Nomophobia e italianofobia

Di Antonio Zoppetti

Ultimamente mi è capitato di imbattermi più volte nella parola “nomofobia”, che non è la paura per i nomi (magari quelli inglesi), bensì l’acronimo di “no mobile phone phobia”, la sindrome da disconnessione dalla Rete, la paura di rimanere sconnessi, la “non-prende-fobia” si potrebbe dire spiritosamente.

Non è un concetto nuovissimo, è un termine coniato nel 2008 nel Regno Unito in seguito a una ricerca commissionata dal governo per indagare sui disturbi connessi all’utilizzo dei cellulari. Inizialmente era legato anche al timore di perdere il telefonino, di scaricare la batteria sul più bello o di rimanere senza credito, ma oggi prevale l’accezione dell’ansia da sconnessione in generale.

Quello che mi colpisce non è tanto il fatto che in italiano “nomo” è di solito un suffisso – più che un prefisso – che deriva dal greco e ha a che fare con il governare, il gestire e l’amministrare (economo, agronomo) o con le leggi, come nell’eteronomia di Kant (il contrario di autonomia) vocabolo che utilizzava per indicare le norme etiche o morali che arrivano dalle leggi e dall’esterno, invece che dalla propria coscienza.

Comunque, anche se nomo acquista un altro significato un po’ fuorviante e poco trasparente, fuori dall’inglese, pazienza, non è poi così grave.

Trovo invece assurdo e insopportabile ricorrere all’espressione inglese al posto dell’adattamento, e parlare di nomophobia anziché di nomofobia, come dovrebbe essere naturale.
Purtroppo, le menti servili e colonizzate dei giornalisti preferiscono spesso i grafemi e i fonemi inglesi, dal Corriere a Io donna (con le sue rubriche beauty e royal), passando per WOMLifestyle (che inquadra il pezzo nella categoria “Selfcare”, ma del resto il nome della rivista dice tutto) e finendo con la Guida psicologi dove si raggiunge l’apoteosi dell’itanglese.

L’ultimo titolone dell’immagine sopra è composto da 10 parole, di cui 4 anglicismi (online, offline, nomophobia e smartpone). La parola italiana è una sola (dipendenza) e il resto si riduce a due articoli (la), una preposizione (da), due congiunzioni (o ed e) di cui la prima è scritta in modo errato: la d eufonica su “od” è decaduta nell’italiano moderno e non si usa nemmeno davanti alla vocale “o”. Un titolo che la dice lunga sullo stato dell’italiano (sempre meno conosciuto) e sulla sua regressione davanti all’inglese.

Se l’eteronomia designa la “dipendenza da leggi esterne o straniere” anche la nomophobia rivela lo stesso fenomeno, ma le leggi esterne e straniere si devono reinterpretare come dipendenza dal solo inglese che invece di essere percepito come esterno viene interiorizzato come fosse il nostro naturale nuovo idioma. È l’anglomania tipica italiana.

Anglomania e italianofobia

Il rovescio della medaglia dell’anglomania è l’italianofobia, dove fobia non significa solo timore e paura, ma più precisamente disprezzo e avversione, come in xenofobia o omofobia. Questi due ultimi sentimenti sono però stigmatizzati e si possono persino configurare come un reato, mentre il vilipendio alla nostra lingua non solo non è contemplato, ma se qualcuno prova a dire qualcosa in merito viene subito estromesso dal branco. Giornalisti, intellettuali e persino molti linguisti sono pronti a dargli di volta in volta del purista, del retrogrado contrario agli internazionalismi (parola che dietro l’ipocrisia indica gli anglicismi, anche se l’inglese non è affatto la lingua del mondo), del sovranista fanatico dell’autarchia linguistica (un nuovo modo per dare del fascista), o dell’oscurantista che non accetta che le lingue si evolvono (certo, peccato che l’italiano si sta invece involvendo come nel titolo della Guida psicologi).

E così la nostra lingua viene sempre più abbandonata in favore dei fonemi e grafemi inglesi, fino a che qualcuno non penserà di chiamarli graphemi e phonemi che gli suoneranno forse più familiari, come quando si parla di photo gallery come fosse normale, invece di galleria fotografica. È l’italianofobia che induce a dire vision, mission, tutor e competitor invece di visione, missione, tutore o competitore, e gli anglopuristi si irritano quando si notare loro l’equivalenza lessicale, perché, si sa, l’inglese è portatore di ben altre sfumature di significato ed è in grado di evocare e di connotare ciò che l’italiano svilirebbe. È così che l’alberto-sordità della nostra classe dirigente porta a parlare di economy invece che di economia, di food invece di alimentazione e via dicendo.

Per parafrasare Freud, l’inglese è il nuovo totem, e l’italiano è sempre più tabù. Ai miei studenti di “storytelling” (la scrittura persuasiva, la retorica, l’arte della narrazione non sono espressioni utilizzabili, suonerebbero meno tecniche) ho dovuto spiegare che tabù si scrive con la “ù” accentata (come appunto in Totem e tabù, un libro mai sentito) e non taboo che veniva loro istintivo sul modello di tatoo (a quando i tatooaggi?).

L’anglofobia non è contemplata

Visto che sono di moda le nuove malattie figlie dell’anglomondo globalizzato viene da chiedersi perché non si contempli anche l’anglofobia, che non è la semplice avversione per gli anglicismi, è proprio un senso di fastidio che genera ansia davanti allo tsunami anglicus che sta snaturando le lingue di tutto il mondo, quando va bene, per farle regredire allo status di dialetti di un mondo che parla inglese, quando va male, o farle estinguere e morire quando va ancora peggio.

Non è un patema immotivato.

Il tunisino Claude Hagège ha osservato che il “monolinguismo a vantaggio dell’inglese è vissuto come garanzia (…) della modernità e del progresso, mentre il plurilinguismo è associato al sottosviluppo e all’arretratezza economica, sociale e politica, oppure è considerato una fase, negativa e breve, sulla via che deve condurre al solo inglese” [Claude Hagege, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 100]. E quando preferiamo gli anglicismi non facciamo altro che aderire – più o meno inconsapevolmente – a questa mentalità. Non ci rendiamo conto che l’anglicizzazione dell’italiano non è un’evoluzione ma un’involuzione e che l’inglese globale è una minaccia per le lingue locali. Hagège ha denunciato “un olocausto che fluisce senza sosta, apparentemente nell’indifferenza generale” determinato soprattutto dall’inglese, che “svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle lingue” (ivi, p. 7). Ha calcolato che nel mondo “ogni anno muoiono venticinque lingue: un fenomeno di dimensioni spaventose” (ivi, p. 99). Se oggi quelle vive sono circa 5.000, fra un secolo saranno la metà, se non cambia qualcosa. Una preoccupazione espressa anche in molti altri studi e persino dall’Onu.

Lo scrittore africano Ngũgĩ wa Thiong’o ha vissuto sulla sua pelle la regressione delle lingue della sua terra schiacciate dalle lingue imposte dalle scuole coloniali, e ha scritto un libro in cui ha raccontato molto bene questi processi [Decolonizzare la mente, Jaca Book, 2015]. Perciò, in una recente intervista, ha invitato tutti a ribellarsi alla dittatura dell’inglese, la lingua che “fiorisce sul cimitero degli altri idiomi” [“Scrittori, ribelliamoci all’inglese”, di Pietro Veronese (intervista a Ngũgĩ wa Thiong’o), la Repubblica, 2 agosto 2019].

Invece noi continuano a farci del male da soli, a scrivere nomophobia e ad anglicizzarci a più non posso. L’anglofobia non è contemplata perché l’inglese globale non è riconosciuto come un morbo, ma è spacciato per una medicina. È la ricostruzione della torre di Babele che finalmente permetterà a tutti di comunicare senza problemi nella lingua superiore, la lingua naturale dei padroni che la impongono a tutti gli altri. Costoro si possono permettere il lusso di non impararne altre, perché puntano a far diventare la loro lingua madre quella internazionale e hanno tutti gli interessi a proclamarla lingua franca. Quanto al plurilinguismo e alla regressione delle altre lingue… amen! Del resto è risaputo che ogni medicina ha i suoi piccoli effetti collaterali.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

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