.”

La parola handle è ripetuta 17 volte per educare al suo utilizzo, e solo alla fine si capisce che non si tratta altro che di un nome, solo che invece di spiegarlo e definirlo si rigira la frittata per fare passare un concetto semplicissimo con un “un nuovo modo con cui gli spettatori possono trovare il tuo canale”.

In inglese handle vuol dire tante cose, non è un tecnicismo specifico o intraducibile come Youtube vuole farci credere, è una parola generica che significa maniglia, e può essere usata in molti contesti per esempio con il significato più generico di appiglio, mentre nel linguaggio della rete si riferisce a un nome che è contemporaneamente un identificativo (in itanglese un user name) e un indirizzo (URL).

In questo tipo di comunicazioni di stampo colonialista in gioco c’è “il nome della cosa” per cui le multinazionali statunitensi si battono. Esportare la loro lingua insieme ai loro prodotti è un tutt’uno funzionale ai loro interessi. E così se un tempo c’era il Monopoli ora c’è il Monopoly, l’Uomo ragno è diventato Spiderman e Guerre stellari Star Wars, ma dietro la strategia dei marchi registrati che non devono essere tradotti nelle lingue locali – è lo stesso disegno per cui i titoli dei film hollywoodiani si esportano nella lingua originale – c’è la prosecuzione delle logiche coloniali che ormai saltano la fase degli eserciti e delle conquiste militari per muoversi direttamente alla conquista culturale. È la strategia che Winston Churchill spiegava in modo lucido nel 1943: “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente” (Discorso agli studenti di Harvard, 6 settembre).
La strategia che importanti funzionari del governo statunitense esplicitano di voler perseguire senza troppi giri di parole:

“L’obiettivo centrale della politica estera nell’era dell’informazione deve essere, per gli Stati Uniti, il successo dei flussi dell’informazione mondiale, esercitando il suo dominio sulle onde come la Gran Bretagna, in altri tempi, lo ha esercitato sui mari. (…) Ne va dell’interesse economico e politico degli Stati Uniti vegliare affinché sia l’inglese a essere adottato quale lingua comune del mondo; affinché siano le norme americane a imporsi nel caso si dovessero emanare norme comuni in materia di telecomunicazioni, di sicurezza e di qualità; affinché, se le varie parti del mondo sono collegate fra loro attraverso la televisione, la radio e la musica, i programmi trasmessi siano americani: e affinché, a essere scelti come valori comuni, ci siano valori in in cui gli Americani si riconoscono.” (David Rothkop, ex funzionario dell’amministrazione Clinton, in “In Praise of Cultural Imperialism?” in Foreign Policy, n. 107, estate 1997).

Naturalmente la possibilità di colonizzare linguisticamente un Paese dipende anche dal suo grado di resistenza. L’Italia è una sorta di colonia culturale – ma a sua volta anche politica, dalle basi Nato e la politica estera dettata dagli Usa alle ingerenze storiche nella politica interna – che si controlla come si vuole. Ma in Paesi dalla ben diversa autonomia come la Francia o la Spagna, dove esiste una cultura terminologica che non accetta queste imposizioni, Youtube si rivolge con le parole autoctone, e la stessa comunicazione non introduce gli handle, bensì rispettivamente gli identificatori (Présentation des identifiants) e i nomi utente (Resumen de los nombres de usuario). È lo stesso fenomeno per cui Airbnb offre agli italiani di diventare hoste non locatori, mentre ai francesi o agli spagnoli il programma si rivolge con le parole hôte e anfitrión e di esempi del genere se ne possono fare centinaia. In questo modo l’italiano si creolizza attraverso una lingua fatta di creator e non di creatori, di community e non di comunità e via dicendo.
Che fine fa il concetto di “prestito” utilizzato dai linguisti, in questi casi? Nessun “prestito”: non siamo noi a prendere in prestito una parola (che non ci manca affatto), è una multinazionale statunitense a imporcela, e noi servi e succubi, invece di ribellarci la accettiamo e ne andiamo fieri. Questo clima culturale tipicamente italiano in cui le multinazionali sguazzano e fanno quel che vogliono, ammaestrandoci con la loro terminologia, si basa su una rete di collaborazionisti (per riprendere le parole di Michel Serres) e di colonizzati, come si può comprendere attraverso i prossimi esempi.

Il reverse shopping e i collaborazionisti dell’inglese

Qualche giorno fa è apparsa una notizia curiosa ripresa da tutti i giornali con le stesse parole: in Belgio Decathlon ha capovolto la sua insegna per dare vita a un esperimento di permuta – come si potrebbe dire in italiano – che prevede che i clienti possano vendere al colosso francese gli indumenti usati. E come titolano i giornali? Con la geniale rivoluzione del “reverse shopping” spacciato come una novità (esattamente come gli handle) per il semplice fatto di usare un nome in inglese. Ma se si va sulla pagina di Decathlon nella versione belga-francese l’espressione “reverse shoppping” non esiste, lo stesso concetto è espresso in francese, e al massimo si può trovare l’espressione secondaria (e non la nuova categoria da sbattere nei titoloni dei giornali) di shopping à l’envers, in altri casi anche detta shopping eneversé. Visto che shopping in francese è radicato e in uso dalla metà dell’Ottocento l’anglicismo è usato ma affiancato da un’espressione in francese (lo shopping al contrario) e non con un “prestito sintattico” totalmente in inglese con inversione della naturale collocazione delle parole. Anche sui giornali spagnoli la notizia è data in spagnolo, e invece di reverse shopping si parla di strategie per dare nuova vita all’usato, di capi di seconda mano e di riciclo ecosostenibile.


Dunque sono solo i giornali italiani che ricorrono all’inglese per esprimere un concetto nato in Belgio con un’altra espressione, che però viene riportata immotivatamente in inglese, attraverso una pessima informazione che fa credere che il reverse shopping sia un internazionalismo e che si chiami ovunque così.
Dov’è il prestito? Ancora una volta non c’è. Il prestito è preso dall’inglese e sovrapposto a un’espressione francese diversa, e a un abbandono dell’italiano sistematico. È lo stesso meccanismo per cui Ursula von der Leyen parla di covid certifacate e i giornali italiani traducono con “green pass, perché ancora una volta gli esempi degli anglicismi e pseudoanglcismi diffusi dai collaborazionisti dell’inglese sono sterminati.
Il colonialismo – anche quello linguistico – ha infatti bisogno dei collaborazionisti interni che agevolano il disegno di esportazione. La storia del colonialismo segue sempre gli stessi schemi: conquistare i centri nevralgici come le università, i giornali, gli strati sociali alti, le città, per poi procedere all’espansione anche nelle fasce sociali più basse e nelle campagne.
I collaborazionisti sono coloro che diffondono la lingua dei conquistatori dall’interno, sono gli zelanti portatori della nuova cultura che giustificano e utilizzano, fanno a gara a chi usa più anglicismi, si vergognano dell’italiano che spesso ignorano e riscrivono attraverso la lingua e i concetti d’oltreoceano. In questo modo si arriva alla terza fase. La creazione di uno strato sociale di colonizzati sempre più ampio che perde la capacità di pensare in italiano e comincia non solo ad accettare la lingua dei colonizzatori, ma a preferirla.

Gli underdog e i colonizzati

Hanno fatto clamore le dichiarazioni del nuovo presidente del consiglio Giorgia Meloni (uso il maschile generico come piace a lei) che nel parlare alle Camere si è definita un’underdog (uso l’articolo al femminile).
Più precisamente le sue parole sono state: “Sono quello che gli inglesi definirebbero un’underdog” a cui è seguita una risatina e una imbarazzante spiegazione del nuovissimo concetto per il popolino: quello che in italiano si potrebbe definire “sfavorito”.


Cosa spinge un presidente del consiglio – firmataria di una legge per la tutela dell’italiano davanti all’abuso dell’inglese e per inserire in Costituzione che l’italiano è la nostra lingua – a pensare in inglese e poi a dover spiegare che underdog vuol dire sfavorito? Se invece di ricorrere a “quello che gli inglesi chiamerebbero” avesse usato l’espressione che utilizzano i francesi, gli spagnoli o i turchi… forse l’assurdità sarebbe più evidente. Ma dietro questo lapsus linguistico che esprime le cose in inglese invece che in italiano c’è tutta la mentalità dei colonizzati, che invece di pensare in italiano lo abbandonano e pensano nella lingua superiore. Quello che fino a poco tempo fa si sarebbe chiamato un outsider oggi è underdog ripreso dai collaborazionisti (i giornali), ma ad accomunare le due diverse scelte linguistiche c’è solo l’abbandono dell’italiano in favore dell’inglese.
Questo è l’atteggiamento dei colonizzati, che è il risultato della lingua dei collaborazionisti che a loro volta remano per agevolare il nuovo colonialismo linguistico e culturale della globalizzazione e dell’era di Internet. Ognuno fa la sua parte nell’anglicizzare la nostra lingua, e il cerchio si chiude.

PS

Intanto, mentre in Italia i collaborazionisti e i colonizzati diffondono l’inglese, nelle ex colonnie britanniche hanno capito il problema, stando a un articolo uscito su Internazionale di questa settiamana (un grazie a Elisabetta che me l’ha rigirato).

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

La creolizzazione culturale e l’educazione all’itanglese (il perché degli anglicismi)

di Antonio Zoppetti

Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi?” si chiedeva Draghi qualche tempo fa. È una domanda che si fanno in molti e che si sente spesso. Perché?

La risposta esce dall’ambito della linguistica. Sotto il ricorso compulsivo agli anglicismi ci sono fenomeni profondi, che sono allo stesso tempo culturali, economici ma anche psico-sociali. Hanno a che fare con una creolizzazione ben più ampia di quella linguistica, e non coinvolgono solo il nostro Paese, ma il mondo intero, travolto da una “globalizzazione” che coincide sempre più con “americanizzazione”.

Naturalmente non esistono culture pure, isolate o vergini. Tutte sono ibridate, meticce e influenzate dall’esterno, ed è un bene che lo siano, perché gli scambi portano arricchimenti. Il punto è che attualmente non si assiste ad alcuno scambio significativo, bensì a un’affermazione unidirezionale dei modelli angloamericani che si espandono in tutto il mondo e schiacciano le altre culture. Questi valori non sono “universali” ma “universalizzanti”: diventano universali perché si riescono a esportare con successo. Il motore di questo processo è l’espansione delle multinazionali angloamericane e delle loro merci, e le conseguenze culturali, sociali e linguistiche sono solo le sovrastrutture.

Dagli hamburger si passa così alla mcdonaldizzazione del mondo. Il monopolio cinematografico, televisivo e di internet produce un mondo virtuale in cui siamo immersi che finisce per inglobarci facendoci assorbire ben precisi comportamenti sociali; le pratiche di consumo indotte dalle pubblicità si trasformano in luoghi appositamente concepiti per metterle in pratica, dai fast food ai cinema multisala dove ciò che si guarda è soprattutto la produzione hollywoodiana e ciò che e si mangia è il popcorn che si appoggia negli appositi spazi previsti dalle poltrone in sala. In questo modo si arriva all’esportazione-importazione persino delle festività come Halloween, dei riti come quello del black friday, delle tradizioni come l’addio al celibato o dei conigli pasquali che affiancano le uova di cioccolato.

Senza tenere presente questo scenario non è possibile comprendere il perché degli anglicismi e dell’anglicizzazione dell’italiano.

L’alienazione culturale e linguistica

La creolizzazione è un concetto molto fumoso e di difficile definizione teorica. Dal punto di vista linguistico si riferisce ai territori coloniali dei Caraibi o dell’India, dove l’imposizione dell’inglese, a contatto con le culture locali, ha portato all’emergere di lingue miste. In Italia non esiste alcun bilinguismo a base inglese sul territorio (per adesso), e il contatto con la lingua e la cultura angloamericana è il risultato di un “sovramondo” virtuale costruito su quello locale. Basta accendere la tv, guardare un film o connettersi a internet per immergersi in questo sovramondo che non è la proiezione della realtà italiana, bensì quella della società americana che lo ha costruito e lo esporta.
Le conseguenze socio-culturali portano alla formazione di nuove generazioni globalizzate e omologate sui gusti delle pressioni universalizzanti statunitensi.

E così capita che uno studente di “storytelling” di Parma scriva racconti dove le automobili sono le Cadilllac, non le Fiat Punto che circolano per la sua città, mentre i nomi dei protagonisti delle sue storie sono in inglese, non sono certo Anna e Marco. Invece di essere in grado di raccontare e di esprimere la vita reale con la sua narrativa, questo aspirante scrittore “medio” non fa altro che proiettare la sua storia nel mondo virtuale che lo ha nutrito e cresciuto. Il mondo dei film e delle serie televisive che lo hanno formato e che ha introiettato, un mondo che nella realtà quotidiana non gli appartiene affatto, ma che scimmiotta inconsapevolmente e gli appare reale e migliore di quello che vive. In questo processo di alienazione culturale il terreno su cui si inseriscono gli anglicismi è molto fertile.

Dall’altra parte, secoli di speculazioni sull’arte della retorica – dai sofisti alle scuole di scrittura creativa che fino a qualche anno fa erano ancora in voga – sono state spazzate via dal piattume di uno “storytelling” di matrice americana in una riconcettualizzazione della scrittura persuasiva e delle tecniche di narrazione di natura pragmatica, e spesso becera, che annulla la storia profonda della nostra cultura e la riscrive spacciandola come una tecnica nuova e priva di legami con quelle che sono sempre state le nostre radici. E così il circolo si chiude e tutto torna. Ma la storia del colonialismo ripercorre proprio gli stessi schemi.

Il colonialismo culturale

Il colonialismo dei secoli passati, imposto con le armi, ha lasciato il posto a una nuova forma morbida di colonialismo culturale che salta la fase della spada, ma alla fine non fa che produrre con altre forme il medesimo processo di assimilazione.
Lo aveva capito Agricola, elogiato da Tacito per aver saputo romanizzare i Britanni, dopo la loro sottomissione militare. Senza questa fase, la conquista non avrebbe potuto avere alcun effetto duraturo.
Il “Tacito asservimento” è avvento attraverso l’edificazione di tipo romano (oggi sono invece i grattacieli di una città come Milano a ridisegnarne lo skyline), attraverso l’importazione delle toghe (oggi c’è l’outfit fatto di T-Shirt, jeans e sneaker). E poi attraverso il trapianto dei costumi romani (oggi lo si fa attraverso Netflix, Google e via dicendo), o con il diffondere le “squisite mense” romane (oggi i fast food e i MasterChef che trasformano la cucina in cook). E infine tutto si è compiuto con l’imposizione della lingua romana a partire dai figli dei capitribù (cioè i rampolli della classe dirigente), in modo che da “disprezzata” divenisse “bramata”. La conclusione di Tacito è che i Britanni alla fine chiamavano la romanizzazione “cultura”, ma era al contrario il loro asservimento.

Sedotti dai valori universalizzanti del nuovo impero globale, un sovramondo virtuale che ricopre ogni territorio, oggi ci asserviamo da soli, come forse hanno fatto gli Etruschi che si sono romanizzati senza guerre sino a scomparire in un’assimilazione con la civiltà che li ha fagocitati.

L’italia creola che crede di essere internazionale

Se lo scrittore africano Thiong’O ha raccontato il dramma delle scuole coloniali inglesi che hanno fatto di questa lingua il requisito della cultura, uccidendo le culture locali e impedendone ogni altra, noi oggi spendiamo delle fortune per mandare i figli dell’alta borghesia nelle scuole di lingua inglese che sono spacciate per internazionali, invece che coloniali, e suonano blasonate e superiori.

Nelle università, nel mondo del lavoro o in quello della scienza il monolinguismo dell’inglese internazionale spazza via tutto il resto, e rende l’apprendimento di ogni altra lingua e cultura qualcosa di superfluo come saper suonare il pianoforte. Ma essere internazionali ed esseri anglofoni sono concetti molto diversi. Il mondo non coincide affatto con l’anglosfera come si vorrebbe far credere, è ben più ampio, complesso e sfaccettato. Identificare la cultura e la lingua inglese con l’internazionalità fa parte di un progetto neocolonialista che prevede l’americanizzazione del mondo, un progetto funzionale agli interessi dei Paesi anglofoni che non ci conviene affatto, anche se facciamo di tutto per perseguirlo senza comprendere che ci sta distruggendo.

Eppure, basterebbe studiare la storia delle imposizioni colonialistiche di una lingua, per comprendere cosa sta avvenendo: prima si conquistano le istituzioni, poi l’intellighenzia, la classe dirigente e dunque l’università; seguono le grandi città, e alla fine tutto si espande anche nei centri periferici e rurali.

I collaborazionisti dell’inglese

“Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente” diceva Churchill nel 1943 (Discorso agli studenti di Harvard, 6 settembre).

E mezzo secolo dopo, l’ex funzionario dell’amministrazione Clinton, David Rothkop, ha dichiarato:

“L’obiettivo centrale della politica estera nell’era dell’informazione deve essere, per gli Stati Uniti, il successo dei flussi dell’informazione mondiale, esercitando il suo dominio sulle onde come la Gran Bretagna, in altri tempi, lo ha esercitato sui mari. (…) Ne va dell’interesse economico e politico degli Stati Uniti vegliare affinché sia l’inglese a essere adottato quale lingua comune del mondo; affinché siano le norme americane a imporsi nel caso si dovessero emanare norme comuni in materia di telecomunicazioni, di sicurezza e di qualità; affinché, se le varie parti del mondo sono collegate fra loro attraverso la televisione, la radio e la musica, i programmi trasmessi siano americani: e affinché, a essere scelti come valori comuni, ci siano valori in in cui gli Americani si riconoscono.” (David Rothkop, “In Praise of Cultural Imperialism?” in Foreign Policy, n. 107, estate 1997).

Invece di contrastare questo disegno perseguendo i nostri interessi e ponendo l’italiano al centro di una politica linguistica che sia in grado di proiettarlo sul piano internazionale, in Italia, ma anche in Europa, da decenni i ministeri dell’Istruzione investono una quantità spropositata di risorse per promuovere l’inglese globale dall’interno, a scapito del multilinguismo. Il risultato delle pressioni esterne globalizzanti, e di questi sforzi interni, ha già conquistato le nuove generazioni, educate al solo inglese nella scuola sin dall’infanzia, e americanizzate attraverso il linguaggio dei film, dei videogiochi, dell’intrattenimento… E poi ha conquistato i professori, la classe dirigente e gli intellettuali che hanno perso ogni ruolo critico in grado di esprimere il dissenso per diventare il principale strumento di omologazione. Costoro son diventati i principali “collaborazionisti” dell’inglese, per riprendere un’espressione del filosofo francese Michel Serres, si annidano nelle élites e sono i primi a identificarsi con i concetti d’oltreoceano

Ecco perché “dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi”, vorrei rispondere a Draghi. Perché la catechizzazione all’inglese e all’itanglese è sorretta e predicata proprio dalla classe dirigente che lui rappresenta. E per comprenderlo basta togliersi i paraocchi e vedere cosa accade quotidianamente con qualche esempio molto concreto.

Educare all’inglese

Nella nuova riconcetualizzazione e rimappatura della realtà veicolata dai giornali non si fa altro che educare all’inglese e promuovere la cancellazione dell’italiano e delle nostre radici storiche. Questo approccio catechizzante prevede che ogni genere di cosa o concetto si introduca o ribattezzi ripetendo l’inglese a pappagallo e spacciandolo come qualcosa di reale o di necessario. Si trapianta l’inglese e lo si sostituisce all’italiano, perché l’inglese è il nuovo totem da cui attingere, e c’è solo quello: la lingua e la cultura italiana si riducono a ripetere e importare in modo servile e acritico tutto ciò che arriva da un unico modello socioculturale, quello dei Paesi dominanti.

IL DRILLING
E così su Orizzonte Scuola si può leggere: “Inglese: il drilling per entrare in sintonia con la lingua. Cos’è e come usarlo in classe”.

Di che cosi si parla? In cosa consiste questa innovativa e straordinaria pratica? Semplice:

“Esiste una metodologia didattica di insegnamento della lingua straniera che più delle altre consente agli studenti di entrare in sintonia con la lingua studiata, nel nostro caso l’inglese. Si tratta del drilling, che favorisce l’assimilazione delle strutture grammaticali, il miglioramento della pronuncia e dell’intonazione. Essa consiste nella ripetizione ad alta voce delle frasi o delle parole pronunciate dall’insegnante.”

Ci rendiamo conto della pochezza che si cela sotto la solennità dell’inglese? La ripetizione ad alta voce delle frasi, la stessa tecnica secolare impiegata dai talebani per imparare a memoria il Corano, viene nobilitata attraverso l’ennesimo anglicismo-supercazzola che la rende innovativa. E nell’assenza di spirito critico, si ripete questa geniale metodologia andando sempre più a fondo:

“Adesso è arrivato il momento di presentarvi tre tecniche specifiche di drilling: repetition drill, substitution drill e backchaining drill. Vediamole nel dettaglio…”

Queste tre pratiche introdotte in inglese sono semplicemente la ripetizione della parola, la ripetizione con sostituzione, e la ripetizione al contrario. E con un’anglo-idiozia dopo l’altra, il corso prosegue con analoghe banalità che non sono più espresse in italiano, ma attraverso un lavaggio del cervello fatto di concetti come “il guessing game (Indovina cos’è) oppure il disappearing text (Testo che scompare).”

Quando invece di tradurre e reinterpretare questo tipo di metodologie le ripetiamo e “drilliamo” attraverso i concetti e i termini in inglese, ci stiamo comportando da colonizzati.

IL DOOMSCROLLING
Passando dalla scuola alla divulgazione scientifica, ecco come la rivista Focus ci colonizza con il doomscrolling:

Si tratta della ricerca compulsiva di cattive notizie e viene presentato in inglese, la lingua superiore da ripetere senza volere né essere in grado di reinterpretare con i nostri concetti:

“Il doomscrolling è un neologismo inglese entrato nell’Oxford Dictionary nel 2020: la parola indica la tendenza a cercare in modo ossessivo cattive notizie online, scorrendo (scrolling) sullo schermo del nostro telefonino (o tablet, o pc) per informarci sulle sventure (dooms) che accadono nel mondo.”

L’inglese è dio, è la nuova religione, e lo si deve trapiantare e ripetere, mentre l’italiano è una lingua inferiore e impotente di cui vergognarsi.

IL CORE TRAINING
Su AtuttoNotizie possiamo imparare che cos’è il core training:

La risposta è banalmente negli esercizi dei muscoli stabilizzatori:

“Desiderate rafforzare i muscoli dell’area addominale, lombare e del bacino? Il core stability training è ciò che fa al caso vostro. Si tratta infatti di una tecnica pensata proprio per allenare il “core”, il “nucleo del corpo“, ovvero quella zona compresa tra la porzione inferiore del busto e il margine inferiore del bacino. Scopriamo insieme in cosa consiste e quali sono i suoi benefici…”

IL SUNDAYRESET E IL PEARLCORE
Io Donna riconcettualizza il mettere in ordine la casa, il riordinare – una mania che aveva anche mia nonna! – con il nuovo e intraducibile concetto del sundayreset con cui ci educa.

Amica ci insegna un’altra cosa nuova e fondamentale: se vanno di moda le collane di perle siamo di fronte a una tendenza pearlecore.

E così lo studio del nome diventa naming (“Logo e naming per una brand identity efficace”), chi fa formazione introduce gli speed mentoring, gli psicologi parlano di mindfulness e di token economy

La colonia Italia

Con questa classe dirigente, intellettuale e politica l’italiano è finito. Perché è finita la nostra capacità di pensare – e dunque parlare – in modo autonomo. Dovremmo avere il coraggio di dire la verità: queste cose mostrano che l’Italia è una colonia.
I giornali anglofoni hanno chiamato le nostre restrizioni anticovid lockdown, e dal giorno dopo abbiamo ripetuto anche noi questa parola senza più alternative! Trump ha parlato di fake news, e da quel giorno, come sudditi, lo abbiamo fatto anche noi!

Questi non sono semplici prestiti, sono il sintomo del tracollo della nostra lingua, e questo inglese è la diffusione dell’ignoranza della nostra storia e cultura.
La nostra creolizzazione lessicale non ha che fare solo con i cosiddetti “prestiti linguistici”. Siamo in presenza di una creolizzazione culturale ben più ampia di cui gli anglicismi non sono la causa, ma l’effetto. Ubriachi di inglese, lo facciamo nostro, e in preda alla nostra alberto-sordità che ha perso ogni componente comica ci inventiamo da soli suoni-concetti risemantizzati in modo maccheronico che non appartengono né all’italiano né all’inglese: il green pass al posto del certificato verde, il telelavoro è detto smart working, gli assistenti familiari sono caregiver, le vessazioni mobbing, gli orientatori navigator… E mentre i neologismi sono sempre più in inglese, i “prestiti sterminatori” uccidono le nostre parole storiche e completano il quadro.

Su questo scenario, il problema non sono i singoli anglicismi, alcuni dei quali non sono destinati a radicasi, ma il fatto che non ci sia giornalista, tecnico, scienziato, intellettuale, personaggio pubblico, politico… che non introduca un nuovo concetto in inglese per designare qualcosa di nuovo o presunto tale. Questa nuvola anglicizzata, che ho definito la panspermia del virus anglicus, ci avvolge con un’intensità di un ordine di grandezza superiore al numero delle parole inglesi registrate sui dizionari.

È una follia collettiva irrefrenabile, una nevrosi compulsiva che diffonde i suoni inglesi anche quando siamo di fronte all’aria fritta. E infatti friggere con l’aria diventa Air fry, secondo Paolo Giordano il Waning è la parola chiave per comprendere quanto dura l’effetto di un vaccino, una camminata per raccogliere i rifiuti è il plogging, lavorare dal sud è il South Working


E l’italiano ciao ciao!

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Siamo tutti americani? 11 settembre vent’anni dopo

Di Antonio Zoppetti

All’indomani dell’11 settembre 2001, in un momento di forte emotività, il motto “siamo tutti americani” è rimbalzato sui titoli dei giornali di ogni Paese, persino in Francia, tradizionalmente reattiva alle interferenze inglobanti degli Usa, e proprio su Le Monde, da sempre critico verso la politica statunitense. Qualche giorno dopo, tuttavia, sullo stesso giornale uscì anche un pezzo che dissentiva da quel titolo, e Marie-José Mondzain spiegò le ragioni per cui non si sentiva “americana”, invitando a mantenere un giudizio critico davanti agli avvenimenti, anche se eravamo stati ipnotizzati dalle immagini del crollo delle torri gemelle che venivano rimandate all’infinito. [1] La solidarietà davanti alla tragedia, e l’identificazione con una società che ha anche delle enormi differenze rispetto a quella Europea e alle peculiarità dei singoli Stati sono cose molto diverse.

In Italia voci come queste non hanno trovato spazio sui giornali. Di fronte a quell’evento inaudito e inimmaginabile ciò che è accaduto ha portato a un ulteriore passo nel sentirci “americani”.

La nostra progressiva americanizzazione è un processo iniziato nel dopoguerra con il piano Marshall e la sua enorme propaganda, che ha portato al sogno americano degli anni Cinquanta e al miracolo economico che si è realizzato soprattutto negli anni Sessanta. Ma nel Secondo dopoguerra, e ancora sino alla fine del Novecento, il nostro sentirci parte dell’alleanza politica e atlantica non ci aveva ancora inglobati nel “siamo tutti americani” del nuovo Millennio che ha una pervasività pressoché totale. L’itanglese è solo la conseguenza linguistica, la cartina al tornasole per misurare il grado di questo fenomeno. Dalle datazioni dei dizionari si vede bene che tra le parole nate negli anni Quaranta e Cinquanta gli anglicismi crudi rappresentavano una percentuale del 3% o il 4% , e negli anni Sessanta sono raddoppiati attestandosi tra il 6% e il 7% dei neologismi nati in quel decennio. Questi aumenti non dipendono solo dall’importazione sempre più massiccia delle merci e della cultura a stelle e strisce – tra juke boxe e flipper, jeans e rock – ma anche del venir meno di ogni posizione critica nei confronti degli Usa.

In un primo tempo, l’accettazione e l’ammirazione di tutto ciò che è americano conviveva anche con degli atteggiamenti opposti che ne mettevano in discussione il valore e facevano dell’Italia qualcosa di ben distinto. Questo atteggiamento era trasversale a tutto il Paese. Da un punto di vista ideologico nella sinistra italiana c’era una critica al capitalismo e a certi valori della società americana, e anche se i beni di consumo o i film erano accettati dalle masse, l’anticomunismo del maccartismo o l’imperialismo americano erano invece deprecati. Questa “schizofrenia” all’interno del Pci, come qualcuno l’ha definita, in realtà riguardava anche il mondo dei cattolici e la destra.
La Chiesa aveva da sempre un atteggiamento ostile verso il materialismo americano, storicamente tacciato di essere immorale, anche sa davanti al pericolo rosso, aveva preferito appoggiare la Casa Bianca in funzione anticomunista, come il minore dei mali. Lo stesso atteggiamento circolava anche nella Dc, alleata con il Pentagono ma allo stesso tempo diffidente verso il patto atlantico, dai tempi di De Gasperi sino al più volte ministro degli esteri Giulio Andreotti, che davanti alla questione palestinese sembrava avere “come moglie legittima l’America e come amanti gli arabi ed i mediterranei.” [2]
A destra, già i repubblichini di Salò avevano puntato il dito contro l’espansione americana in Europa, un tema che successivamente è circolato molto negli ambienti conservatori, anche se davanti alla politica dei partiti che rivendicava il nostro inserimento nel patto atlantico, questo atteggiamento critico in seguito è rimasto confinato in gruppi e autori più marginali. Come ha scritto Alessandro Portelli, a proposito dell’atteggiamento della destra: “Le stesse forze che stavano trasformando l’Italia in un satellite politico degli Stati Uniti manifestavano a gran voce la loro preoccupazione per l’invasione di prodotti culturali americani che insidiavano la nostra civiltà umanistica e la nostra cultura classica, come pure il nostro modo di vivere contadino e cattolico.” [3]

Decennio dopo decennio, ogni atteggiamento critico è venuto meno e da un satellite politico siamo diventati un satellite anche culturale. Negli anni Settanta gli anglicismi salivano al 9-10% delle nuove parole, negli anni Ottanta al 14-16%, e negli anni Novanta al 27-28%. Intanto era caduto il muro di Berlino e si era dissolta l’Urss e con essa anche ogni resistenza all’americanismo di tipo ideologico. L’aumento delle parole inglesi negli anni Ottanta avviene non a caso negli anni del riflusso ma anche dell’americanizzazione della tv che con l’entrata della Fininvest ha portato a palinsesti fatti in gran parte di film e telefilm americani che prima erano poca cosa, mentre la Rai si subito adeguata allo stesso modello. E il potere morbido dei prodotti culturali che allo stesso tempo veicolano valori e visioni a stelle strisce non è da sottovalutare. Come ha osservato uno dei principali produttori cinematografici inglesi, David Putnam: “Alcuni cercano di convincerci che i film e la televisione siano degli affari come tutti gli altri. Non lo sono. Film e televisione modellano gli atteggiamenti, creano stili e comportamenti, rinforzano o minano i valori della società (…). I film sono più che un semplice divertimento, e più che un grosso affare. Essi sono potenza.”

Negli anni ’90, Berlusconi, l’uomo che aveva americanizzato la tv, per primo americanizzò anche la politica, e la sinistra subito dopo fece anche di più, configurandosi come un partito filoamericano non solo dal punto di vista ideologico, ma anche linguistico, con il “partito democratico” e le “primarie” (mutuati dagli Usa), e con la comunicazione di Veltroni nata dal motto “Yes We Can” che gli valse l’appellativo di “Obama italiano”, continuata con il linguaggio renziano fatto di slide e di streaming che ha prodotto il jobs act e tutta una serie di altre anglicizzazioni.

Intanto, l’avvento di Internet e una globalizzazione che coincide sempre più con “americanizzazione” avevano portato anche a epocali cambiamenti sociali tra la mcdonaldizzazione del mondo o l’importazione di tradizioni come la festa di Halloween.

In questo contesto, il 20 settembre 2001, Bush proclamò il suo discorso in cui dichiarava: “Questa non è solo la lotta dell’America, e in gioco non c’è solo la libertà americana. Questa è la lotta del mondo per la civiltà. Questa è la lotta di tutti coloro che credono nel progresso e nel pluralismo, nella tolleranza e nella libertà. Noi chiediamo a ogni nazione di unirsi a noi.”

La propaganda puntava ad avvicinare l’identità tra Europa e Stati Uniti, e il nuovo Occidente costruito sulla politica del terrore e lo scontro di civiltà, coincide ormai sempre più con i soli Stati Uniti.

Il radicarsi dell’itanglese trova la sua spiegazione in questo quadro. Se siamo tutti americani, anche la loro lingua deve essere ostentata, e dietro ogni anglicismo c’è l’evocare questo mondo e questo sentimento.

Qualche giorno fa è uscito sul Resto del Carlino questo titolo: “La Virtus s’allena a tavola con la nuova ’food room’”. E nell’articolo si legge: “La ‘food room’, o per dirla all’italiana la mensa aziendale”. Cosa ci spinge a utilizzare queste espressioni che a ben pensarci rivelano tutto il nostro ridicolo provincialismo come nelle caricature di Alberto Sordi? Cosa ci spinge a chiamare food room una sala mensa, community una comunità, influencer un influente, mission una missione, e così via per gli altri 4.000 anglicismi riportati nei dizionari?

Questa ammirazione spropositata per tutto ciò che è a stelle e strisce ha delle ragioni sociolinguistiche che affondano le loro radici nella nostra storia. Quest’ammirazione spropositata e priva di spirito critico è connessa con il mito degli Stati uniti ma anche con il nostro complesso di inferiorità che ci sta portando ad abbandonare le nostre radici per sposare quelle di un’altra società, che ha delle profonde differenze rispetto alla nostra, visto che non siamo affatto “americani”, ma ci piace “fare gli americani”. E la vergogna di fare gli italiani ci sta portando ad appoggiare il globalese sul piano internazionale e a trasformare l’italiano in itanglese sul piano interno.

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Note
1) Marie-José Mondzain, “Je ne me sens pas américaine”, Le Monde, 18/9/2001.
2) Massimo Teodori, “Destra sinistra, cattolici”, in Piero Craveri, Gaetano Quagliariello (a cura di), L’antiamericanismo in Italia e in Europa nel secondo dopoguerra, Rubbettino Firenze 2004, p. 111.
3) Alessandro Portelli, The Transatlantic Jeremiad. American Mass Culture and Counterculture and Opposition Culture in Italy, in Rob Kroes e al. (a cura di), Cultural Transmissions and Receptions. American Mass Culture in Europe, Amsterdam, VU University of Amsterdam Press, 1993, p. 129.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Itanglese, scevà, conflitti generazionali e il vuoto del pensiero colonizzato

Di Antonio Zoppetti

La settimana scorsa, su Domani, è uscito un pezzo di Andrea Donaera ricco di confusioni concettuali, il cui livello ricorda quello di un tronista più che di un giornalista o di uno scrittore.

Il titolo è “Boomer, fatevene una ragione: la lingua continua a cambiare”. L’occhiello è “Scontro generazionale”, che secondo l’autore sarebbe alla base di una nuova definizione dell’italiano standard dove i “vecchi” che detengono il potere difenderebbero – attraverso le crociate” sui “social” – la purezza della lingua, in antitesi ai “giovani” che la vorrebbero rinnovare. Nel pacchetto del rinnovamento ci sono gli anglicismi e la lingua inclusiva, che si avvale dello scevà (ə) per superare l’arretratezza dei maschili generici, per cui scrivere imbecillə arriva a tutti, uomini e donne, senza discriminazioni (anche se rimane il problema della pronuncia, passando dalla scrittura al parlato).

Anglicismi e purezza della lingua

Donaera si scaglia con un certo livore contro i “boomer”, in nome delle lingue che cambiano e dell’assurdità della purezza della lingua. È rimasto fermo forse all’Ottocento, al purismo, alla guerra ai barbarismi… pare non avere la percezione di come la lingua stia cambiando, pare non rendersi conto che quando si importa tutto esclusivamente da una sola lingua dominante – come in preda a una nevrosi compulsiva – il cambiamento dell’italiano si trasforma in creolizzazione lessicale. Il concetto di “ecologia linguistica” non lo sfiora, così come pare ignorare che il dibattito è internazionale, non solo italiano, perché gli anglicismi che penetrano ovunque – quello che Tullio De Mauro ha definito lo tsunami anglicus – hanno a che fare con rapporti di potere mondiali e con la globalizzazione, anche se in Italia il fenomeno è ben più preoccupante che altrove.
Per Donaera sembra tutto riconducibile a uno scontro generazionale, non riesce a cogliere le dinamiche di un conflitto connesso con l’imposizione del pensiero unico globalizzato di matrice angloamericana, che è prima di tutto culturale e poi linguistico. Il problema viene ribaltato. Sulle piattaforme sociali ci sarebbe un pullulare di “meme boomeristici” che predicherebbero prescrizioni del tipo “non si dice coffee-break ma pausa caffè” e che farebbero una “crociata” contro i giovani e quelli come lui (che non è poi così giovane anche se i suoi “ragionamenti” sembrano piuttosto adolescenziali) di parlare “come cazzo gli pare”. Vede un odio generazionale dei boomer che gli impedirebbero di essere moderno, in una prospettiva rovesciata dove non si accorge dell’odio che trasuda dalle sue parole, e dove sembra che siano i difensori dell’italiano a costituire il sistema dominante, e non viceversa. Infastidito da chi preferisce dire pausa caffè invece di coffe-break, rivolta la frittata e i rapporti di potere, confonde gli oppressi con gli oppressori: sono le parole italiane a regredire e decadere davanti all’inglese, non il contrario, se non se ne fosse accorto. C’è una bella differenza tra idolatrare la purezza della lingua e passare all’inglese invece di farla evolvere. Il purismo era contrario ai neologismi almeno quanto i barbarismi, la lingua newstandard di Donaera sa solo ripetere a pappagallo le parole della lingua-cultura superiore che idolatra, e al purismo contrappone l’anglopurismo: basta dirlo in inglese o in pseudoinglese per essere moderni.

I paraocchi del conflitto generazionale

Magari il fenomeno degli anglicismi fosse inquadrabile in un conflitto generazionale o appartenesse al gergo giovanile! I gerghi dei giovani procedono in modo discontinuo per cui la generazione successiva non ripete le parole di quella precedente, ma ne introduce di nuove. Inoltre, quando si raggiunge l’età adulta questo linguaggio viene abbandonato, non si conserva nel tempo all’interno del gruppo (una volta cresciuti, i paninari non chiamano “sfitinzia” la propria moglie). E soprattutto appartengono al parlato, non alla scrittura. Mi domando se Donaera, e quelli come lui, sappiano che l’italiano è una lingua letteraria, sopravvissuta per secoli solo nei libri, mentre nella vita reale ognuno parlava come cazzo gli pareva, o nel solo modo con cui lo sapeva fare, e cioè in dialetto. Solo nel Novecento si è affermato un italiano comune parlato in un avvicinamento tra oralità e scrittura che nell’era di Internet si intreccia sempre più. Ma l’italiano neostandard individuato negli anni Ottanta da un linguista come Gaetano Berruto, che era perlopiù parlato, oggi si è involuto in un italiano newstandard che è contemporaneamente scritto in Rete, dove la percentuale di anglicismi è tale da uscire da ogni esempio storico di interferenza linguistica e da non riguardare più il purismo, ma la creolizzazione. Donaera non si è accorto che non sono i giovani a dire “al top”, è il boomer Briatore. A parlare – assurdamente – di “green pass” invece che di passaporto vaccinale sono i giornalisti con i capelli grigi e le giornaliste dalle labbra rifatte la cui gioventù è ricostruita artificialmente.

Ripenso alle parole di Gramsci che aveva capito qualcosa dallo spessore ben diverso da chi oggi si proclama sociolinguista. Ogni volta che riaffiora la questione della lingua “si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale” (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Quaderno 29, § 3). Oggi tutto ciò è vero più che mai, e questo riassestamento non riguarda lo scontro giovani-boomer, ma una classe dirigente americanizzata in modo servile a partire dalla sinistra, che un tempo aveva un atteggiamento critico – critico, si badi bene, non antiamericano – e oggi è zerbinata e colonizzata. Il linguaggio fatto di anglicismi è solo la spia di questo mutamento che crea fratture sociali.

Ripenso alle parole di un intellettuale come Michel Serres che accusava la classe dirigente francese: “Durante l’Occupazione, mille parole tedesche sono spuntate sui muri di Parigi e di altre città francesi. È iniziato qui il mio orrore per le lingue dominanti e l’amore per quelle che si volevano eradicare. Visto che oggi, in quegli stessi luoghi, conto più parole americane che non parole destinate ai nazisti all’epoca, cerco di difendere la lingua francese, che ormai è quella dei poveri e degli assoggettati. E constato che, di padre in figlio, i collaborazionisti di questa importazione si reclutano nella stessa classe, la cosiddetta élite.” (Contro i bei tempi andati, Bollati Boringhieri 2018).

Ripenso a Pasolini che negli anni Sessanta aveva compreso e denunciato la fine dell’italiano letterario individuando i nuovi “centri di irradiazione” della lingua, quelli tecnologici del Nord (“Nuove questioni linguistiche”, Rinascita, 26 dicembre 1964) che sono gli stessi che oggi parlano e diffondono l’inglese e l’itanglese, insieme ai mezzi di informazione, che un tempo hanno unificato l’italiano e oggi lo stanno trasformando in una lingua creola.

Poi rileggo le analisi di Donaera sui boomer e mi viene da piangere.

Fateci parlare come cazzo ci pare”

L’incapacità di mettere insieme delle argomentazioni, la superficialità delle analisi, la manipolazione dei fatti dovuta, forse, al non essere in grado di comprenderli più che alla volontà di alterarli, raggiunge l’apice nella chiusa dell’articolo: “Fateci parlare come cazzo ci pare”.

Sullo stesso giornale, Domani, forse per rimediare allo scivolone e alla caduta di stile, è intervenuto qualche giorno dopo Walter Siti (“Attenti alla libertà linguistica che diventa sciatteria e censura”) a ricordare che questo tipo di “libertà rischia di trasformarsi in sciatteria, o addirittura in censura”. La libertà di scrivere “ha” senz’acca o di abolire i congiuntivi? La lingua è un fenomeno collettivo che ha le sue regole, ricorda Siti.

Purtroppo Donaera, oltre a parlare, scrive come cazzo vuole e non sembra conscio della differenza tra oralità e scrittura. Forse non sa che il linguaggio giovanile, e gli scontri generazionali che riguardano il modo di parlare sono ricorrenti, oltre che passeggeri. Negli anni Sessanta l’appellativo per bollare i vecchi era “matusa” (parola italiana espressione di un conflitto generazionale), oggi “boomer” è figlio di un lavaggio del cervello globalizzato che scandisce le generazioni secondo la cultura dominante d’oltreoceano (dai Millenial[s] alle X, Y, Z generation), in un Paese che è ormai diventato culturalmente una colonia, incapace di creare e utilizzare le proprie categorie di pensiero e linguistiche. I crociati non sono coloro che difendono l’italianità, sono coloro che vogliono imporre la lingua-pensiero degli Usa a tutto il mondo. Chi difende la lingua italiana, caso mai, tenta di fare la resistenza. Faccio fatica a vedere la “libertà” nell’abbandonare l’italiano per riempirsi la bocca di parole che arrivano dalla lingua dominante.

Sarebbe facile bollare Donaera come figlio di una generazione colonizzata, come un nativo halloweeniano che pensa che quello che sin da bambino ha visto in tv e oggi in Rete appartenga alla nostra storia e società e non all’esportazione dei modelli delle multinazionali che lo hanno plasmato a loro uso e consumo, dal popcorn che gli fanno mangiare al cinema al linguaggio delle interfacce della Rete che gli fanno parlare. In realtà non è così, non si può generalizzare a questo modo e prendersela con le generazioni. Meglio prendersela con la stupidità trasversale a ogni fascia di età.

La bufala del linguaggio non discriminante

A voler purificare ed emendare la lingua italiana non sono i pochi che la vorrebbero parlare e tenere viva, una minoranza schiacciata dal linguaggio mediatico, pubblicitario, lavorativo, politico… Sono quelli come lui, quando scrivono che “l’italiano, così com’è, è una lingua spesso insufficiente – con i suoi maschili sovraestesi”.

Donaera scrive che difendere l’italiano è una concezione ideologizzata che risale al Novecento, e contrappone una nuova concezione della lingua basata sull’identità di ogni genere di umanità e cultura. A questo punto le cose si fanno addirittura imbarazzanti. Il plurilinguismo, le diverse culture spazzate via dal pensiero unico vengono spacciate come universali, con la stessa logica con cui si spaccia per plurilinguismo l’imposizione in tutto il mondo del globalese e dell’inglese internazionale (che è tutto il contrario), e con la stessa logica del fondamentalismo di chi proclama che “i valori americani sono universali” (Condoleezza Rice) e che la loro civiltà è la più giusta di tutte. Il linguaggio “non discriminante” è teorizzato da un nuovo imperialismo culturale e linguistico che si ritiene superiore alle altre lingue e culture.

Donaera non si rende conto che la sua difesa dello scevà è altrettanto ideologizzata, non è affatto una scelta neutra, è figlia di un’ideologia che viene dagli Stati Uniti (e infatti la sua pronuncia, fuori dalla scrittura, è l’ennesimo suono angloamericano che non esiste nella lingua del Paese dove il sì suona) e che si sta diffondendo acriticamente. È un’ideologia che presuppone che il maschile generico sia discriminante, che è un giudizio, non un fatto. Personalmente non mi sento discriminato dal femminile inclusivo se, per alcuni, posso essere una guida o un’autorità, un’eccellenza, oppure semplicemente una spalla, una vittima, una spia. A volte posso essere una iena, una tigre… e quando sono una persona, la mia mascolinità non ne risente. Persino il cazzo può diventare la nerchia, la minchia o la verga, senza intaccare le strutture fallocratiche della nostra società maschilista. Siamo seri. Chiamiamo le cose con il loro nome: la polemica contro il maschile inclusivo è un’ideologia che viene d’oltreoceano e che non rientra nel politicamente corretto, ma nel politicamente statunitense, dove l’attenzione nel non discriminare non ha la portata universale che le si attribuisce. Non c’è alcuna attenzione davanti al fatto che definire gli statunitensi “americani” (visto che loro si chiamano così) è estremamente irritante per un canadese o un messicano, perché l’America è un continente, e far coincidere gli americani con l’intero continente è irrispettoso (“il condomino che si dichiara padrone di tutto il palazzo”) e soprattutto discriminatorio nei confronti delle tante etnicità esistenti. Ma chi se ne frega… La “scoperta dell’America”, del resto, presuppone che prima non esistesse nemmeno (eppure lo sterminio degli americani veri è stato numericamente più consistente di quello dell’olocausto).

È la stessa logica con cui i Paesi poveri sono chiamati ipocritamente “Paesi in via di sviluppo”. Quale sviluppo? Quello del capitalismo globalizzato e della civiltà dei consumi dove li si vuole condurre, ovviamente. È curioso che la sensibilità per l’identità di genere o sulla presunta non discriminazione delle donne espressa dallo scevà e predicata da Donaera non corrisponda a un’analoga sensibilità per una generazione definita spregiativamente boomer. Di questo politicamente corretto da coloni se ne può fare a meno.

Dietro la retorica dello scevà e del rinnovamento dell’italiano attraverso la sua sostituzione con l’inglese c’è un’ideologia ben precisa, quella del pensiero dominante. Il parlo come cazzo voglio presto si trasformerà in “se non parli come me” sei sessista. Lo abbiamo già visto per parole come negro, che per l’interferenza del pensiero unico sono diventate discriminanti quando non lo erano mai state, da noi. La giustificazione del parlo come voglio della fase incipiente dei purificatori della lingua, nella seconda fase diventerà obbligare tutti a parlare – e pensare – con la lingua dei padroni.

Scontro generazionale? No. Lo scontro è ben più titanico.

Dietro la libertà di Donaera c’è la dittatura del pensiero unico e degli anglocrociati alla conquista del mondo, anche linguisticamente. Le nuove generazioni sono in gran parte già state colonizzate, certo. Google, Facebook e affini stanno facendo il loro sporco lavoro, che comincia ad avere un nome – il capitalismo di sorveglianza che trasforma l’esperienza umana in merce da manipolare – e la nostra classe dirigente più che denunciarne il pericolo li aiuta remando nella stessa direzione.

La libertà sta nel non comprare i giornali che danno spazio a queste ideologie, e tantomeno i libri di chi si rivela un colonizzato e al tempo stesso un collaborazionista della distruzione della nostra lingua e cultura.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Lingue e democrazia davanti al globalese e all’itanglese (seconda parte)

Di Antonio Zoppetti

Se l’inglese diventa un idioma di rango superiore, tutte le altre lingue – a partire dall’italiano – diventano figlie di un dio minore, e rischiano di trasformarsi nei dialetti locali dell’anglomondo.

Nella prima parte di questo articolo ho mostrato che la soluzione del monolinguismo a base inglese per la comunicazione sovranazionale è una visione politica che si sta affermando, ma non è l’unica possibilità – come in Italia in molti credono – né la via più etica e per noi più conveniente.
Questa visione dell’inglese globale come lingua superiore è poi è alla base del fatto che, sul piano interno, molti anglicismi siano preferiti alle parole italiane e suonino più moderni e internazionali anche quando non lo sono.

Molti pensano che la questione dell’inglese internazionale non c’entri nulla con l’anglicizzazione dell’italiano e con l’invadenza degli anglicismi. E c’è chi difende a spada tratta l’inglese come lingua veicolare, ma è contrario a mescolarlo con l’italiano. In realtà le due cose non sono così separate e hanno un forte legame, perché le lingue non sono sistemi a compartimenti stagni, e la loro interferenza è un fenomeno normale.

Non resta che vedere in che modo l’inglese internazionale si riversa nell’italiano e lo sta trasformando in itanglese.

Dall’inglese internazionale all’itanglese

La penetrazione degli anglicismi nell’italiano, ma più in generale in tutte le lingue, è spesso causata dall’espansione delle multinazionali angloamericane e del loro lessico. I casi più evidenti sono quelli del linguaggio della Rete o dell’informatica, dove la metà delle voci così marcate nei dizionari è in inglese non adattato; ma questo meccanismo di importazione si trova in ogni ambito. Nella giurisprudenza, per esempio, parole come copyright, leasing o franchising si propagano intoccabili in tutto il mondo (come hanno osservato Francesco Galgano o Alessandro Gilioli) per precise disposizioni che hanno a che fare con il diritto internazionale che parla inglese e che potrebbe scontrarsi con altri ordinamenti. Dunque la supremazia della terminologia inglese si impone su quella locale per questi motivi legati ai diversi rapporti di forza.

Dai linguaggi di settore, queste parole finiscono poi nel linguaggio comune.

Perché la pandemia ha portato al lievitare degli anglicismi in tutto il mondo? Perché è un fenomeno internazionale, perché l’Oms parla inglese, perché gli scienziati parlano in inglese. In italia il fenomeno è stato più pesante perché non abbiamo istituzioni che regolamentano la lingua, e dunque abbiamo assorbito senza resistenze il lockdown, il droplet, lo spillover, gli hub, i cluster

Lo stesso vale per le categorie culturali, dalla scienza allo sport. Perché importiamo gli anglicismi con questa frequenza inaudita? Perché pensiamo che sia la lingua internazionale e superiore. Se non ci fosse questa mentalità sottostante non ci vergogneremmo di usare l’italiano.

Burn-out, spike protein e mindfulness

Per comprendere questo processo, in ambito medico-scientifico si può citare il caso dell’Oms (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) che parla in inglese e in inglese decide per esempio di inserire nella sua lista il burn-out (esaurimento professionale) come una sindrome riconosciuta e distinta da altri tipi di esaurimento. La conseguenza di questa scelta è che il termine penetra ovunque in inglese.

Mentre in Spagna c’è la Reale Accademia Nazionale di Medicina che interviene indicando il sostitutivo spagnolo “ufficiale” e sconsigliando l’anglicismo, come avviene anche in Francia, da noi non esistono autorità del genere e siamo in mano ai giornalisti e agli specialisti che parlano l’inglese internazionale e ripetono l’anglicismo senza nemmeno porsi il problema di tradurlo. Il risultato è che le alternative possibili non sono regolamentate, e crediamo che ricorrere all’inglese renda tutto più tecnico. Ma questo liberismo linguistico, figlio della convinzione che la lingua si difenda da sé, non funziona davanti alle forti pressioni dell’inglese globale dominante. Occorre cambiare prospettiva, esattamente come non si può rispondere che i panda si difendono da sé, occorre tutelarli e proteggere la biodiversità.

Voglio fare un altro esempio che mi pare utile per comprendere le conseguenze pratiche di una mancanza di un’autorità e di un punto di riferimento che potrebbe arginare gli anglicismi in Italia.

Quando è arrivato il covid gli scienziati e i divulgatori hanno cominciato a parlare degli spike – cioè gli spuntoni che lo caratterizzavano – e anche di spike protein direttamente in inglese, come fosse normale importare la terminologia anglofona senza traduzione. Poiché in italiano esiste la parola spinula, che in ambito scientifico e biologico indica proprio una formazione anatomica o patologica a forma di spina, ho domandato all’immunologa Maria Luisa Villa se potesse essere una valida alternativa. Mi ha risposto che la trovava un’ottima traduzione e ha anche chiesto un parere al virologo Fabrizio Pregliasco a cui la proposta è piaciuta. Forte di questi pareri autorevoli ho divulgato questa possibilità in un articolo sul portale Treccani e l’ho inserita tra i sinonimi possibili sul dizionario AAA che ormai è diventato una fonte per molti professionisti, visto che è il più grande archivio di riferimento esistente nel nostro Paese e quasi l’unico. Il risultato è che oggi spinula comincia a circolare, e si ritrova per esempio anche in molte voci della Wikipedia. Insomma, se un’alternativa c’è, e viene promossa, è possibile che si affermi, ma se nessuno la individua e la divulga, entrerà nell’uso solo l’inglese senza la libertà di scegliere.
Se questo lavoro fosse fatto da enti istituzionali con una maggiore risonanza e autorevolezza, le cose potrebbero migliorare.

L’altro giorno mi è arrivata la segnalazione di un libro intitolato Diventare grandi con la mindfulness. La mindfulness è una tecnica meditativa che è stata importata dal buddismo, e in lingua indiana si esprime con la parola “sati”, ma negli Stati Uniti hanno ridefinito e riproposto tutto nella loro lingua, e non certo in lingua pāli!
Che cosa fa il francese? La traduce con piena coscienza e in altri modi ancora.
Che cosa fa lo spagnolo? La traduce con coscienza o attenzione piena.
Che cosa fa l’italiano? Nulla. Invece di usare analoghe traduzioni o sinonimie come piena consapevolezza o presenza mentale, ripete a pappagallo con servilismo la parola-concetto così come la si esporta e la si importa. E se qualcuno volesse esprimerlo in italiano? Dovrebbe ricorrere alla creatività espressiva individuale, che genera soluzioni diverse, e non codificate e uniche come nel caso dei tecnicismi inglesi. In questo modo mindfulness diventa il titolo di un libro e penetra nell’uso come fosse qualcosa di intraducibile, come se non fosse a sua volta una ridefinizione di un concetto orientale. È con queste modalità che gli anglicismi diventano “necessari” o “insostituibili”, solo da noi, ovviamente, visto che altrove non lo sono affatto.

In questo quadro, il globalese si riversa nell’italiano con una profondità che non è più possibile spiegare con le categorie del “prestito” che i linguisti continuano ancora a utilizzare senza riuscire a comprendere il fenomeno nella sua profondità.

La newlingua dei WeFood e degli showcooking

La curatrice del sito Buoneidee mi ha rigirato la newsletter della regione Friuli Venezia Giulia che per promuovere il territorio organizza il WeFood, il weekend enogastronomico con showcooking a cui possono aderire i “produttori di food equipment, dai forni alle cucine” pieno di eventi digitali tra cui Food & Wine: come ripartire dopo i lockdown? Il progetto si chiama Academy.

Quando la cucina italiana, che è una delle nostre più importanti eccellenze, diventa cooking (e suggerisco ad Academy di trasformare il lavaggio dei piatti in uno showcleaning che magari genera business), la gastronomia Food, il vino Wine… non stiamo importando anglicismi perché ci mancano le parole. Stiamo distruggendo l’italiano perché stiamo passando alla costruzione di categorie sovra-italiane in una gerarchia lessicale dove al vertice c’è la lingua internazionale. Siamo ben oltre il prestito, siamo alla formazione dell’itanglese da parte di nativi italiani che hanno rinunciato alla propria lingua.

Lettera aperta a Mario Draghi

Il presidente del Consiglio Draghi è finito su tutti i giornali per un paio di uscite contro l’abuso dell’inglese. Ha ironizzato sull’uso di governance invece di governo e, davanti a smartworking e babysitting ha sbottato: “Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi?”.

In una “Lettera aperta a Mario Draghi” ho provato a rispondergli, a ringraziarlo per le sue dichiarazioni e anche a perorare la nostra causa di una legge per l’italiano.

Preferiamo gli anglicismi e li consideriamo più solenni proprio all’interno di una visione più ampia che considera l’inglese come la lingua internazionale e superiore. Non si può far finta di non vedere il legame tra itanglese e globalese!

C’è persino chi ormai lo teorizza esplicitamente e ha gettato la maschera.
In un articolo su Affari italiani (grazie ad Agostino che me lo ha segnalato) il giornalista esce allo scoperto e dice chiaramente “sì agli anglicismi” proclamando che Draghi “sbaglia” a ironizzare sulle parole inglesi, perché “i nostri giovani partecipano a un’agguerrita competizione globale utilizzando termini come advisor, asset, benchmark, board, CEO, CFO, chairman, cluster,compliance, governance, stakeholders, sales, skills, tools e via dicendo.” E allora i “nostri migliori giovani, la vera speranza del Paese (…) non si faranno condizionare da Draghi perché così prevede la globalizzazione.” Secondo l’autore del pezzo, “è sbagliato far passare simili messaggi: il progresso implica che il popolo (…) sia educato a piccoli passi, magari apprendendo gradualmente il significato degli anglicismi, e soprattutto, non avendo alibi per non apprezzare e beffeggiare chi sa ed è bravo.”

Eccolo il passaggio dall’anglofilia all’anglomania in nome del “progresso”, finalmente enunciato senza ipocrisie!
In questa visione allucinante che sta prendendo sempre più piede, l’italiano si deve buttare per parlare attraverso la sua contaminazione con l’inglese. Gli anglicismi educherebbero alla newlingua della globalizzazione un po’ come nel progetto colonialistico del basic english, la riduzione dell’inglese semplificato per le colonie che piaceva tanto a Churchill.
Meno male che c’è Draghi e che – dopo anni di jobs act, navigator, chasback di Stato e chi più ne ha più ne metta – per la prima volta emerge una diversa sensibilità per la questione della lingua da parte della politica e delle istituzioni. Ma invece di essere applaudito da tutti, Draghi viene attaccato da gironalistucoli figli di Nando Mericoni (l’Alberto Sordi di Un americano a Roma) che considerano l’italiano obsoleto, se ne vergognano e sono coloro che lo stanno uccidendo. Questi scribacchini teorici della rinuncia all’italiano sono quelli che prima introducono l’inglese in modo stereotipato e senza alternative – vedi lockdown – fino a farlo entrare nell’uso, subito dopo giustificano la parola dicendo che è ormai è entrata nell’uso (grazie a loro mica alla gente) e non si può più far niente, e nella terza fase ti dicono che se dici confinamento come in Francia e in Spagna sei retrogrado, o addirittura “ridicolo”.

Questa logica si deve spazzare via.

Per questo la nostra proposta di legge chiede campagne di promozione e “raccomandazioni” come quelle utilizzate per intervenire sull’uso – e cambiarlo – nel caso della femminilizzazione delle cariche. Se in un primo tempo “ministra” faceva ridere, adesso si è affermato, perché solo l’uso e l’abitudine fanno apparire una parola bella o brutta – per citare Leopardi – o anche ridicola, solo perché non siamo avvezzi a sentirla.

Non si può pensare di risolvere il problema delle formiche schiacciando quelle che passano, ma bisogna agire individuando il formicaio. Dunque, non ha tanto senso prendersela contro i singoli anglicismi, considerati in modo isolato, perché per uno che si argina a questo modo ne spuntano altri dieci. Bisogna agire sulle cause che inducono alla nevrosi compulsiva che porta a usare le parole inglesi, e sulla testa di certi giornalisti e intellettuali che dovrebbero “decolonizzare la mente”.

La battaglia per l’italiano e contro l’abuso dell’inglese si può condurre solo con questo spirito e su questo piano. E all’ideologia dell’inglese globale è necessario contrapporre un’altra visione politica basata sul plurilinguismo.

PS 2023
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Lingue e democrazia davanti al globalese e all’itanglese (prima parte)

Di Antonio Zoppetti

Immaginiamo una multinazionale italiana che imponga a tutti i Paesi in cui ha sede di conoscere l’italiano, che emani le direttive interne in quella lingua e pretenda che le riunioni dei vertici si facciano in italiano. Se qualcuno non lo sa lo si forma, lo si obbliga a fare corsi d’italiano, e se non lo impara è fuori.

Probabilmente nelle succursali degli altri Paesi qualcuno si opporrebbe a questo modello dispotico. Invece pochi hanno da ridire se tutto ciò accade con le multinazionali angloamericane, perché diamo scontato che l’inglese sia la lingua internazionale, e non la “lingua dei padroni” e dell’egemonia che si impone nel mondo del lavoro per questione di rapporti di forza. È la conseguenza linguistica del capitalismo mondializzato che oggi si chiama globalizzazione.

Passando dalla consuetudine all’etica, la domanda è: è giusto tutto questo? È un processo democratico?

Il tema è politico e le risposte possibili sono due, per semplificare.

Ci sono gli anglofili sostenitori del diritto del più forte e della prassi, e ci sono gli “idealisti” che si schierano dalla parte del plurilinguismo vissuto come un valore da difendere. Le soluzioni moderate e miste, che si appellano al buon senso, si possono salutare come figlie della massima in medio stat virtus oppure come cerchiobottismo, ma quando si tratta di determinare in quali casi sarebbe giusto usare l’inglese e in quali no, le decisioni pratiche alla fine sono sempre influenzate dalla visione più generale.

Il partito degli anglofili

Gli anglofili si appellano alla prassi, sostengono che l’inglese è di fatto la lingua che si è ormai imposta in tutto il mondo. Questa affermazione è però influenzata dalla visione politica sottostante, e non è vera da un punto di vista statistico. In Italia l’inglese è masticato da circa il 48% della popolazione, stando ai dati Istat 2015, ma il 28% di costoro ne ha una conoscenza scarsa, turistica e insufficiente. E allora l’inglese è conosciuto da una minoranza degli italiani. Gli altri sono esclusi, non hanno accesso a questa lingua “internazionale” che è un progetto politico, non una realtà. Dunque sono considerati come ignoranti, da “alfabetizzare”, educare e istruire, anche se molti di loro conoscono per esempio altre lingue come il francese (quasi il 30%) o lo spagnolo (circa l’11%, una percentuale che si amplia con il fatto che è una lingua con un’alta intercomprensibilità). Ma queste lingue sono considerate di serie B, perché il disegno globale è quello di portare tutti i Paesi sulla via del bilinguismo a base inglese, e le altre lingue sono viste come inutili per la comunicazione internazionale, o addirittura come un ostacolo: prima devi sapere l’inglese, poi se vuoi studia pure le altre lingue.

Tutto ciò si può definire colonialismo linguistico, per chiamare le cose con il loro nome. È un modello che risale almeno all’Ottocento, utilizzato dal Regno Unito nelle proprie colonie, ed è quello che ha portato alla spartizione dell’Africa in aree inglesi o francesi, dove sono sorte le scuole coloniali per instaurare la nuova lingua, e dove tantissimi idiomi locali sono in questo modo morti, come racconta bene lo scrittore africano Ngũgĩ wa Thiong’o (Decolonizzare la mente, Jaka Book 2015) che invita gli intellettuali a ribellarsi all’ingese.
Oggi, le scuole dove si insegna in inglese non si chiamano più coloniali, ma sono vendute come “internazionali” e sono di gran moda, costose e blasonate; ma sotto c’è lo stesso disegno: formare in inglese e contribuire così alla sua affermazione come la lingua mondiale. L’accesso a queste scuole è riservato ai ceti abbienti che se le possono permettere, mentre si fa strada l’idea che insegnare in italiano generi laureati di rango inferiore rispetto a chi si è formato nella scuola e nella lingua di serie A.
Queste scuole generano il mito della competizione internazionale su cui campano, che porta alla “fuga dei cervelli”, cioè i laureati che si formano a spese dello Stato (le rette universitarie coprono solo in piccola parte i costi dell’Università) che poi finiranno a lavorare all’estero in Paesi che trarranno profitto dal nostro investimento. Tutto ciò ha dei costi incredibili per noi, ed molto vantaggioso per Paesi come gli Stati Uniti: è molto più conveniente importare i cervelli già formati da fuori (dalle “colonie”) che formarli. Sul piano interno, le conseguenze di questa politica non sono solo economiche, ma anche culturali. Sta prendendo piede l’idea che le università che insegnano in italiano siano di rango inferiore. E atenei come il Politecnico di Milano, in barba alle sentenze, hanno deciso di fatto di erogare la maggior parte degli insegnamenti in lingua inglese, proprio per “elevarsi”.

In questo scenario, l’inglese internazionale sta producendo una diglossia neomedievale, per citare il linguista tedesco Jürgen Trabant, cioè una società in cui l’accesso alla lingua di rango superiore – un tempo il latino, oggi l’inglese – è riservato ai ceti superiori, mentre le masse escluse dalla cultura alta si accontentano della lingua locale, oggi l’italiano e un tempo i dialetti.
Il modello che stiamo perseguendo è quello di rendere l’italiano, e le lingue locali, i dialetti di un’Europa la cui lingua sarà l’inglese.

Siamo sicuri che questo è il modello che vogliamo? E soprattutto: qualcuno ci ha chiesto se è quello che vogliamo?

Esperanto, plurilinguismo e modelli alternativi

Il punto critico di chi respinge questo modello – a parte il fatto che in Italia semplicemente è una posizione che non è rappresentata e sembra non esistere – sta nella soluzione concreta al problema della comunicazione internazionale. Se si rinuncia all’inglese, come si fa?

Le soluzioni sono varie.

Da un punto di vista teorico, l’esperanto, per esempio, sarebbe una soluzione neutrale ed etica. Si tratta di una lingua semplificata, concepita per essere appresa in poco tempo, ed essendo una lingua artificiale gode di poche semplici regole (non ci sono irregolarità) e si appoggia a un lessico pensato per le sue radici più o meno internazionali e comuni a molte lingue. Ma gli esperantisti sono sempre stati bastonati (e persino perseguitati) e la loro proposta è stata osteggiata sin dal suo apparire, spesso con argomenti falsi. È stato detto che non funziona, ma invece funziona benissimo. È stato detto che anche se funzionasse poi con il tempo si differenzierebbe localmente, una sciocchezza che confonde le lingue naturali con quelle artificiali che si preservano proprio perché non sono la lingua madre di nessuno. A questo proposito vale la pena di ricordare che il latino dei teologi medievali e di alcuni scienziati, proprio perché era una lingua culturale di intermediazione, si è preservato per secoli e ancora oggi è usato negli ambienti cattolici come lingua franca dove si creano persino i neologismi utili a esprimere il presente, per cui un tweet è un breviloquium.

La verità è che proprio perché l’esperanto è una soluzione neutra si scontra con gli enormi interessi del colonialismo linguistico basato sull’inglese. Mentre i Paesi anglofoni non hanno i costi e gli obblighi di imparare altre lingue, le scuole di formazione in inglese, i corsi di inglese, i soggiorni studio nei Paesi anglofoni… costituiscono un indotto quasi incalcolabile. Le ragioni del mancato prendere piede dell’esperanto sono queste. Umberto Eco ne elogiava persino la bellezza, ma a prescindere dalle questioni estetiche, l’esperanto è di sicuro un’utopia, ma come tutte le utopie – letteralmente un luogo che non c’è – non significa che sia irrealizzabile. L’esperanto c’è, a dire il vero, anche se è una realtà piccola che non viene presa in considerazione, ma passando dalle soluzioni filosofiche a quelle pratiche, vale la pena di ricordare che se fosse scelto come modello della comunicazione internazionale e inserito nella scuola, per la sua rapida facilità di apprendimento sarebbe possibile renderlo una soluzione ampia nell’arco di un paio di generazioni. E questa soluzione semplice farebbe risparmiare ai Paesi non anglofoni enormi investimenti che oggi si impiegano per studiare l’inglese, una soluzione di gran lunga più costosa e difficile. Inoltre, non costituirebbe una minaccia per le lingue locali e per il plurilinguismo.

Umberto Eco è celebre anche per la massima che la lingua dell’Europa è la traduzione. E questa è un’altra soluzione comunicativa che dopo l’uscita del Regno Unito dovrebbe essere presa in considerazione seriamente nella Ue, che non si capisce perché dovrebbe continuare a usare l’inglese come principale lingua di lavoro, sia dal punto di vista etico sia da quello economico (se lo chiede anche Michele Gazzola in una bella intervista al Corriere). I difensori dell’inglese come lingua dell’Europa sostengono che tradurre in tutte le lingue sarebbe costoso, ma ancora una volta bisognerebbe andare a vedere a chi conviene ricorrere all’inglese, di certo non a noi. In ogni caso, ammesso e non concesso che sia più dispendioso, è bene ricordare che anche fare le elezioni è costoso, ma sono soldi ben spesi in una democrazia, e in pochi sottoscriverebbero che è meglio instaurare una dittatura perché costa meno e si semplifica la gestione dello Stato.

E allora torniamo alla visione politica della lingua. Meglio il plurilinguismo o l’inglese internazionale? La democrazia o la dittatura dell’inglese?

Non dimentichiamo che tra i modelli di politica plurilinguistica, proprio accanto a noi, c’è l’esempio della Svizzera che funziona bene. Se in Europa si adottassero 5 lingue (francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco) si coprirebbe il 70% delle lingue locali, come ha spiegato Jean-Luc Laffineur e come ho già riassunto in un altro articolo (“Inglese internazionale o plurilinguismo?”).

Il pensiero unico contro la democrazia linguistica

Dopo aver chiarito che l’inglese internazionale non è l’unica soluzione possibile, né quella già compiuta come vogliono farci credere, è anche più chiaro che le questioni linguistiche sono qualcosa di politico. E se si applicassero alle soluzioni politiche in campo le categorie di destra e sinistra, i difensori del globalese (la “dittatura dell’inglese) si potrebbero etichettare come la destra della politica linguistica mondiale. Appoggiare la lingua madre dei popoli egemoni – la “lingua dei padroni” per banalizzare provocatoriamente – e imporla a tutti non è una soluzione democratica.

Curiosamente, la sinistra italiana (che oggi preferisce definirsi progressista) è schierata con la “destra” anglomane e “colonialista”, e ritiene che parlare l’inglese sia un dovere, un segno di cultura, modernità e internazionalismo, invece di guardare al plurilinguismo, alla democrazia linguistica e alle fasce di popolazione escluse o deboli. E in questa visione la convergenza con la destra è totale. Basta pensare alle tre “i” di Berlusconi e dell’allora ministra dell’Istruzione Moratti (Inglese, Internet, Impresa) e basta guardare alle recentissime tesi di Fratelli d’Italia (nel punto relativo ai giovani) che delineano chiaramente il progetto di investire per la creazione delle future generazioni bilingui a base inglese. Nelle formazioni di centro e in tutto l’arco parlamentare, non mi pare che la mentalità sia troppo diversa. In altre parole in Italia non c’è dibattito, tutti danno per scontata la stessa soluzione politica e vige il pensiero unico. Senza dibattito non c’è democrazia né libertà. Sarebbe auspicabile una corrente trasversale ai partiti di destra e di sinistra, uno spaccato della società civile, più che delle ideologie, che ponesse il problema al centro di una riflessione.

Dovremmo almeno discuterne e decolonizzare la mente, per riprendere le tesi di Ngũgĩ wa Thiong’o. Ma non esiste nulla di tutto questo e il globalese viene imposto in modo silenzioso e a piccoli passi, giorno dopo giorno. E così, la riforma Madia, nel 2017, ha sostituito “seconda lingua straniera” con “inglese” nei requisiti per accedere ai concorsi della pubblica amministrazione. Il risultato è che l’inglese è diventato obbligatorio, e la conoscenza di altre lingue superflua. Con la semplice sostituzione di “plurilinguismo” con “inglese” – che non sono affatto la stessa cosa – ci stanno portando verso il modello della lingua unica, in violazione dei principi affermati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. La decisione del Miur (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) di introdurre l’obbligo di presentare i Prin (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) solo in inglese è avvenuta nello stesso anno e con le stesse modalità. Lo stesso disegno perseguito dal Politecnico di Milano di erogare la maggior parte dei corsi in lingua inglese nonostante le sentenze che in teoria lo impedirebbero.

In Italia c’è solo il “partito dell’inglese” e il pensiero unico che anno dopo anno diventa sempre più forte, e che non registra troppi dibattiti né resistenze.

In questi giorni si stanno definendo i passaporti di immunità da rilasciare a chi ha avuto il/la covid o a chi è stato vaccinato, e come per la nuova carta d’identità questo documento valido per l’Europa è concepito in italiano e in inglese. Mentre da noi nessuno si è nemmeno posto il problema, in Belgio il presidente della Gem+ (per una Governanza Europea Multilingue), un’associazione che si batte per il plurilinguismo, ha dato battaglia sulla questione come altre associazioni francesi e tedesche lo hanno fatto per la nuova carta d’identità che in Germania è invece trilingue. Queste decisioni bilingui costituiscono precedenti che favoriscono “l’inglese allo scapito delle altre lingue ufficiali dell’UE”, scrive il presidente della Gem+. E allora “tutti ai posti di combattimento – continua – Abbiamo inviato la nostra posizione a tutti i membri chiave del Parlamento europeo, così come alla rappresentanza permanente francese a Bruxelles, sottolineando che questo articolo viola i principi di proporzionalità e di sussidiarietà e suggerendo un’alternativa basata sul trilinguismo.”

Queste iniziative sono inaudite in Italia, e forse c’è qualcuno che potrebbe pensare che siano sciocchezze, ma non lo sono affatto. Sono l’ennesimo segnale di come in modo silenzioso e surrettizio la nostra classe politica, senza chiederci se siamo d’accordo, ci stia portando verso il modello dell’inglese come la lingua d’Europa.

Nella nostra petizione di legge per l’italiano, non c’è solo la questione dell’abuso degli anglicismi, c’è anche la richiesta di promuovere l’italiano in Europa, come lingua di lavoro, e all’estero.
E se la politica non darà un seguito alla nostra petizione, il prossimo passo sarà quello di allearci con le associazioni internazionali come appunto la Gem+ di Bruxelles che con il suo operato, in nome del plurilinguismo, tutela anche l’italiano.


Molti pensano che la questione dell’inglese internazionale non c’entri nulla con l’anglicizzazione della nostra lingua e con l’invadenza degli anglicismi. Ma non è così. Le due cose sono profondamente intrecciate e l’interferenza dell’inglese è proprio legata al fatto che è presentato come lingua di rango più elevato.

Perché preferiamo gli anglicismi? Anche perché la nostra classe dirigente ci sta conducendo verso il modello dell’inglese globale, e dunque lo consideriamo superiore e internazionale…

(continua)

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. Le immagini, i collegamenti e i commenti originali sono perduti.]