Dall’italiano all’inglese: il collasso della lingua del lavoro

Alla vigilia del Primo maggio, Massimo Gramellini, nella sua rubrica “Buonasera” su Rai 3, ha ripreso il caso della dipendente di Amazon che era stata licenziata per essersi soffermata troppo a lungo in bagno, una decisione che ha fatto notizia e che l’Ispettorato del lavoro ha poi annullato. L’editorialista del Corriere ha deprecato duramente il modello anglosassone che sta sottoponendo i lavoratori al controllo degli algoritmi con modalità disumane che ricordano quelle di Tempi Moderni di Charlie Chaplin, e sono concettualmente molto più vicine alle tanto biasimate condizioni di lavoro dei cinesi, che non alle nostre. E ha concluso il suo pezzo con un appello per tornare a un modello di lavoro europeo basato sullo stato sociale, una bella espressione italiana che non vale la pena di sostituire con welfare, per molte ragioni che, più che con la lingua, hanno a che fare con una diversa concezione del mondo che stiamo smarrendo nella nostra americanizzazione sociale e politica.

Quello su cui dovremmo riflettere è che il problema degli anglicismi e dell‘itanglese è solo l’effetto collaterale di questo processo, che fuori dal lavoro è sempre più pervasivo in ogni ambito, dalla sanità all’istruzione, dalla politica ai fenomeni di costume più marginali.

Le mansioni di lavoro in inglese

Gramellini ha raccontato che Elisa è stata assunta con la mansione di “associated”, una parola che definisce gli addetti di base senza mansioni specifiche, che si potrebbe tradurre con “l’ultima ruota del carro”, dietro l’edulcorazione di questi anglicismi. Ogni mattina, appena entra nel magazzino mostra il suo “QR code” – naturalmente pronunciato in inglese visto che “codice Qr” non fa parte dell’italiano – con cui il sistema traccia i ritmi della sua attività che, come tutto il resto, ha un nome in inglese ed è definita “outbound”. Consiste nel sistemare dentro i pacchi gli oggetti che un altro “associated” le porge dalla fessura della gabbia in cui è rinchiusa. Se si guardano le mansioni e i nomi delle figure professionali di Amazon sono tutti di questo tipo; ci sono gli addetti al “picking”, cioè i “picker” incaricati di prelevare e raggruppare i prodotti che formano l’ordine, o gli “stower” che recuperano la merce per riporla in una cella della torre e così via.

Elisa ha un minuto per eseguire la sua confezione, in modo da sfornare 60 pacchi all’ora. Se va in bagno lo deve comunicare al responsabile perché sia sostituita e la catena di imballaggio non si interrompa. Se durante l’arco della giornata questo ritmo rallenta, si avvicina immediatamente un “instructor”, le cui mansioni evocano forse a qualcuno quelle della parola tedesca “kapò”, che le impartisce un breve “coatching” motivazionale per fare in modo che si dia una svegliata.

In questo scenario d’altri tempi che sta tornando a essere la norma di molte realtà lavorative, dai “call center” ai “rider” del mondo del “delivery”, anche l’imposizione della nomenclatura in inglese fa parte dell’alienazione e del controllo che viene introdotto. Le multinazionali che si espandono lo fanno esportando e imponendo la propria lingua, insieme alle proprie pratiche, in una distruzione totale delle nostre radici. E ciò avviene a ogni livello della catena, dai subalterni più infimi ai più alti dirigenti, i “top manager” che ostentano l’itanglese con fierezza e come fosse il necessario linguaggio di settore che il mondo del lavoro allo stesso tempo richiede e impone.

Passando alle mansioni contrattuali di un’altra simpatica multinazionale, per comprendere cosa sta accadendo basta scorrere quelle di MacDonald’s che nelle sue succursali italiane esporta figure come i crew (ma anche i crew-delivery o i crew-trainer) o i guest experience leader e swing assistant (anche detti training manager).

Questi sono solo due esempi di “normalità”, perché il mondo del lavoro è ormai tutto così. E nel caso delle multinazionali l’itanglese non riguarda più la comunicazione e le scelte sociolinguistiche che entrano in gioco nel parlare, è entrato ufficialmente e istituzionalmente nella contrattualistica.

Negli anni Novanta un giurista del calibro di Francesco Galgano aveva analizzato il radicarsi di parole come “leasing” o “franchising” nella giurisprudenza, mostrando che si affermano in tutto il mondo per precise disposizioni delle case madri statunitensi che impongono alle filiali la propria terminologia. Queste tassative raccomandazioni di non tradurre e adattare il meno possibile i concetti del proprio diritto in quelli delle lingue locali serve a mantenere la loro uniformità internazionale e le protegge da ogni possibile conflitto con gli ordinamenti giuridici dei singoli Paesi. (Francesco Galgano, “Le fonti del diritto nella società post-industriale”, in Sociologia del Diritto, Rivista quadrimestrale fondata da Renato Treves, 1990, p. 153). Questa volontà è in linea con quella più generale con cui gli Stati Uniti tentano in ogni modo di estendere la validità delle proprie leggi anche al di fuori dei propri confini nazionali in altri ambiti. Certe conseguenze politiche o militari sono sotto gli occhi di tutti, quelle linguistiche portano a far sì che “leasing” abbia la meglio per esempio sul nostro concetto di “locazione finanziaria”, e poi esca dal suo ambito grazie allo stesso linguaggio usato dal braccio armato delle multinazionali: la pubblicità – anzi l’advertising – che estende l’inglese planetario al linguaggio comune. Dunque ci offrono le automobili in “leasing” e ci invitano ad aprire la nostra attività in “franchising” con loro, portando alla regressione di un’espressione come “catena di negozi”.

Nel 2014, Alessandro Gilioli (“Anglicismi nel linguaggio giuridico italiano: il caso leasing”, Italogramma, vol. 7, 2014, p. 3) ha notato che questo meccanismo di propagazione si ritrova uguale in una miriade di altre espressioni, come joint venture, merchandising, authority, buyer, consumer, delivery, welfare state

Da allora la situazione si è ulteriormente allargata e sta diventando sempre più profonda: questo meccanismo non solo causa l’itanglese, ma finisce per mettere a rischio la lingua italiana in modo ben più grave, perché la nuova frontiera di questa espansione mira a cancellare totalmente l’italiano dalla contrattualistica per sostituirlo con il solo inglese.

I contratti di lavoro in inglese e altri pericolosi precedenti

Giorgio Cantoni, il fondatore di Italofonia, è un dipendente di una multinazionale statunitense che conosce bene queste realtà e in un articolo sul sito Campagna per salvare l’italiano ha denunciato questa nuova invadenza dell’inglese che si allarga uscendo dalla nomenclatura delle figure professionali, delle cariche, delle funzioni e delle procedure produttive per coinvolgere anche i contratti:

Diverse aziende, spesso succursali italiane di multinazionali statunitensi, hanno preso l’abitudine di stilare i contratti di lavoro dei propri dipendenti italiani assunti per operare sul mercato italiano, esclusivamente in inglese. Naturalmente un inglese giuridico-legale, dalla cui comprensione dipendono però le vostre mansioni, le regole da rispettare, le clausole che comportano penali, l’inquadramento, la retribuzioni e altri aspetti cruciali. Ma nulla a quanto pare obbliga l’azienda a fornirvi una copia nella vostra lingua, anche se siete assunti nel vostro Paese e qui eserciterete i vostri compiti.”

In Francia una cosa del genere non sarebbe legale, perché ogni azienda che si stabilisce nel territorio francese è obbligata a tradurre tutti i contratti e i documenti, incluso il logiciel, cioè i programmi informatici che loro non chiamano affatto software, e chi non si è adeguato ha ricevuto salate sanzioni.

In qualunque Paese civile, sovrano e non colonizzato, dovrebbe essere così. La nostra classe politica dovrebbe impedire queste cose, se non fossimo una sorta di “Bieloamerica” incapace di distaccarci dalla voce del padrone sotto ogni aspetto. Perché queste prassi costituiscono dei pericolosissimi precedenti, e loro conseguenze portano anche a sovrapposizioni e aree grigie altrettanto pericolose.

Su alcuni luoghi di lavoro – continua Giorgio Cantoni – la maggior parte dei corsi sulla sicurezza vengono erogati in inglese, magari perché il materiale è prodotto in una sede centrale negli Stati Uniti o a Londra, e per l’azienda è più pratico non creare versioni in altre lingue. Il massimo che lo Stato italiano potrebbe richiedere loro è di farvi firmare un modulo in cui dichiarate di aver compreso tutti i contenuti somministrati in inglese e di non aver bisogno di una traduzione in lingua italiana. E vorrei vedere quale dipendente avrebbe il coraggio di non firmarlo, anche se non avesse capito nulla.

La mancata comprensione delle norme di sicurezza mette a rischio la salute dei lavoratori, e può contribuire all’aumento delle morti bianche. Intanto, sul piano linguistico della morte dell’italiano, poiché l’inglese è ormai diventato un obbligo nel mondo del lavoro, sancito dalla Riforma Madia, per esempio, come requisito per l’assunzione nella pubblica amministrazione italiana, lo scenario del futuro potrebbe essere anche peggiore, a proposito di questo genere di multinazionali.

Giorgio Cantoni riferisce di un caso che ha potuto esperire di persona: un’azienda “dove il datore di lavoro obbliga il personale, per la maggioranza italiano, a comunicare sempre in inglese, in ufficio, durante l’orario di lavoro. Solo le pause sono escluse… così invece che fumare di nascosto nei bagni o alla finestra, qualcuno sfrutterà i minuti di pausa per fare una cosa ancora più proibita: parlare nella propria lingua!”

L’emulazione tutta interna della colonia Italia

La cosa allucinante è che questo disegno suicida non è determinato solo dall’espansione delle multinazionali, che perseguono i propri interessi, ma è emulato sempre più anche dalle realtà italiane. Quando l’inglese diventa la lingua superiore, e quando l’italiano non sa più esprimere il contemporaneo se non attraverso gli anglicismi che vengono introdotti da una classe dirigente in preda a un complesso di inferiorità che la rende ormai incapace di usare la propria lingua, la conseguenza è che gli addetti ai lavori si rivolgano a questo modo – il solo che ormai concepiscono e conoscono – anche ai cittadini.
E così Italo ha introdotto a figura del “train manger” al posto del “capotreno” non solo nella comunicazione ai passeggeri, ma anche nei contratti di lavoro, mentre in un’accademia dove mi capita di insegnare la comunicazione ufficiale mi invita a partecipare alle riunioni di “faculty” invece che di “facoltà” e si stupisce delle mie rimostranze di cui non comprende nemmeno il senso. Oppure il comune di Roma, nella sezione #RomaInnovation del suo sito istituzionale, lancia la piattaforma Citizen Wallet – l’altra “faccia della medaglia del piano Roma Smart City” – attraverso il servizio “tap&go di Atac” per incentivare “i comportamenti virtuosi messi in atto dai city user” per il miglioramento della sostenibilità ambientale e per la distruzione della sostenibilità della nostra lingua. Infatti la Casa Digitale del Cittadino che eroga il “borsellino elettronico (wallet)” è denominata “My Rhome” (grazie ad Alberto Bertelli per la segnalazione).

Tutto ciò sta portando al collasso dell’italiano, e non solo nel mondo del lavoro.

Il collasso di ambito

Il “collasso di ambito” è un concetto di cui ha parlato il linguista australiano Joe Lo Bianco, dell’Università di Melbourne, che chiama così il caso in cui una lingua cessa di adattarsi ai cambiamenti in un determinato ambito fino a perdere la capacità di esprimerlo in modo efficace. Ciò è avvenuto per esempio nella lingua svedese quando negli anni Novanta hanno deciso di erogare la formazione universitaria solo in inglese. Il risultato è stato “l’allarme pubblico e l’agitazione per rafforzare la posizione e la sicurezza dello svedese come lingua nazionale con l’intera gamma di usi sociali e intellettuali” (Joe Lo Bianco, “Language, Place and Learning”, PASCAL International Observatory, 2007).

Mentre in Svezia ci hanno ripensato ritenendo questa scelta dannosa (lo stesso danno denunciato in Olanda da Annette De Groot che ha spiegato il concetto del “bilinguismo squilibrato” e dell’inglese sottrattivo), in Italia abbiamo da poco deciso di perseguire questa strada suicida con l’anglificazione dell’università e più in generale della formazione, che prepara le nuove generazioni al futuro mondo del lavoro fatto di inglese e di itanglese in un abbandono dell’italiano che lo renderà sempre più simile a un dialetto. Così il cerchio si chiude.

PS: scopri le tre piccole differenze

Chi mette in discussione l’itanglese e chi non pensa che siamo in presenza di un collasso di ambito (ma anche chi abitualmente fa acquisti su Amazon) farebbe bene a guardare questo sito che riporta le offerte di lavoro di Amazon.
Per facilitare la lettura le copio-incollo per intero di seguito (le mansioni espresse in italiano sono 3, chi riuscirà a trovarle?).

OFFERTE DI LAVORO A MILANO
Associate Account Manager Amazon Business;
Sr. Customer Experience manager, Last Mile Delivery Experience;
Sr Agency Partnerships Manager;
DevOps Architect, Global Financial Services, Professional Services;
Sr. Strategic Vendor Manager, Last Mile GFP Europe;
Senior Vendor Manager – Amazon Fresh;
Sr. Program Manager, Trustworthy Shopping Experience;
Technical Program Manager II, EUCF ACES EThOS;
Fashion Deals Ops Specialist, 3P SL Promotions;
Senior Engagement Manager, Professional Services;
Regulatory Counsel, WW Ops , EU Ops Legal;
Associate Account Manager Amazon Business;
Senior Team Lead, Amazon Vendor Services, Fashion;
Sales Account Manager;
Global Category Manager – Category Sourcing Manager;
Manager, EU DSP Planning;
Telco Principal Solutions Architect;
Business Analyst;
Employee Relations Manager;
Onboarding Recruitment Coordinator, Student Programs;
Sr. Vendor Manager Furniture;
Creative Agency Strategist, Campaign & Creative Management;
Front End Engineer, AWS Resource Management;
Senior Front End Engineer, AWS Resource Management;
Marketing Program Manager;
Software Development Engineer, Robotics Advanced Technology Europe;
HR Business Partner;
Senior HR Business Partner;
Program Manager, Amazon Fresh;
Enterprise Account Manager SME, Enterprise;
Head of Vertical Sales;
Sr. Product Manager Heavy & Bulky Italy and Spain;
Applied Scientist, Network Process Optimization;
Performance Engineering Mgr., Innovation & Design Eng.;
Network Business and Vendor Developer;
Sr. Marketing Manager Italy, Amazon Ads, Amazon Ads;
Real Estate Asset Manager – Italy;
Sr Program Manager, Selection, Amazon Fresh & 3P Grocery Delivery;
Customer Delivery Architect, Global Financial Services;
Telco Principal Solutions Architect;
Partner Technical Trainer, Partner Training;
Snr Product Marketing Manager, F3 Central Marketing;
Italy Sales Leader, Microsoft Platform, Microsoft Sales Specialist, WWSO;
Design Technologist;
Principal Product Manager EU Vendor’s Experience;
Data Center Security Manager;
HR Regional Partner;
Italy Content Analysis Senior Manager, Amazon Studios Local Originals;
Senior Program Manager, Acquisition;
Business Intelligence Engineer;
Data Scientist Intern;
Marketing Manager;
Account Executive;
Customer Delivery Architecy, Professional Services;
Senior Program Manager, Fulfillment Acceleration, EU DF;
Product Support Engineer, Emerging Tech Services;
Sr Software Development Engineer, Amazon Books;
Internal Recruiter.

OFFERTE DI LAVORO A ROMA
Territory Account Manager – Public Sector;
Senior Front End Engineer, AWS Resource Management;
AWS Recruiter;
Audit, Risk and Compliance Manager;
Transportation Audit, Risk and Compliance Manager;
AWS – Lead Development Representative Italy;
Security Tooling Engineer;
Senior Penetration Testing Engineer, Security Verification and Validation Team;
Penetration Testing Engineer.

ALTRE SEDI
Senior Software Development Engineer, Redshift Berlin – Cagliari;
Costumer Service Delivery Station Liaison (DSL) – Alessandria;
Graduate Area manager – Passo Corese (RIETI);
Site Controller, Customer Fulfillment Finance – Agognate (Novara);
HR Business Partner – Torrazza Piemonte (Torino);
HR Assistant – Palermo;
Inventory Control and Quality Assurance Escalation specialist – Colleferro (Roma);
Specialista Sicurezza sul Lavoro – Cividate al Piano (Bergamo), Rovigo, San Salvo (Chieti);
Reliability Maintenance Engineering Area Manager – Calenzano (Firenze);
Health and Safety Manager – Passo Corese (Rieti);
Team Lead Operations – Trento;
Software Developer Engineer, Alexa AI Natural Understanding – Torino;
Senior Program Manager – Security and Loss Prevention, EMEA Surface Transportation
Programs Implementation – Castel San Giovanni (Piacenza);
Receptionist (L.68/99) – Cividate al Piano (Bergamo);
Reliability Maintenance Engineering Planner – Cividate al Piano (Bergamo);
Specialista Sicurezza sul Lavoro, EU Sort WHS – Casirate d’Adda (Bergamo);
Travel Coordinator, Launch Support Team – Casirate d’Adda (Bergamo);
Loss Prevention Specialist – Passo Corese (Rieti), Agognate (Novara);
Supervisore Squadra di Manutenzione – Colleferro (Roma);
3PL Area Manager, 3PL team – Soccorso (Perugia), Genova, Bitonto (Bari);
Receptionist – Colleferro (Roma);
Italian Data Linguist – Torino;
Software Development Engineer, Elastic Graphics – Asti, Cagliari;
Senior HR Business Partner – Calenzano (Firenze), Padova, Bologna, Venezia, San Giovanni Teatino (Chieti);
Regional Program Manager, Community Operations – Firenze, Grugliasco (Torino);
Regional Specialist, Community Operations – Udine;
HR Business Partner – Castel San Giovanni (Piacenza);
Senior HR Manager Warehousing – Cividate al Piano (Bergamo);
ICQA Escalation specialist – San Salvo (Chieti);
HR Associate Partner – Torrazza Piemonte (Torino);
Air Gateway Manager, Air Ground OPS – Castel San Giovanni (Piacenza);
Senior HR Business Partner – Spilamberto (Modena);
Graduate HR Partner – Torrazza Piemonte (Torino);
Manutentore industriale – Cividate al Piano (Bergamo);
Shift Manager AMZL, Amazon Logistics – Pisa;
ICQA Data Analyst – San Salvo (Chieti);
Trainer – Cividate al Piano (Bergamo);
Ops Lead – Spilamberto (Modena).

Il Ministero che promuove l’italian culture (cultura italiana)

Il Ministero della cultura sta perseguendo un Piano nazionale per la digitalizzazione del nostro patrimonio culturale che mira alla “trasformazione digitale degli istituti culturali” e alla creazione di nuovi servizi. Un lettore, Davide, mi ha segnalato il sito di questo progetto definendolo uno “scempio provincialista”, e non gli si può dare torto.

Si tratta dell’ennesimo ossimoro (cfr. “ITsART: la cultura italiana si esprime in inglese? (lettera aperta a Franceschini“) che esclude il patrimonio linguistico da quello culturale, in un cambio di paradigma che ci sta portando alla creolizzazione culturale di cui quella linguistica è soltanto la conseguenza. I concetti chiave e le denominazioni avvengono in lingua inglese, la lingua superiore impiegata per educarci all’italiano 2.0 – l’itanglese – e il nostro idioma è ridotto alla lingua di serie B che affianca e spiega al popolino la newlingua dell’italian culture.

Basta analizzare il “Chi siamo” per comprendere come stanno le cose: “L’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale – Digital Library nasce con l’obiettivo di coordinare e promuovere i programmi di digitalizzazione del patrimonio culturale del Ministero della Cultura (articoli 33 e 35 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 2 dicembre 2019, n. 169).
Ha il compito di elaborare il Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale e di curarne l’attuazione”.

La tecnica comunicativa che educa all’inglese è la consueta. Si parte con la definizione in italiano (Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale) affiancata dalla corrispondente denominazione in inglese (Digital Library) che successivamente prende il sopravvento. In questo modo tutto si ribalta e l’inglese si sovrappone all’italiano che scompare. Il giochetto sporco di questa strategia si basa sul solito inghippo: da una parte c’è una lunga perifrasi esplicativa in italiano, e dall’altra una ben più maneggevole espressione in inglese (Digital Library) che viene presentata come più comoda e preferibile nell’economia linguistica. Naturalmente la denominazione anglomane significa solo biblioteca digitale, e forse bastava chiamarla così per rendere la stessa cosa in modo più efficace e trasparente, ma il Ministero si guarda bene dal promuovere il patrimonio italiano in italiano, per cui il titolo del sito e l’indirizzo in Rete è in inglese, e nella testata è Digital Library a costituire la denominazione ufficiale, mentre la lunga perifrasi italiana è solo accostata come una spiegazione, in una gerarchia linguistica in ordine di importanza che segue lo schema delle pellicole di Hollywood esportate in inglese, solo talvolta seguite dalla traduzione (es. The Day After – Il giorno dopo). Se le multinazionali d’oltreoceano hanno tutto l’interesse a esportare la propria lingua, resta da comprendere perché il Ministero della cultura persegua lo stesso intento con una denominazione in inglese per un progetto italiano tutto interno. E la risposta è nel provincialismo, nel servilismo, nell’alberto-sordità della nostra classe dirigente, malata di una nevrosi compulsiva che spinge a ricorrere agli anglicismi per tutto ciò che è nuovo e moderno. Queste scelte sociolinguistiche che attraverso l’anglicizzazione esprimono un senso di appartenenza elitario a un gruppo superiore – ma per altri tutto ciò suona patetico – non sono vezzi innocenti. Hanno delle conseguenze, soprattutto perché non sono casi isolati, sono una ben precisa strategia che, nel generare migliaia di simili espressioni, diventano una regola che sta uccidendo la nostra lingua. Questi anglicismi non sono affatto un arricchimento, sono al contrario un depauperamento del nostro patrimonio linguistico che inevitabilmente regredisce.

Inutile rimarcare che Digital Library non è solo un anglicismo crudo, è un “prestito” sintattico (anche se “trapianto” mi pare un termine più adatto di quello in voga tra i linguisti), dove la dislocazione è invertita rispetto all’italiano “biblioteca digitale”, e bisognerebbe riflettere maggiormente sulla quantità di questi anglicismi che escono sempre più dalla sfera lessicale, perché si possono leggere come il ricorrere non a una sola parola, ma a un “prestito” più complesso. In questo trapianto bisogna notare che saltano anche le regole della lingua italiana sull’uso delle maiuscole, utilizzate all’inglese (Digital Library e non digital library).
Ma al Ministero della cultura, evidentemente, sono più avvezzi alle norme inglesi, e infatti, nella pagina dedicata al Piano Nazionale Digitalizzazione del patrimonio culturale si legge che “l’obiettivo è inquadrare ogni azione degli istituti del territorio all’interno di un framework condiviso fatto di policy e regole comuni.”
Tra i progetti tutti italiani si può poi segnalare la “call lanciata ad aprile 2021 per la partecipazione alla manifestazione We Make Future (15-17 luglio 2021, Rimini)” dove ancora una volta la denominazione del concorso (call) è in inglese, come l’italiano del futuro, a proposto di future, ma soprattutto del presente. E così, tra moduli chiamati form, comitati scientifici chiamati advisor board, tra governance, stakeholder e via dicendo, l’apoteosi della comunicazione in itanglese si raggiunge nella pagina “Buone pratiche” di cui voglio riportare l’indice.

Entrando nelle rispettive sezioni si scopre che la piattaforma digitale della Biblioteca Estense Universitaria è denominata la Estense Digital Library, o che i viaggiatori che vogliono inviare foto del territorio e segnalare beni culturali mancanti lo possono fare attraverso il portale realizzato dal Segretariato regionale dell’Emilia-Romagna, che però si chiama TourER.
Interessanti sono passi significativi come quello che spiega che “connesso all’ambito della co-creazione vi sono le pratiche di co-curation (co-curatela) e individual curationship (curatela individuale)”, dove ancora una volta l’italiano è solo un’aggiunta didascalica di supporto alla nomenclatura inglese, lo stesso schema di una frase come: “Questo approccio sposa il concetto di public history (storia pubblica) quale campo delle scienze storiche…”.
Molto edificante è la sezione “Gaming“, che cita l’iniziativa del Museo archeologico nazionale di Napoli, “il video-gioco Father and Son, un gioco narrativo dove il protagonista attraversa diverse epoche storiche: dall’antica Roma, all’Egitto, passando per l’età borbonica fino alla Napoli di oggi.” Trovo che il titolo in inglese sia particolarmente adatto soprattutto per la Napoli di oggi, almeno credo. E lo stesso dovrebbe valere per l’esperienza “avviata dal Museo nazionale archeologico di Taranto con il video-gioco Past for Future, dove un ragazzo investiga sulla misteriosa sparizione di una donna a Taranto, intraprendendo un viaggio che lo condurrà a svelare i misteri e a scoprire i tesori del museo”.

Ci sono solo due cose positive (per la lingua italiana): la scelta di scrivere “Buone pratiche” invece di “Best Practice” e la sezione “Visione” (proprio accanto a Governance) invece di “Vision”. Ma del resto nessuno è perfetto. Nemmeno l’itanglese del Ministero della Cultura.

Il progetto politico dell’itanglese

La prima notizia del Corriere.it di oggi è in itanglese, e non è una novità, è la norma.

Fallito il tentativo di chiamare la certificazione verde con il suo nome, “verde” per l’appunto, il green pass si è evoluto nel super green pass, e tra test, boom, hub e task force è l’italiano a essere messo tra virgolette quando si parla di documento “rafforzato”. L’unica nota positiva è terza dose invece di booster.

È ormai evidente che l’itanglese non è solo una realtà, è una precisa scelta comunicativa di tutti gli apparati mediatici, dai giornali alla televisione. L’itanglese è la lingua che si usa nel lavoro, dove le mansioni, le funzioni e anche il gergo dell’ambito si esprimono sempre più con parole inglesi. L’itanglese è la lingua dell’informatica e di Internet, delle pubblicità e delle insegne dei negozi, è l’idioma dei tecnici, degli scienziati, degli imprenditori, di sempre più uomini di cultura che ne fanno una scelta sociolinguistica per elevarsi e identificarsi in un gruppo “superiore” di appartenenza.
L’itanglese è la lingua delle manifestazioni culturali e degli eventi, è la lingua delle Poste italiane che nella nuova nomenclatura abbandonano i pacchi celeri e la posta ordinaria in nome del delivery. L’itanglese è la lingua del Miur – ora rinominato Mur – che tra soft skills e centinaia di altri anglicismi prepara ed educa gli studenti all’itanglese del lavoro e del futuro, mentre i giovani, imbevuti sin dalla culla di interfacce informatiche, videogiochi, titoli di film e di serie in inglese che veicolano i costumi e la società angloamericana (da Halloween al Black Friday, da Google a Facebook), lo praticano in modo sempre più naturale, e crescono con l’inglese obbligatorio e la cultura dell’unilinguismo per cui è la lingua internazionale e c’è solo quello, dalle elementari sino all’Erasmus. La pervasività del fenomeno è tale che persino gli antiglobalisti da centro sociale si definiscono no global e alla fine parlano la lingua delle multinazionali che vorrebbero abbattere e che identificano con il male. E gli ecologisti che idolatrano la svedese Greta Thunberg non hanno la più pallida idea di che cosa significhi l’ecologia linguistica e, come il loro idolo, manifestano contro il climate change fregandosene del cambiamento climatico e linguistico, dando per scontato un mondo che parla solo l’inglese.
Intanto il Ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani dichiara che non serve studiare le guerre puniche, ma occorre cultura tecnica, abbracciando la distruzione della scuola che da decenni è al centro dei progetti del Mur che importa prassi, concetti (e parole) d’oltreoceano in un appiattimento culturale di cui si vedono le conseguenze. Il rapporto Censis di pochi giorni fa ha rilevato che per il 5,9% di italiani (3 milioni) il covid non esiste, per quasi l’11% il vaccino è inutile, mentre fanno rabbrividire le percentuali di terrapiattisti, sostenitori del G5 come strumento di controllo delle persone, negazionisti dello sbarco sulla luna e convinti che il crollo delle torri gemelle sia stato un complotto dei servizi segreti statunitensi.
Queste sono anche le conseguenze di un vuoto culturale di cui le istituzioni sono responsabili, e la nuova strategia della supremazia della tecnica sulla cultura, il pragmatismo delle 3 “i” di Berlusconi-Moratti (Internet, Impresa, Inglese) sta portando a un cambio di paradigma che ha molto a che fare con l’americanizzazione della nostra società e la distruzione delle nostre radici in nome di una globalizzazione che è sempre più una colonizzazione non solo economica, ma anche culturale e linguistica. L’inglese è la lingua unica che serve per esprimere il pensiero unico, come negli scenari orwelliani, per semplificare.

Nel solco di quanto già introdotto attraverso i Prin (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) è appena stato istituito il nuovo Fondo Italiano per la Scienza (FIS, ma di italiano c’è ben poco, e forse quella “i” significa inglese) che prevede ingenti stanziamenti e si deve presentare obbligatoriamente in inglese, e in inglese si devono svolgere gli eventuali dibattiti. Si è introdotto a questo modo un pericoloso precedente che prevede l’abbandono dell’italiano, la nostra lingua madre, messo al bando in nome della lingua inglese, proprio nell’anno delle vuote e retoriche celebrazioni dantesche. Ma del resto la riforma Madia aveva già reso l’inglese lingua obbligatoria per partecipare ai bandi della pubblica amministrazione, mentre atenei come il Politecnico di Milano lavorano da anni per l’insegnamento nel solo inglese.

Su questo scenario di cancellazione dell’italiano si spiega anche l’itanglese, figlio di una mentalità che fa dell’angloamericano la lingua superiore. E l’itanglese è anche la lingua della nuova politica.
Sepolto il vecchio e poco comprensibile politichese novecentesco, il nuovo linguaggio politico è incentrato su un lessico del nuovismo che punta alle parole inglesi. Ma il dramma non è solo che questa lingua è quella della comunicazione politica dell’era di Twitter e degli streaming, l’itanglese è diventato la lingua delle istituzioni che produce jobs act e flat tax, cashback e navigator, cargiver e family day, senza risparmiare nessuno, dalla sinistra alla destra, passando per i pentastellati che hanno problemi con il congiuntivo e sono incapaci anche solo di prendere in considerazione che l’italiano è una risorsa da tutelare, e tanto meno sembrano in grado di comprendere cosa sia una politica linguistica.

L’inglese globale, e l’itanglese sul piano interno, sono la strategia della nuova classe politica che impone un inglese che fiorisce sul cimitero dell’italiano.

Nel 2019 in tanti abbiamo scritto a Di Maio per protestare contro l’introduzione della figura del navigator (uno pseudoanglicismo ridicolo e imbarazzante) e chiedendo di usare una parola italiana.
Nessuno ha ricevuto una risposta.

Nel 2020 ho rivolto una petizione al nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con oltre 4.000 firme contro l’abuso dell’inglese. Non è pervenuta alcuna risposta.

Quest’anno ho presentato una petizione di legge alla Camera e al Senato per la tutela della lingua italiana, ma nessun parlamentare ha risposto né la sta prendendo in considerazione.

Davanti alle esternazioni di Mario Draghi contro l’abuso dell’inglese ho scritto al suo capo di gabinetto segnalandogli la petizione e supplicando il presidente del Consiglio di fare qualcosa. Non è pervenuta alcuna risposta.

A parte queste iniziative che hanno raccolto migliaia di firme dal basso, davanti all’obbligo dell’inglese per il FIS (Fondo Italiano per la Scienza) anche la Crusca ha scritto al Ministero, per protestare insieme ad AISV (Associazione Italiana di Scienze della Voce), AItLA (Associazione Italiana di Linguistica Applicata), DiLLE (Didattica delle Lingue e Linguistica Educativa), SIG (Società Italiana di Glottologia), SLI (Società di Linguistica Italiana). Ma nemmeno a queste istituzioni il Ministero ha ritenuto opportuno rispondere.

Il punto, a mio avviso, non è che al Ministero interessi poco la questione, come ha scritto rammaricato il presidente della Crusca Claudio Marazzini. Credo che la faccenda sia ben più grave. Le istituzioni seguono un ben preciso progetto che si basa sul rafforzamento dell’inglese come lingua internazionale a scapito del plurilinguismo, e sul piano interno rivendicano con orgoglio la scelta di usare l’itanglese.

A gennaio, davanti alla decisione del ministro Dario Franceschini di chiamare in inglese, ITsArt, la piattaforma che si propone di “celebrare e raccontare il patrimonio culturale italiano in tutte le sue forme e offrirlo al pubblico di tutto il mondo”, in 300 gli abbiamo scritto pregandolo di riconsiderare quella denominazione che suona come un ossimoro. Ma a nessuno è mai pervenuta una risposta.

Pochi giorni fa il ministro degli esteri Luigi Di Maio, agli Stati generali della lingua italiana e della creatività, ha presentato la nuova campagna di comunicazione per rinnovare l’immagine dell’Italia all’estero che si chiamerà “BeIT”. L’idea della lingua italiana che ha esposto è ben chiara: “BeIT, la campagna di comunicazione straordinaria a sostegno del Made in Italy che la Farnesina sta realizzando in collaborazione con l’Agenzia ICE. Si tratta della prima campagna di nation branding mai realizzata per l’Italia: un racconto digital first dinamico e innovativo costruito proprio attorno a quei valori che caratterizzano l’essere e il saper fare dell’Italia.”
Promuovere l’italiano in itanglese sarebbe comico, se non fosse tragicamente vero. E l’idea dell’italiano che ha la nostra classe politica è quella dell’italiano 2.0 che si chiama itanglese, e non è certo quello di Dante.

Qualche linguista sostiene che “l’itangliano è ancora lontano” e che è tutta un’illusione ottica, qualche altro scrive pezzi intitolati “Chi ha paura degli anglicismi” e altri ancora notano che in fondo sul nuovo Zingarelli ci sono “solo” 3.000 anglicismi (omettendo di dire che nella prima edizione digitale del 1995 erano “solo” 1.800). Intanto l’Alitalia è stata rifondata con il nome di ITA Airways, e quello che sta avvenendo è sotto gli occhi di tutti (Italofonia ha fatto un buon punto della situazione su come le istituzioni stiano distruggendo la nostra lingua).

L’itanglese è ormai la lingua della politica e delle istituzioni, oltre che di tanti altri pezzi della società. È un progetto perseguito con consapevolezza. E la nostra classe dirigente, nell’attuarlo, è responsabile della mutilazione e della morte dell’italiano.

Una proposta di legge per l’italiano

Dopo le parole di Draghi sugli anglicismi che lasciano sperare in una maggiore sensibilità sulla questione rispetto alle precedenti legislature, e visto che a 4 mesi dal suo inoltro non è pervenuta alcuna risposta alla petizione sull’abuso dell’inglese al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ho provato un’altra via per rivolgermi alle istituzioni.


L’articolo 50 della Costituzione prevede che i cittadini possano rivolgere petizioni per provedimenti legislativi, e seguendo i canali previsti, insieme a qualche altro sottoscrittore, ho presentato oggi un proposta di legge alla Camera e al Senato.

Di seguito rendo pubblico il testo dell’iniziativa.

Questo è il mio modo di omaggiare i 700 anni dalla scomparsa di Dante: non con le celebrazioni retoriche, le chiacchiere e i musei, ma con i fatti e le iniziative concrete perché la nostra lingua possa continuare a vivere.
E prossimamente…
(continua).

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Petizione per provvedimenti legislativi a tutela e promozione della lingua italiana minacciata dall’abuso dell’inglese

Petizione presentata e sottoscritta ai sensi dell’articolo 50 della Costituzione da Antonio Zoppetti e da Daniele Tarricone, Giorgio Cantoni, Luigi Quartapelle, Giancarlo Consonni, Jean-Luc Laffineur, Bruna Zambrini.

Premessa

L’espansione dell’inglese globale legato ai fenomeni di mondializzazione sta stravolgendo in modo consistente l’assetto di tutte le lingue del mondo, ponendo gravi problemi di snaturamento delle identità linguistiche locali. Questo fatto ha delle ripercussioni concrete su molti aspetti della società, da quelli storico-culturali a quelli, molto più pratici, legati alla comprensione e alla trasparenza da parte dei cittadini di fronte alla comunicazione mediatica, lavorativa e anche istituzionale. Il fenomeno dell’anglicizzazione, in Italia molto pesante, non ha perciò nulla a che vedere con questioni astratte legate al “purismo”, alla “lotta ai barbarismi” o alle chiusure davanti all’internazionalizzazione che caratterizza la nostra epoca. È un problema di numeri e di buon senso.

Qualche dato

♦ Dallo spoglio dei dizionari risulta che dal 1990 a oggi, gli anglicismi non adattati sono passati da circa 1.700 a 4.000 (cfr. Devoto Oli).*
♦ Dalle analisi di dizionari come Devoto Oli e Zingarelli emerge che tra le parole che sono nate negli anni Quaranta e Cinquanta gli anglicismi crudi rappresentavano circa il 3,6%. Questo numero negli anni Sessanta è salito a quasi il 7%, negli anni Settanta ha superato il 9%, negli anni Ottanta il 16%, negli anni Novanta il 28% e oggi costituisce quasi il 50% delle parole nate negli anni Duemila. A preoccupare non sono solo la sproporzione e l’aumento esponenziale, ma il fatto che nel Nuovo millennio l’italiano sta cessando di evolvere per via endogena, e ciò che è nuovo viene espresso principalmente in inglese crudo.
♦ Passando dalla presenza delle parole inglesi alla loro frequenza, tutti i dati mostrano che gli anglicismi sono usati sempre più spesso dai mezzi di informazione, e hanno colonizzato il lessico di tanti ambiti strategici della nostra lingua: l’informatica, la formazione, il lavoro, l’economia, la tecnologia, la scienza… (in alcuni settori l’italiano ha perso la capacità di esprimersi con il proprio lessico) e sono entrati in modo molto ampio persino nel linguaggio politico, delle leggi e delle istituzioni.
♦ Dagli ambiti di settore gli anglicismi stanno poi penetrando sempre più anche nel linguaggio comune e addirittura in quello fondamentale: nel dizionario delle 7.000 parole “di base” di Tullio De Mauro (quelle che compongono oltre il 90% dei vocaboli utilizzati normalmente) nel 1980 si contavano una decina di inglesismi, ma nell’edizione del 2016 sono decuplicati e ce ne sono 129.

Il problema non sta nelle parole come bar, film, sport o scanner, che in buona sostanza si pronunciano e scrivono secondo le nostre regole e producono ibridazioni italiane (barista, filmare), né nell’accettazione di anglicismi ormai storici, bensì nella quantità e frequenza di quelli nuovi che violano il nostro sistema fono-ortografico e stanno creolizzando il nostro lessico e il nostro patrimonio linguistico.

* Per avere un parametro di riferimento: i francesismi erano e sono nell’ordine di un migliaio, gli ispanismi nell’ordine di un centinaio o poco più, lo stesso vale per i germanismi, mentre per le altre lingue l’interferenza si esprime attraverso le decine di parole.

La situazione negli altri Paesi

Il ricorso sistematico e compulsivo all’inglese da alcuni decenni sta portando a una trasformazione dell’italiano storico in una lingua ibrida che è stata definita itanglese,* sul modello del franglais di cui si parla in Francia. In Spagna il fenomeno è chiamato spanglish, in Germania Denglisch, e ovunque sono nate analoghe definizioni: il greenglish denunciato recentemente dall’ex ministro dell’Istruzione greco Georgios Babiniotis, il runglish della Russia post-comunista, mentre in Asia c’è l’hinglish per l’hindi, il konglish per il coreano, il tinglish per il thai, il japish o l’englanese per il giapponese, e via dicendo.

Stando a numerose ricerche effettuate attraverso l’analisi delle testate giornalistiche, che rispecchiano l’andamento più generale della lingua, tra le lingue romanze solo nel caso del romglese, la variante del rumeno, il numero degli anglicismi è simile al caso italiano, mentre la loro penetrazione in Francia e in Spagna non è paragonabile alla nostra, né per il numero né per il rilievo.

Le ragioni di questa diversa situazione sono storiche e culturali, ma soprattutto politiche. Lo spagnolo è parlato in una ventina di Paesi e le accademie di ognuno di questi lavorano in modo coordinato per mantenere l’uniformità della lingua sovranazionale anche con sostitutivi agli anglicismi. In Francia, la legge Toubon è arrivata dopo una serie di altri provvedimenti legislativi che hanno attraversato i governi di destra e di sinistra, dai tempi di De Gaulle a quelli dei mandati socialisti. All’estero in molti hanno da tempo compreso il problema e varato politiche linguistiche e provvedimenti. In Islanda esiste ufficialmente persino la figura del neologista, visto che l’islandese è una lingua davvero a rischio, in Europa. In Italia non siamo mai intervenuti, e l’approccio del “liberismo linguistico” si sta trasformando in un anarchismo selvaggio dove la nostra lingua è schiacciata dall’egemonia dell’inglese. L’italiano è paradossalmente più tutelato in Svizzera – dove il question time si chiama l’ora delle domande – che nel nostro Paese: lì negli ultimi anni si sono fatti enormi investimenti per la promozione dell’italiano visto che davanti al francese e al tedesco risulta in minoranza, nel loro modello plurilinguista.

* Dalla semplice importazione degli anglicismi stiamo passando alla nascita di nuove “regole” per la formazione delle parole: dilagano centinaia di ibridazioni come screenare; se usiamo work, di conseguenza paliamo anche di working e worker, spesso ormai declinato con la s del plurale workers; ricombiniamo le radici inglesi in espressioni come smart working o covid hospital e covid free, si afferma la regola del “no + inglese” in espressioni come no mask, e in pseudoanglicismi come no vax, no panic

In conclusione

Queste sono le premesse che ci hanno spinto a presentare la seguente proposta per la promozione della lingua italiana e un disegno di legge a sua tutela.
Il 2021 è l’anno delle celebrazioni dantesche e dell’istituzione del Ministero per la transizione ecologica: crediamo ci si debba finalmente occupare anche della tutela della lingua italiana in una prospettiva legata al tema dell’ecologia linguistica, oltre che ambientale. L’uscita del Regno Unito dall’Europa, infine, potrebbe essere l’occasione anche per rilanciare la nostra lingua come lingua di lavoro nella UE e promuoverla maggiormente all’estero.

Di fronte a un’anglicizzazione sempre meno sostenibile, chiediamo perciò che si intervenga a tutela dell’italiano con la costituzione di un organismo ufficiale dello Stato che operi almeno attraverso tre diverse prospettive: la promozione culturale, la legislazione e la valorizzazione all’estero che può rappresentare un’enorme risorsa economica.

Di seguito 11 punti concreti di intervento.

§ Misure di promozione della lingua italiana e contro l’abuso dell’inglese

1) Avviare una campagna mediatica contro l’abuso dell’inglese

Lo hanno già chiesto oltre 4.000 persone in una petizione rivolta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È una strategia praticata con successo in Francia e in Spagna. I costi sarebbero irrisori e i canali istituzionali per le campagne di sensibilizzazione sociale e le “pubblicità progresso”, dal bullismo alla discriminazione contro le donne, esistono già, basterebbe usarli anche per non discriminare la nostra lingua.

2) Dare il via a un’analoga campagna nelle scuole

Servirebbe a fare riflettere e aprire un dibattito sull’abuso dell’inglese anche tra le nuove generazioni.

3) Emanare linee guida e raccomandazioni per il linguaggio dell’amministrazione e quello istituzionale

Questo approccio è già stato inaugurato con un certo successo – e con la consulenza dell’Accademia della Crusca – per la femminilizzazione delle cariche lavorative. Si potrebbero emanare analoghe linee guida e raccomandazione anche per evitare l’abuso degli anglicismi, come è stato fatto per esempio in Svizzera (qui un esempio: https://www.bk.admin.ch/bk/it/home/documentazione/lingue/strumenti-per-la-redazione-e-traduzione/raccomandazioni.html).

§ Interventi legislativi

4) Evitare gli anglicismi nei contratti di lavoro

In Francia è vietato e alcune multinazionali sono state sanzionate pesantemente per le loro violazioni. Da noi, invece, accade per esempio che un’azienda come Italo abbia sostituito la figura del capotreno con il train manager non solo nella comunicazione ai passeggeri, ma persino nei contratti di lavoro, mentre nascono i sindacati dei rider o dei pet sitter.
Con un approccio alla francese,* magari più moderato, dovremmo fare in modo che le mansioni di lavoro si esprimano in italiano, per rispetto della nostra lingua, dei cittadini e della trasparenza loro dovuta. Per le nuove professioni espresse solo con nomi in inglese, ancora una volta il ruolo della Crusca potrebbe essere strategico nell’individuazione e nella coniazione di sostitutivi italiani.

* Gli articoli 6, 7 e 8 della legge Toubon, volti alla tutela dei lavoratori, precisano che i contratti di lavoro, le offerte d’impiego e i documenti interni all’impresa, imposti ai lavoratori o a loro necessari per lo svolgimento del lavoro, siano compilati in francese.

5) Valorizzazione dell’Accademia della Crusca

Al contrario delle accademie di Francia e Spagna, la Crusca non ha oggi un ruolo “normativo” e la sua storica missione lessicografica della costituzione di un vocabolario ufficiale le è stata sottratta ai tempi del fascismo. Senza arrivare a una sua ricostituzione o rifondazione, in modo più morbido, si potrebbe però rifinanziarla e investirla di un potere più forte e più ufficiale, rendendola un punto di riferimento per la politica linguistica come organo principale di consulenza, e coinvolgendola in un’opera di individuazione, ma anche di creazione, di sostituivi italiani agli anglicismi, potenziando il Gruppo Incipit e ufficializzandolo. Le accademie di Francia e Spagna coniano neologismi alternativi a quelli inglesi che vengono poi promossi da campagne mediatiche, e molti di essi, anche se non tutti, vengono poi recepiti dai parlanti e dai giornali con successo. Ciò costituisce un arricchimento della lingua locale, invece che una sua regressione.

6) Inserire nella Costituzione che la nostra lingua è l’italiano

Anche se la Corte Costituzionale si è espressa più volte sancendo che l’italiano è la lingua ufficiale, questo aspetto non è chiaramente espresso nella Costituzione e si potrebbe aggiungerlo come nella Costituzione francese, e come la Crusca ha proposto un paio di volte senza successo. Nell’articolo 12, dove si fa riferimento ai colori della nostra bandiera, si potrebbe aggiungere che l’italiano è la lingua ufficiale. Ciò non pregiudica né l’utilizzo delle lingue regionali né le minoranze linguistiche già esplicitamente tutelate in altri articoli.

7) Sancire che l’italiano non può essere estromesso come lingua della formazione

La lingua dell’università, della scuola e della formazione deve essere l’italiano, e l’insegnamento non può avvenire attraverso l’erogazione esclusiva di corsi in inglese, come di fatto sta accadendo in alcuni atenei (il caso del Politecnico di Milano è il più eclatante). Questo è un diritto degli studenti e degli italiani che non può essere cancellato, fatto salvo che le scuole straniere, pensate per accogliere studenti di cittadinanza straniera, o gli istituti che erogano insegnamenti a carattere internazionale, sono esclusi da questo obbligo.

8) Ripristinare l’italiano come lingua dei Prin

I Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (Prin) dovrebbero contemplare la possibilità di essere presentati in italiano, non solo in inglese (mentre l’italiano è ridotto a un’inutile opzione facoltativa); il diritto di rivolgersi alle istituzioni italiane o europee in italiano non può essere messo in discussione.

9) Cancellazione dell’obbligo di conoscere l’inglese, come unica seconda lingua, nella pubblica amministrazione

La riforma Madia (legge n. 124 del 7 agosto 2015, “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, articolo 17, lettera e) ha sostituito l’obbligo di conoscere una lingua straniera come requisito per i concorsi nella pubblica amministrazione con l’obbligo della sola lingua inglese. Si tratta di un principio che va contro il plurilinguismo inteso come valore e ricchezza culturale e porta all’affermazione della sola lingua inglese indipendentemente dall’ambito. L’obbligo di conoscere una seconda lingua, dunque, dovrebbe essere ripristinato, e solo a seconda dell’ambito si potrebbe specificare che coincide con l’inglese (laddove questa lingua è realmente un requisito), altrimenti si tratta di un provvedimento discriminatorio.

§Valorizzazione dell’italiano all’estero e sul piano internazionale

10) Adoperarsi perché l’italiano ritorni a essere lingua di lavoro in Europa

L’Italia dovrebbe difendere la nostra lingua anche nell’Unione Europea, e lavorare perché ritorni a essere lingua di lavoro, come lo era un tempo, e come oggi lo sono l’inglese, il francese e il tedesco. L’uscita del Regno Unito, oltretutto, rende di fatto l’inglese una lingua madre minoritaria rispetto a quelle comunitarie, parlata solo in Irlanda e a Malta, che hanno però indicato come lingua ufficiale il gaelico e il maltese; dunque è possibile spingere maggiormente verso un modello multilingue che non escluda l’italiano, nell’interesse del nostro Paese e di tutti i cittadini.

11) Trasformazione della lingua italiana in un bene da esportare

Il governo dovrebbe lavorare per promuovere maggiormente l’italiano all’estero, visto che gode di una nomea molto apprezzata. Basti pensare ai prodotti alimentari dal nome italofono – un fenomeno che non esiste per i prodotti francesi o spagnoli – che rappresentano una fetta di mercato enorme.
Questo progetto può attuarsi attraverso la creazione di posti di lavoro per l’insegnamento, ma anche attraverso la valorizzazione della cultura e della lingua italiana in tutto il mondo, che può trasformarsi in una grande risorsa economica. In questo processo, anche le denominazioni delle nostre manifestazioni, eventi e e iniziative dovrebbero essere in italiano, invece di puntare a progetti di cui ITsART, da poco presentato ufficialmente per promuovere la cultura italiana in tutte le sue forme (tranne la lingua), rappresenta l’ennesimo caso di rinuncia all’esportazione del nostro patrimonio linguistico.

ITsART: la cultura italiana si esprime in inglese? (lettera aperta a Franceschini)

Onorevole Ministro Dario Franceschini,

ci rivolgiamo a Lei e ai responsabili del progetto ITsART, finanziato dal Suo ministero, per esprimere tutto il nostro sconforto di fronte allo svilimento della nostra lingua.

Leggiamo sul sito ITsART.tv che questa nuova piattaforma si propone di “celebrare e raccontare il patrimonio culturale italiano in tutte le sue forme e offrirlo al pubblico di tutto il mondo”. Una così lodevole iniziativa possiede però un nome in inglese, e questo fatto è l’ennesima testimonianza di come il nostro patrimonio linguistico non venga considerato parte di quello culturale. Siamo infastiditi davanti all’abuso di anglicismi e pseudoanglicismi che caratterizza oggi il linguaggio della politica, dell’imprenditoria, dei mezzi di informazione, della cultura e ormai della stessa lingua italiana.

Nell’anno in cui ricorrono i 700 anni dalla morte di Dante, e in cui nascerà un Museo della lingua italiana nella città di Firenze, la nostra impressione è che la si voglia commemorare invece che praticare e farla evolvere. Per secoli è stata lingua di cultura, di scienza, di arte, di tecnologia, e uno dei motivi unificanti della nostra nazione, come proprio Dante avrebbe voluto. Attraverso l’arte, un tempo abbiamo esportato le nostre parole in tutto il mondo, e alcune sono diventate internazionalismi in settori come la pittura, la scultura, la musica, la gastronomia… Ma tutto ciò sembra appartenere al passato, e se oggi pensiamo di esprimere le nostre eccellenze in inglese siamo davvero un popolo in declino.

Ci piacerebbe che il Suo ministero aiutasse l’italiano a restare una lingua viva e creativa, utilizzata in tutti i settori e adatta a esprimere il mondo di oggi e di domani, più che farla finire in un museo. Ci piacerebbe che l’Italia cominciasse ad avere una politica linguistica, come accade in Francia, in Spagna, in Svizzera, in Islanda e in tante altre nazioni, ma vediamo che la nostra classe politica si esprime con act e tax, invece di leggi e tasse. E a parte questo linguaggio insopportabile per molti italiani, paradossalmente sembra proteggere l’inglese più che l’italiano, visto che la riforma Madia ha sostituito il requisito di conoscere una “lingua straniera” nei concorsi pubblici con la “lingua inglese”, o che il Miur ha deciso che i progetti di rilevanza nazionale (Prin) devono essere presentati in inglese. Ci piacerebbe che i nostri politici tutelassero l’italiano come la lingua sia degli italiani sia dell’alta formazione universitaria e professionale, che dopo l’uscita del Regno Unito dall’Europa si attivassero per farlo ritornare lingua del lavoro alla Ue, e che permettessero al nostro lessico di tornare ad arricchirsi con parole proprie e con neologismi che non siano solo l’importazione acritica di radici inglesi.

Consideriamo ItsART un vero ossimoro che ci evoca l’albertosordità di Nando Mericoni in Un Americano a Roma, anche se ha perso la sua componente ironica per diventare qualcosa di ridicolo, nella sua tragicità. Voler essere internazionali puntando all’inglese è un approccio deleterio per il nostro idioma, rinnega la nostra grande storia e soprattutto non tiene conto dell’enorme potere evocativo dell’italiano, così amato e apprezzato all’estero, ma così svilito in patria. Crediamo che le nostre istituzioni non debbano vergognarsi di parlare e diffondere la nostra lingua, e dovrebbero invece promuoverla e tutelarla come fanno con le altre nostre eccellenze.

Le domandiamo perciò di riconsiderare la scelta del nome della nuova piattaforma della cultura italiana, e in generale Le chiediamo una riflessione sull’opportunità di una politica linguistica che possa restituire vitalità alla nostra lingua e farne uno strumento di promozione della nostra cultura nel mondo.

La ringraziamo per l’attenzione e Le porgiamo i nostri più cordiali saluti.

Giorgio Cantoni e Antonio Zoppetti

Quella che avete letto è una lettera aperta al Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini che ha voluto l’iniziativa denominata ITsART. Invitiamo chiunque condivida la nostra posizione a unirsi a noi. Lo può fare comodamente dal modulo pronto per l’invio che è stato predisposto sul sito Attivisti dell’italiano a questo indirizzo: https://attivisti.italofonia.info/proteste/itsart/

Così facendo, non solo si potrà aderire con la propria firma e inoltrare il proprio dissenso, ma anche tenere d’occhio il contatore con il numero dei sottoscrittori. ITsART riceverà il messaggio dall’indirizzo di posta di chi compila il modulo, ma il nome e l’indirizzo di chi aderisce non saranno pubblici, verrà mostrato soltanto il numero dei partecipanti senza i loro dati sensibili, nel rispetto della privatezza di ognuno.

Più saremo, più avremo la forza di farci ascoltare.

Anche se non riusciremo a cambiare il nome anglicizzato di questo progetto, lanceremo comunque un segnale forte e chiaro: siamo stanchi di questo continuo svilimento della nostra lingua in nome di un’anglomania che non è solo insensata, ma anche deleteria.

Grazie a chiunque vorrà aiutarci.

Il Gruppo Incipit, l’onboarding, le pagliuzze e le travi

Il 4 dicembre è uscito l’ultimo comunicato del Gruppo Incipit, il comitato dell’Accademia della Crusca sorto nel 2015 per monitorare e arginare nella fase incipiente gli anglicismi che penetrano nella nostra lingua, prima che si radichino e diventino insostituibili.

Si tratta del 15° dalla sua costituzione e il terzo del 2020, e questi interventi appaiono un po’ a sprazzi, escono con una media quadrimestrale e sinora hanno riguardato una trentina di anglicismi, mentre, nello stesso periodo, le nuove parole inglesi annoverate nei dizionari sono nell’ordine delle 500 e anche più. Il valore di Incipit è dunque molto simbolico, più che pratico. E comunque è sempre meglio di niente.

L’argomento è “L’applicazione IO della Pubblica Amministrazione”. L’articolo si scaglia giustamente contro il linguaggio tecnico e allo stesso tempo anglicizzato che risulta incomprensibile ai più. La tirata di orecchie è per l’aggiornamento dell’applicazione comparso su Google Play che recita:

– ora è possibile richiedere assistenza in merito all’onboarding di una carta di credito
– digitando il PAN della carta di credito, in fase di inserimento, viene riconosciuto il brand e mostrata l’icona relativa
renaming della sezione “pagamenti” in “portafoglio”
– aggiornato il fac-simile dell’avviso di pagamento
– migliorata la rappresentazione dei messaggi con pagamento e scadenza
– rimosso il campo “importo” dal form per l’inserimento manuale di un pagamento

A parte qualche considerazione sull’abuso degli acronimi in generale, il bersaglio della critica è che “un’applicazione che nasce in ambito governativo (…) non può affidare al gergo degli informatici la scelta del linguaggio con cui parlare al pubblico”. E la conclusione è un suggerimento per riscrivere le stesse cose in italiano e in modo più trasparente, per esempio:

– adesso si può chiedere assistenza per caricare una carta di credito
– quando si digita il numero della carta di credito, appare il marchio del circuito di pagamento
– il nome della sezione “pagamenti” è stato cambiato in “portafoglio”
– è stato aggiornato il fac-simile dell’avviso di pagamento
– sono stati migliorati i messaggi di pagamento e scadenza
– è stato tolto il campo “importo” dal
modulo che serve a inserire manualmente un pagamento

Tutto ciò è lodevole e sacrosanto. Eppure questo tipo di linguaggio anglo-tecnico è onnipresente. È quello che contraddistingue ogni interfaccia e ogni applicazione, e di esempi del genere se ne potrebbero trovare così tanti che non è possibile quantificarli. Il problema, insomma, non è questo aggiornamento in particolare, ma il fatto che ogni comunicazione di questo tipo ostenta questo genere di linguaggio, che è ormai quello in uso e più comune. Colpirne uno per educarne cento? Certo. Ma mi pare che quello che non emerge dal comunicato è che questo aggiornamento non è una bizzarria: usa l’itanglese, l’italiano 2.0 che è ormai la lingua in uso nell’informatica e non solo. Forse prendere atto che non abbiamo a che fare con un aggiornamento particolare, ma con una pratica ormai universale e normale aiuterebbe a renderci un po’ più consapevoli dello stato della nostra lingua in generale.


C’è poi un’altra cosa che mi colpisce di questo comunicato. Ed è quella che avevo denunciato il 30 novembre in un pezzo molto duro e provocatorio intitolato: “Quando i rimborsi diventano cashback: l’attacco dello Stato al cuore dell’italiano”.

Il 3 dicembre, il giorno prima dell’uscita del 15° comunicato Incipit, il nostro presidente del Consiglio Giuseppe Conte si è presentato in televisione per annunciare l’ultimo decreto sulle misure antipandemiche in cui ha detto testualmente:

“Sempre in collegamento con lo shopping (cosiddetto) natalizio per sostenere le attività commerciali (…) abbiamo deciso di far partire da subito il piano Italia cashless! Cosa significa? Che dall’8 dicembre prenderà il via l’extra cashback di Natale…”

Tralasciando shopping, online, lockdown e altri anglicismi ormai comuni che si ritrovano nel discorso, sono costretto a ripetermi: il nostro governo ha introdotto il cashless e il cashback in modo ufficiale (come da Gazzetta Ufficiale, che include anche altri anglicismi tecnici incomprensibili come acquirer o issuer convenzionati). Queste parole hanno un impatto sulla nostra lingua di un ordine di grandezza superiore rispetto a quelle dell’aggiornamento dell’App IO. Sono calate dall’alto, dal linguaggio istituzionale, attraverso una delle sue massime cariche, e battezzano in inglese vecchi concetti come i pagamenti senza contanti o rimborsi facendoli apparire nuovi e facendo in modo che tutti li ripetano senza alternative. In questo modo gli ennesimi inutili anglicismi prendono piede nel nostro lessico, scalzano le nostre parole agendo da “prestiti” sterminatori; con il tempo renderanno i nostri vocaboli poco moderni, e poi obsoleti. In un primo tempo saranno classificati come “prestiti di lusso”, poi la schiera dei “non-è-propristi” comincerà a sollevare le solite stupidaggini: cashback? Non è proprio come rimborsocashless? Non è proprio come senza contanti… E con argomentazioni degne del Visconte la Nuance (De Amicis, L’idioma gentile, 1905) secondo il quale ogni francesismo aveva in sé una sfumatura di significato, una nuance appunto, che l’italiano non possedeva, anche questi anglicismi diventeranno “prestiti di necessità” nelle riflessioni di certi linguisti e sociolinguisti dalla mente colonizzata.

Dal Gruppo Incipit mi piacerebbero prese di posizione su queste cose – che invece non ci sono – prima che sul linguaggio di un’applicazione come mille altre (comprese quelle istituzionali). Altrimenti si rischia di vedere le pagliuzze senza accorgersi delle travi portanti delle nostra lingua.

Gli anglicismi che penetrano nel linguaggio delle istituzioni e delle leggi

La penetrazione degli anglicismi nella nostra lingua è arrivata a intaccare il cuore dello Stato. Non c’è solo il nuovo linguaggio della politica dove il garante per la protezione dei dati personali è sempre più della privacy, il ministero del lavoro e delle politiche sociali è chiamato del welfare, la riforma del lavoro è il jobs act, si parla sempre più di tax, di premier al posto di presidente del consiglio come indicato nella Costituzione e via dicendo (al tema ho dedicato un capitolo del mio libro, ma lo riprenderò anche qui). L’infiltrazione degli anglicismi nelle istituzioni coinvolge anche il linguaggio delle nostre leggi.

I termini giuridici inglesi non sono un fenomeno solo italiano, spesso sono una conseguenza dell’espansione delle multinazionali americane in tutto il mondo che esportano e impongono il proprio apparato lessicale estraneo alle legislazioni nazionali coinvolte. Uno dei più importanti giuristi italiani, Francesco Galgano, ha mostrato che la questione riguarda il delicato equilibrio del diritto internazionale, perché le aziende, per lo più americane, si preoccupano di

“realizzare l’unità del diritto entro l’unità dei mercati. L’uniformità internazionale di questi modelli è, per le imprese che li praticano, un valore sommo. Basti questa testimonianza: le case madri delle multinazionali trasmettono alle società figlie operanti nei sei continenti le condizioni generali predisposte per i contratti da concludere, accompagnate da una tassativa raccomandazione, che i testi contrattuali ricevano una pura e semplice trasposizione linguistica, senza alcun adattamento, neppure concettuale, ai diritti nazionali dei singoli Stati; ciò che potrebbe compromettere la loro uniformità internazionale”.

[Francesco Galgano, “Le fonti del diritto nella società post-industriale”, in Sociologia del Diritto, Rivista quadrimestrale fondata da Renato Treves, 1990, p. 153]

In questo modo, parole come leasing, franchising o performance bond si propagano intoccabili in tutto il mondo.
Alessandro Gilioli, nel ricostruire l’affermarsi della parola leasing, ha osservato che

“si tratta di un contratto atipico largamente presente, sulla base dei modelli americani, in Italia, che al momento della sua introduzione, a metà degli anni Sessanta, veniva utilizzato riportando la dicitura straniera o tradotto correntemente con l’espressione ‘locazione finanziaria’, ma anche con altre locuzioni”.

[Alessandro Gilioli, “Anglicismi nel linguaggio giuridico italiano: il caso leasing”, dalla rivista online Italogramma, vol. 7, 2014, p. 3]

Oggi è utilizzato nella giurisprudenza e nel linguaggio comune senza più spiegazioni né virgolette. Tra gli altri anglicismi che non appartengono al nostro ordinamento, ma sono largamente usati in ambito giuridico, ci sono anche

franchising, factoring, joint venture, marketing, licensing, trust, performance bond, know-how, incoterms, merchandising, common law, civil law, buyer, competitor, consumer, delivery, welfare state, authority, devolution, spending review.”

[Ivi, p.1]

Ma ne esistono altri ancora, come antitrust, o dumping, e accanto a questi “internazionalismi forzati” ce ne sono poi molti che arrivano per altre vie, soprattutto dai mezzi di informazione che li propagano senza traduzioni e alternative fino a che non entrano nel linguaggio comune e, da qui, a quello della giurisprudenza. Tra questi segnalo grooming, stalking e mobbing.

Grooming
Possiede anche un’accezione diversa che riguarda l’etologia (indica lo “spidocchiamento” reciproco delle scimmie), ma di recente ha finito per indicare l’adescamento di minori attraverso la Rete, dove è facile camuffarsi dietro l’anonimato e mettere in pratica manipolazioni psicologiche che puntano ad approcci (e abusi) sessuali.

Stalking
A proposito di grooming e di stalking si sono espressi anche esponenti dell’accademia della Crusca, che hanno sottolineato i corrispettivi adescamento e persecuzione, riconoscendo che l’introduzione di queste parole è sicuramente dovuta anche alla

“funzione di indirizzo legislativo svolta dall’Unione Europea”, dato che il termine circola nella convezione di Lanzarote già dal 2007, a proposito della protezione dei minori.

[Matilde Paoli, “Grooming? Chiamiamolo adescamento (di minori in rete)!”, Redazione Consulenza Linguistica Accademia della Crusca, 27 giugno 2014]

Ma fino a che punto è reale la “favola” degli internazionalismi? È vero che certi termini penetrano nei linguaggi nazionali dall’inglese, lingua franca della Comunità Europea, ma non è vero che siano usati da tutti con la stessa frequenza e senza alternative come da noi.

Ho provato a fare qualche ricerca in proposito, e stalking si ritrova in Germania, ma non per esempio in Spagna (la Wikipedia spagnola rimanda alla voce acoso físico) e in Francia (non presente su Wikipedia). In queste due lingue le occorrenze della parola sono praticamente nulle nei grafici di Ngram, al contrario dell’italiano dove dal 2000 sono molto alte. E non perché lo stalking non sia un problema anche all’estero, ma perché per definirlo si usa la lingua nazionale, non si ricorre all’inglese, che non è affatto sempre la lingua sovranazionale.

stalking
Fonte: Ngram. Periodo di riferimento: 1995-2008. La frequenza della parola stalking nei corpus italiano, francese e spagnolo. Come si può notare, da noi il termine diventa popolare dopo il 2003, mentre in Francia e Spagna non è quasi rintracciabile.

 

 

Attraverso gli archivi storici de La Stampa (che li ha messi a disposizione in modo gratuito dal 1867 ed è uno degli strumenti più preziosi per fare questo tipo di ricerche) ho provato a risalire alla prima comparsa del termine. La prima volta è stata nel 1995 in un articolo dall’estero, in un’espressione inglese virgolettata: “‘Stalking horses’, un nome che la politica ha preso dall’arte venatoria e che descrive il cavallo dietro il quale si nasconde il cacciatore” (Mario Ciriello, “Un giuda per Major”, La Stampa, 27 giugno 1995, p. 10), e ricorre anche nei palinsesti televisivi di Videomusic che trasmetteva Due poliziotti a Palm Beach (Silk Stalkings). Ma dopo queste prime apparizioni occasionali, nel 2002 entra definitivamente nella cronaca:

“Negli Stati Uniti si chiama ‘Stalking’, ovvero, in termini strettamente giuridici ‘sindrome del molestatore assillante’. Letteralmente significa ‘fare la posta’ e viene utilizzato per indicare un comportamento ossessivo, fatto di pedinamenti, continui tentativi di contatto, telefonate ossessive. È tipico degli amanti respinti, dei fidanzati lasciati. E oltreoceano è considerato un reato vero e proprio”.

[Silvano Rubino, “Quando l’ex non si rassegna”, La Stampa, venerdì 5 luglio 2002, p. 5]

Dai giornali alla lingua comune il passo è breve, e così la parola finisce poi nei dizionari e, visto che si tratta di un reato, non può che coinvolgere la lingua di magistrati, avvocati e istituzioni. Un decreto legge del 2009 amplia così il concetto dei più vecchi reati di “atti persecutori” e inasprisce le pene per questo genere di episodi. Anche se nella legge non è contenuta la parola stalking, nelle sentenze e nella giurisprudenza si diffonde.

Mobbing
Anche il termine mobbing in Francia non ha preso piede, mentre in Spagna è entrato solo dopo il 2000, ma cercandolo sulla Wikipedia non esiste: si viene rimbalzati alla voce acoso laboral (o acoso moral en el trabajo).

mobbing
Fonte: Ngram. Periodo di riferimento: 1995-2008. La frequenza della parola mobbing nei corpus italiano, spagnolo e francese. Il termine diventa popolare da noi alla fine degli anni Novanta, mentre in Francia non si usa, e in Spagna si è diffuso più moderatamente solo dal Duemila.

A dire il vero mobbing non è un vero e proprio internazionalismo, nei Paesi anglosassoni non è molto in voga e si usano preferibilmente altre espressioni come victimization, persecution, harasament, workplace bullying (bullismo sul lavoro), oppure si parla meno tecnicamente di abuse e intimidation. Mobbing, infatti, è stato coniato negli anni Settanta dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere l’atteggiamento aggressivo con cui alcuni animali escludono un membro dal gruppo. Ed è questa l’accezione principale. Da noi, al contrario, fa la sua comparsa negli anni Novanta, e su La Stampa il primo articolo dedicato al fenomeno è del 1993:

“In Italia dilaga da tempo. (…) Il nuovo fenomeno si chiama ‘mobbing’. Nel mirino anche le donne”.

[La Stampa, 5 giugno 1993, Pier Paolo Luciano, p. 37]

Sei anni dopo, nel 1999, il Tribunale di Torino riconosce per la prima volta le ragioni di una donna vittima dell’aggressione alla propria sfera psichica di lavoratrice, facendo riferimento proprio al fenomeno noto come mobbing:

Tribunale di Torino sent. del 16.11.1999, Giudice Ciocchetti- Erriquez C. Ergom. “Dipendente molestato dal diretto superiore con frasi offensive ed incivili – Postazione di lavoro angusta – Negazione di contatti con i colleghi – Configurabilità di tali comportamenti come mobbing – Danno psichico temporaneo – Risarcibilità ai sensi dell’art. 2087 c.c. e art. 32 Cost.”.

Da quella data in poi si troverà sempre più nei disegni di legge, nelle sentenze e negli atti della Gazzetta Ufficiale, oltre che nel parlare della gente.