La partita per estromettere l’italiano dall’università e la protesta che parte da Rimini

Tra pochi giorni sarà formalizzata la decisione dell’università di Bologna che ha deciso di sopprimere il corso di Economia del Turismo in italiano che si svolge a Rimini. Dal prossimo anno diventerà “Economics of Tourism and Cities” e si terrà solo in lingua inglese.

Qual è la novità? Il corso in inglese era già stato introdotto e già esisteva: la novità è che viene abolito quello in italiano per insegnare solo in inglese.

Questa decisione ha suscitato le proteste sia dei cittadini, che vogliono studiare nella propria lingua madre visto che è un loro diritto e che pagano le tasse, sia dalle associazioni degli albergatori che spiegano come quell’indirizzo di studi avesse da sempre un fortissimo legame con il territorio. In pratica gli studenti che uscivano da quel corso trovavano subito lavoro nelle realtà alberghiere locali. E l’offerta formativa di quella facoltà richiamava a Rimini moltissimi studenti giovani provenienti da ogni regione d’Italia. La sua cancellazione per passare all’inglese punta soprattutto agli studenti stranieri, che però una volta formati non lavoreranno a Rimini ma torneranno nei propri Paesi, anche perché se non parlano in italiano cosa li può trattenere?

Visto che nessuno o quasi dà voce al malcontento, l’associazione/portale Italofonia ha mobilitato tutti gli Attivisti dell’italiano predisponendo un modulo per inviare una protesta digitale indirizzata all’Università e in copia al Ministero dell’Università e Ricerca, all’accademia della Crusca, e ai giornali locali.

In pochi giorni sono partite centinaia e centinaia di proteste, tanto che il Resto del Carlino ha titolato: “Pioggia di mail all’Università: Salvate il corso in italiano”.

Intanto, la pioggia si fa sempre più fitta, e l’ateneo – spiazzato – ha dovuto rispondere attraverso una dichiarazione che lo stesso giornale ha riassunto in nuovo pezzo: “Corso di laurea in inglese: Una scelta condivisa“.

La risposta non ascolta né tiene conto dei pareri contrari e dei cittadini, annuncia di continuare nella strada intrapresa, e rivolta la frittata sostenendo che si tratterebbe di una “scelta condivisa” (da chi? dai vertici della scuola-azienda che non racconta di come l’associazione Promozione Alberghiera si sia invece espressa in senso contrario, secondo le testimonianze raccolte) appellandosi alle solite tiritere:

Le scelte che riguardano i progetti didattici sono il risultato di un percorso ben definito, lungo e con diversi passaggi. Un corso di laurea ha una gestazione pluriennale. Si tratta di scelte meditate, non certo di decisioni prese dall’oggi al domani. L’inglese è una lingua che apre al mondo. Per il territorio è un’opportunità (…) Dopo un’attenta e ponderata valutazione, abbiamo optato per l’inglese come lingua ufficiale del corso, scelta in linea con l’elevato livello di internazionalizzazione che caratterizza tradizionalmente il campus di Rimini.”

Queste scelte “meditate” seguono gli interessi dell’ateneo, che non coincidono con quello dei cittadini e degli italiani. Attraverso la manipolazione delle parole, la cancellazione dell’italiano e le difficoltà degli studenti si trasformano in un’imprecisata “opportunità per il territorio”. Il concetto di “internalizzazione” cela invece l’insegnamento in inglese e solo in inglese – non nelle lingue straniere e all’insegna del plurilinguismo – e forse si potrebbe meglio parlare di colonizzazione linguistica e di dittatura dell’inglese, visto che questa strana “internalizzazione” a senso unico implica l’anglificazione della formazione dei Paesi non anglofoni. Come se tutti i turisti tedeschi, spagnoli, francesi e gli altri che giungono in Italia si esprimessero normalmente in inglese (altra bufala che non risponde alla realtà).

Dietro questa visione c’è in gioco il diritto di studio nella nostra lingua madre, una partita vitale per l’italiano.

Italofonia ha intervistato un’albergatrice nonché mamma di uno studente che ha spiegato disperata:

Mio figlio e gli altri ragazzini della sua classe non possono più scegliere. Vede, noi siamo a Rimini, qui c’è il cuore del turismo, noi viviamo di turismo, e questa facoltà era molto ambita dai ragazzi di zona.  Ed era già in due lingue, ma separate: un percorso di Economia del Turismo, in italiano, pensato per le esigenze del territorio, e Turismo Internazionale, in inglese. Ora questa scelta è stata tolta. E questo li metterà in difficoltà.

Passando dal punto di vista dei cittadini a quello di un esperto come Michele Gazzola [1], economista dell’Università dell’Ulster che ci ha risposto appoggiando il nostro appello, le motivazioni di queste scelte che portano all’anglificazione della formazione universitaria nascono da un preciso interesse economico.

La parola chiave per comprendere ciò che è in atto da tempo e che nei prossimi vent’anni potrebbe esplodere in modo ancora più profondo è “razionalizzazione”, ci ha scritto Gazzola, che ha così sintetizzato la questione:

Le università hanno prima aperto corsi paralleli in italiano e in inglese, e adesso stanno chiudendo quelli in italiano perché costa troppo averne due uguali, e perché tanto sanno che con un corso in inglese possono coprire sia il mercato nazionale (sempre più piccolo a causa della denatalità) sia quello internazionale. Tanto lo studente italofono non ha scampo, può studiare in italiano solo in Italia (e in pochissimi altri posti all’estero), quindi se lo si priva del corso in italiano non andrà via.

L’ateneo di Bologna, insomma, pensa solo ai propri interessi e a reclutare gli studenti stranieri per fare numero e batter cassa – è il bel modello delle nuove scuole-aziende che hanno come “mission” il profitto — ed è poco interessato al diritto allo studio in italiano. Dietro le motivazioni ufficiali c’è proprio il fatto che il numero degli iscritti non è poi così interessante per l’Università che si vuole allargare a scapito della qualità della didattica e delle esigenze reali degli studenti del nostro Paese.

Il progetto di cancellazione dell’italiano dalla scuola alta

Tutto è iniziato al Politecnico di Torino che nell’anno accademico 2007-2008 ha avviato i primi corsi in inglese rendendoli gratuiti, al contrario di quelli in italiano, per fare in modo che partissero con un buon numero di iscritti. Ma così facendo discriminava il pubblico pagante che voleva studiare in italiano.

Il secondo episodio, ancora più grave perché ha costituito il precedente che ha fatto saltare il sistema, è avvenuto nel 2012, quando il Politecnico di Milano ha deciso di estromettere l’italiano dalla formazione di ingegneri e architetti che avrebbero potuto studiare solo in inglese. Maria Agostina Cabiddu [2], docente di Istituzioni di diritto pubblico, ha raccolto le proteste di un agguerrito gruppo di insegnanti che, dopo un appello al presidente della Repubblica Mattarella, si sono rivolti al Tar della Lombardia che ha dato loro ragione.

Ma l’ateneo e il Miur – cioè il Ministero dell’istruzione italiano che pare lavorare in favore dell’inglese – non hanno accettato il verdetto e si sono opposti. Dopo lunghi e complicati corsi e ricorsi in cui è intervenuta anche la Corte Costituzionale, è finita con una sentenza (a mio avviso “cerchiobottista”) che da una parte sanciva la “primazia” della lingua italiana nell’università, ma ammetteva i corsi in inglese con una logica di buon senso e proporzionalità che però non era definita, ma lasciata alla discrezione delle parti. E nell’atto finale della vicenda è andata a finire che il Politecnico se ne è infischiato della “primazia” sancita solo sulla carta, e ha continuato a erogare corsi quasi esclusivamente in inglese con una concezione della proporzionalità diciamo così “discutibile”. In sostanza lo spirito della legge viene aggirato con il semplice inserimento di qualche sporadico corso in italiano, magari delle materie più marginali.

Tutto ciò non era affatto destinato a rappresentare un caso isolato, fa parte di un preciso progetto – imposto dall’alto in modo surrettizio e senza interpellare gli italiani – che negli anni successivi si è diffuso in modo sempre più preoccupante. Gli altri atenei-aziende aspettavano solo la via spianata per seguire la stessa strategia per loro più remunerativa. E infatti, Maria Agostina Cabiddu, un’altra importantissima voce che ha raccolto il nostro appello, ha commentato:

Ci eravamo mossi a suo tempo proprio perché avevamo capito che si trattava di un progetto pilota.

Quello che è avvenuto negli anni successivi e quello che sta avvenendo in questi giorni è l’allargamento di questo modello, che dopo tanti altri casi è da poco stato perseguito anche dalla Bocconi di Milano, ma soprattutto rischia di estendersi anche alle scuole secondarie, come ho già denunciato a proposito del liceo Avogadro di Torino.

La novità delle proteste di Rimini è che a mettere in discussione questo progetto “italianicida” e “linguicista” [3] non ci sono solo associazioni come Italofonia e comunità virtuali come quella degli Attivisti dell’italiano, ma anche gli stessi imprenditori, le associazioni degli albergatori, e i cittadini che lottano – mi sembra impossibile doverlo raccontare – per il diritto alla studio nella propria lingua madre!

Tutto ciò è inaccettabile. Ed è inaccettabile che la cancellazione dell’italiano dalle scuole avvenga nel silenzio mediatico – a parte un giornale locale come il Resto del Carlino – e nel vuoto di prese di posizioni di intellettuali e politici.

La speranza è che le nostre proteste possano almeno riaprire un dibattito. La decisione dell’Università di Bologna sembra ormai presa, anche se formalmente sarà ufficializzata entro il 29 febbraio. Ma è importante far arrivare più voci possibili di dissenso per cercare di fare in modo che altri atenei, prima di scegliere di andare in questa direzione, debbano tenere conto anche delle resistenze dei cittadini oltre ai numerini del proprio “businness plan”.

Chi vuole aiutare i riminesi, gli albergatori, Italofonia e soprattutto il diritto allo studio in italiano e la lingua italiana si faccia sentire, e si unisca al nostro appello.

In meno di 30 secondi puoi aderire alla protesta sottoscrivendo e inviando un messaggio precompilato, ma è possibile personalizzarlo a piacere, attraverso il modulo a fine di questo articolo.

Grazie.

Antonio Zoppetti

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Note
[1] Per approfondire la questione: Michele Gazzola, “La ‘anglificazione’ dell’università in Europa è evitabile?Analisi e proposte per una università plurilingue” (2023).
[2] Maria Agostina Cabiddu ha curato: L’italiano alla prova dell’internalizzazione (goWare ed Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA, 2017).
[3] Il linguicismo è concetto introdotto dalla finlandese Tove Skutnabb-Kangas: come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo è la discriminazione in base alla lingua madre, che porta a giudizi sulla competenza o non competenza nelle lingue ufficiali o internazionali.

Psicopatologie dell’inglese quotidiano

Di Antonio Zoppetti

Qualche giorno fa, scanalando tra i programmi televisivi mi sono imbattuto in una trasmissione in cui un amabile e colto esperto di antiquariato stava stimando un oggetto di porcellana di una signora intenzionata a venderlo. Il nome del programma – anzi format – come sempre era in inglese, Cash or Trash, solo affiancato da un’esplicazione in italiano (Chi offre di più?) con la stessa logica commerciale dei titoli di film che non vengono più tradotti. Nel caso serva un rafforzo in italiano di solito viene inserito in seconda posizione, dopo l’inglese, una scelta non casuale e ben ponderata che serve a imporre questa lingua, e allo stesso tempo a stabilire una ben precisa gerarchia. L’inglese ha la precedenza perché è lingua di prestigio e superiore.

Tornando ai fatti, l’autorevole esperto ha cominciato a esaminare l’oggetto per valutarne l’epoca, la fattura e tutto il resto, e a proposito dell’integrità si è accorto che il valore era sminuito dal particolare che la base era lievemente scheggiata, in altre parole presentava delle sbeccature o sbrecciature (ma si può dire anche sbocconcellature). Indicando quel difetto ha detto più o meno:

“Vede qui? Queste si chiamano chips, e sono una sorta di sbeccature, potremmo dire.”

Proviamo ad analizzare quest’ultima frase in profondità per sviscerare, come faceva Freud, il substrato psichico che produce questo tipo di linguaggio.

PUNTO 1 – Il contesto comunicativo “verticale”

Partiamo dal ruolo dell’esperto, che mette in scena la sacralità di colui che sa, e dunque spiega a chi non sa. La comunicazione con la venditrice non è sullo stesso piano (diciamo orizzontale), la donna si trova nella condizione inferiore tipica del discente. Il suo stato psicologico è quello di chi riceve e pende dalle labbra del maestro. Tutto quello che ha in mente è probabilmente solo sapere il prezzo della sua mercanzia, l’obiettivo primario, ma nell’essere edotta allo stesso tempo scopre che ciò che inficia il valore del suo manufatto si chiama “chips”, parola che di sicuro non conosce, o meglio avrà già sentito ma con altro significato, quello di patatine.

Un po’ di tempo fa in un locale ho ordinato una birra e ho chiesto di avere anche due patatine. Il ragazzo mi ha chiesto: “Chips?”.
“Patatine”, gli ho risposto. “Sì, ma chips?” Ha insistito. A quel punto ho capito il suo dilemma. Non sapeva se volessi un piatto di patatine fritte calde e fumanti, a pagamento, o se intendessi una ciotola con le patatine confezionate che come le noccioline accompagnano gli aperitivi e sono in omaggio. “Patatine normali, quelle del sacchetto” ho specificato. “Ah, perfetto, le chips!” Ha concluso.

Qualcosa di simile mi è accaduto in un’altra occasione in una specie di profumeria quando cercavo un regalo natalizio. Il negozio era grande – e veniva presentato dunque come uno store, mica come un semplice negozio – e abbastanza affollato. Curiosavo tra gli scaffali con in mano il prodotto scelto, e mi si è avvicinato un commesso chiedendomi se avevo bisogno di una bag. Credevo mi volesse vendere un sacchetto da regalo, e gli ho domandato quanto costasse. “No, una bag”, ha risposto indicandomi delle borse per i clienti che servivano per contenere i prodotti da presentare alla cassa, come i carrelli della spesa.

In tutti e tre gli esempi abbiamo a che fare con un meccanismo piuttosto simile. L’addetto ai lavori – detentore del linguaggio – impone una terminologia in inglese al cliente, invece di usare l’italiano. Lo fa in modo inconsapevole, con spirito educativo e in questo modo insegna la newlingua all’interlocutore, che la impara ed è ora pronto a ripeterla.

PUNTO 2 – Differenziazione dei significati e cancellazione dell’italiano

…Si chiamano chips, e sono una sorta di sbeccature, potremmo dire.
In una frase manipolatoria come questa, l’introduzione dell’inglese si porta con sé una giustificazione che nasce dalla volontà di farlo apparire più preciso o prestigioso (dunque ai vertici della gerarchia e della diglossia). Ho chiamato questo meccanismo “non-è-proprismo” perché consiste nel fare credere che la parola inglese abbia una sua necessità, e dunque si differenzierebbe dall’analoga parola che abbiamo sempre usato nella nostra lingua madre. De Amicis, nell’Idioma gentile, aveva caricaturato questo atteggiamento con la macchietta del visconte La Nuance, sempre pronto a dimostrare che ogni francesismo possedesse una presunta differente sfumatura di significato, una nuance appunto, che l’italiano non avrebbe. Oggi avviene lo stesso con l’inglese che nell’entrare ridefinisce tutta l’area semantica delle parole già esistenti, e nel farlo sottrae loro un ambito e le fa regredire (se si impone chips che fine faranno sbeccatura, sbrecciatura o sbocconcellatura già oggi poco conosciute, benché tecnicamente perfette per descrivere i fatti?). Ed ecco che l’esperto, nell’introdurre “chips” spiega che è una “sorta di sbeccatura”. In questo modo lascia intendere che non è proprio come una semplice sbeccatura, è di più: e infatti gli addetti ai lavori dicono così. Probabilmente anche il commesso della profumeria sarebbe stato pronto a spiegare che una bag non è proprio una borsa, un sacchetto o una sportina, e il barista mi avrebbe spiegato che le chips sono le patatine confezionate, al contrario di un piatto di patatine. Il fatto che tutto ciò sia semplicemente falso, e che in inglese — prima ancora che in italiano — non esista affatto questa differenza, sembra non avere alcuna importanza. Anzi sembra non possedere nemmeno una sua realtà.

PUNTO 3 – L’alienazione linguistica

In Psicopatologia della vita quotidiana Sigmund Freud indagava sulle disfunzioni della memoria e interpretava i lapsus, la dimenticanza dei nomi o delle parole straniere non come dei fatti casuali, ma come dei meccanismi inconsci di rimozione che si impongono sulla nostra coscienza. E scriveva:

“I vocaboli di uso corrente della lingua madre non possono, nei limiti del normale funzionamento delle nostre facoltà, cadere nella dimenticanza. Ovviamente, per quanto riguarda i vocaboli di una lingua straniera, le cose stanno diversamente. In questo caso, la tendenza a dimenticarli esiste…”.

Questa convinzione ritorna spesso nel saggio, anche a proposito dei lapsus linguae:

“Mentre il materiale usato nei discorsi fatti nella lingua materna non sembra soggetto a dimenticanza” sono invece frequenti i lapsus.

Freud è ormai stato abbandonato e superato, ma è interessante notare quanto questa visione sia inapplicabile all’odierna realtà dell’italiano, e degli italiani, che sembrano invece dimenticare la lingua madre per sostituirla con quella inglese in un processo che lo psicanalista avrebbe di sicuro ricondotto alla “rimozione” e che potremmo meglio definire attraverso il concetto di “alienazione linguistica”.
In una trasmissione come Cash or Trash ogni oggetto datato, d’epoca, della nonna, o “retrò” (alla francese) è denominato vintage, mentre non c’è l’oggettistica di “lusso” bensì il luxury, pronunciato sempre rigorosamente in inglese, nonostante sia un termine ben più lungo dell’italiano, a proposito di chi blatera che il ricorso all’inglese dipenderebbe dal fatto che è più sintetico e maneggevole.

La verità è un’altra, e la solita: il passaggio dall’italiano all’inglese nasce invece da un processo di alienazione dovuto al considerare quella lingua superiore e più prestigiosa, e dunque è dovuto a un complesso di inferiorità nei confronti della propria lingua madre. Questo è il vero motore, a volte inconsapevole, istintivo o inconscio (per dirla con Freud) che emerge attraverso processi di giustificazione come quelli indicati al punto 2) e attraverso meccanismi come quelli del punto 1) che – come i lapsus – sono inconsci, ma allo stesso tempo se sono analizzati in profondità rivelano una forma mentis che deriva dal pensare in inglese invece che in italiano.

E a questo punto bisogna abbandonare l’approccio psicologico del singolo parlante e passare dalla “psicolinguistica” alla “sociolinguistica”, perché affermare che le “sbeccature si chiamano chips” non ha a che fare con un disturbo mentale di un singolo individuo, ma con una mania compulsiva, che appartiene alla nostra società, dove ogni singolo individuo tende a comportarsi e a replicare una tendenza collettiva.

PUNTO 4 – I centri di irradiazione sociali della lingua

Gramsci è stato uno dei primi a porsi la questione della lingua come fatto sociale, e più che alle grammatiche dei linguisti guardava a quella “grammatica” che “opera spontaneamente in ogni società”, quella che si segue “senza saperlo” e che tende a unificarsi in un territorio da sola e senza essere normata (Antonio Gramsci, Quaderno 29 [XXI], § 2.), in altre parole: al linguaggio popolare.
Questa grammatica “immanente nel linguaggio stesso” nasce da una serie complessa di fattori che si intrecciano, e una lingua nazionale unitaria prende forma attraverso questi processi complessi quando esiste una necessità. La lingua che prende forma nel popolo è perciò l’imitazione (e il ripetere) dei modelli linguistici che arrivano dall’alto, cioè dalla classe dirigente, e il processo di “conformismo linguistico” – cioè il propagarsi di una lingua che tende a codificarsi in un certo modo condiviso e riconosciuto da tutti – avviene attraverso i “focolai di irradiazione” della lingua che negli anni Trenta aveva individuato nella scuola, nei giornali, negli scrittori sia d’arte sia popolari, nel teatro, nelle riunioni civili di ogni tipo (da quelle politiche a quelle religiose), nel cinema e nella radio. La lingua, come prodotto sociale, nasce in questi luoghi e da queste interazioni.
Trent’anni dopo Pasolini si era accorto che i nuovi centri di irradiazione della lingua erano ormai i centri industriali del nord, e che la nuova lingua tecnica e industrializzata arrivava da lì, e se tutti da Palermo a Milano parlavano di “frigorifero” era perché quella parola nasceva ed era diffusa dall’industrializzazione.

Oggi i nuovi centri di irradiazione della lingua non sono più nell’asse Milano-Torino come negli anni Sessanta, provengono direttamente dall’anglosfera, e la lingua che importiamo in modo diretto da fuori d’Italia entra in modo crudo e senza essere mediata da alcun processo di adattamento, traduzione o creazione di parole nostre. Queste parole spesso non coincidono con “cose” nuove, tutt’altro: sostituiscono le parole della nostra lingua materna che il povero Freud considerava impossibili da dimenticare, ma che invece dimentichiamo e gettiamo via, come è accaduto al calcolatore abbandonato per il computer, e come nel caso di una sbeccatura che diviene chip. Ma anche come nel caso di chi parla di reputation invece di reputazione, di vision invece di visione, di underdog invece di sfavorito, di cashback invece di rimborso e via dicendo. In questi ultimi casi la lingua materna resiste, ma finisce per diventare meno prestigiosa rispetto ai suoni in inglese, dunque possiede uno status sociale inferiore, che ne mette a rischio la sopravvivenza e il futuro.
In altre parole, nella riorganizzazione culturale e linguistica dei nostri tempi al centro della newlingua che non arriva affatto dal basso, come in molti vorrebbero far credere, c’è il costruire l’esigenza e la necessità – per dirla con Gramsci – dell’inglese. Il commesso che ti offre la bag, il barista che ti parla di chips… stanno creando la “necessità” di queste nuove parole in inglese.

Intanto, rispetto all’epoca di Freud, Gramsci e Pasolini, i nuovi centri di irradiazione della lingua si sono arricchiti non solo della televisione, ma anche del mondo digitale, pensato in inglese ed espresso in inglese. E dopo l’epoca delle riunioni religiose o politiche i nuovi fari che ci illuminano di inglese sono rappresentati dalla lingua dell’informatica che non viene tradotta, così come accade nel lavoro, nella scienza, nelle pubblicità… dove gli anglicismi sono predominanti.
La forma mentis di chi ti insegna che le sbeccature si chiamano chips è quella di chi è stato plasmato a ragionare nella lingua superiore, e la diffonde in modo inconsapevole come un colonizzatore, per il semplice fatto che la sua mente è ormai stata colonizzata. Esattamente come è colonizzata quella dei linguisti che ci spiegano che esistono i prestiti di necessità, una concettualizzazione che apparentemente descrive questa necessità, ma che nella realtà la presuppone, introduce e impone, facendo finta di dimostrarla con pseudo-argomentazioni imbarazzanti.

Le scuole coloniali prendono piede in Italia

Di Antonio Zoppetti

La notizia che mi ha segnalato ieri l’attivista dell’italiano Marco Zomer riguarda la “svolta” di una scuola secondaria di Torino, l’Istituto Avogadro, che ha deciso di introdurre nella sua offerta formativa i corsi in lingua inglese invece che in italiano. I percorsi di studio sono due: il liceo scientifico dove la biologia, la chimica, la fisica e l’informatica verranno insegnate in inglese; e l’indirizzo tecnico dove l’inglese sarà la lingua di apprendimento “solo” di informatica e fisica. Come se non bastasse, l’insegnamento dell’inglese già previsto e obbligatorio verrà aumentato di due ore.

Il modo in cui l’articolo della Stampa riporta la notizia è il solito, si esaltano queste decisioni in modo acritico per propagandarle, invece di analizzarle, con la volontà di giustificare e diffondere la visione anglomane che la nostra intellighenzia ha fatto sua. E così leggiamo che la scuola “guarda al futuro” (cioè il futuro coloniale dell’Italia), perché dal prossimo anno includerà “i programmi Cambridge”. A dire il vero questi programmi servono per imparare l’inglese, non per insegnare le materie scientifiche, e andrebbe almeno specificato. Ma il pezzo, il cui incipit è un solenne “Torino chiama Cambridge” punta a mostrare che in questo modo la scuola torinese si eleva al prestigio di quella inglese, e sottolinea la grande innovazione per l’indirizzo tecnico, perché avrebbe solo quattro precedenti in tutta Italia, mentre al liceo scientifico è forse una prassi meno rara.

Le argomentazioni didattiche o pedagogiche sottostanti hanno lo spessore di una televendita di cinture dimagranti eccezionali perché vengono dall’America, a partire dai virgolettati della professoressa Elena Vietti che spiega come la “metodologia Cambridge” favorisca lo sviluppo delle tecniche di problem solving “oltre ovviamente un potenziamento della lingua stessa”. E qui infila la prima evidente castroneria, perché se vogliamo imitare il modello di formazione anglosassone dobbiamo appunto capire una cosa molto semplice: lì potenziano la propria lingua, non quella degli altri. Se Torino chiama Cambridge, va detto che Cambridge non chiama né Torino, né Parigi, né Madrid, né Berlino né alcun altro. A Cambridge non si studiano le materie in francese, tedesco o italiano – forse alla prof sfugge questo piccolo trascurabile particolare – e nei sistemi scolastici angloamericani le lingue straniere non sono contemplate, o comunque non sono obbligatorie, e quando sono previste hanno un ruolo marginale. Ma nel processo di alienazione linguistica in atto – l’abbandono dell’italiano per passare all’inglese – non si racconta che mentre tutta l’Europa spende una fortuna per insegnare l’inglese (lingua di fatto extracomunitaria) e formare le nuove generazioni bilingui a base inglese sin dalle elementari, gli inglesi e gli americani non hanno questi costi, visto che preferiscono che tutto il mondo impari e usi la loro lingua naturale.

Ora, per chiamare le cose con il loro nome, tutto ciò avviene all’insegna del colonialismo linguistico. Non stupisce che gli anglofoni, maestri del colonialismo e anche di quello che un tempo si chiamava imperialismo, spingano in questa direzione che comporta interessi economici e strategici per loro spropositati. Quello che stupisce è che in Italia non lo si capisca o si faccia finta di non capirlo. Colpisce il servilismo con cui ci zerbiniamo davanti alla “lingua dei padroni” e alla dittatura dell’inglese in un’alienazione culturale che distrugge la nostra lingua e cultura.

Dal punto di vista didattico, la citata professoressa spiega l’intento di voler conciliare l’approccio all’istruzione anglosassone di taglio molto pragmatico con la tradizione italiana più “teorica”, ma bisogna specificare che dietro la nostra “teoria” c’è – o forse c’era – un ben diverso criterio che tende a considerare le cose da un punto di vista storico e anche critico, che è molto distante da quello per esempio tipicamente americano che in nome di questo scellerato “problem solving”, già introdotto a forza nelle scuole come criterio di valutazione degli studenti, si limita il più delle volte a fornire nozioni non sottoposte ad analisi critiche né storicizzate. E in questo passaggio a un sistema “misto” (dove però c’è solo la lingua inglese) l’inglese farà da “link” alle materie: collegamento è parola della veterolingua che si vuole cancellare, ma si potrebbe dire forse anche hub, invece di snodo o raccordo (l’itanglese nella sua ricchezza ci sta fornendo sempre più sinonimi). Come se senza questo link, le materie fossero percepire come disgiunte, e come se questo collegamento non si possa fare nella nostra lingua nativa!

Il livello di queste dichiarazioni è sconcertante, e ancora più sconcertante è come i giornali lo ripetano facendolo passare come normale. Questo conciliare i due metodi in modo appunto astratto e teorico ricorda certe caricature con cui si dice di voler essere ecologici ma senza rinunciare al suv, o di volere incentivare prodotti locali a chilometro zero ma anche la Coca Cola. Nella realtà, dietro le proposte di anglificazione della scuola l’obiettivo è solo uno: l’imposizione dell’inglese che diventa LA materia più importante e il cardine attorno al quale si vuol far ruotare l’istruzione. Lo si vede dal bocconcino più goloso dell’operazione che include appunto l’ottenere la certificazione Igcse, la ciliegina che è il vero obiettivo dell’offerta.

Ma l’italiano dov’è? Che ruolo e che peso ha in questo percorso? Come mai le nuove scuole-aziende americanizzate o cambridgizzate e il nuovo sistema scolastico che viene smantellato sfornano studenti con sempre più problemi di analfabetismo di ritorno o funzionale?

Sembra che sul piatto della formazione la pietanza forte sia solo l’inglese, come se tutto il resto forse un contorno di cui si può fare anche a meno. E colpisce l’affermazione di un’altra professoressa che con orgoglio spiega che la nuova offerta anglomane non ha richiesto nuovi docenti, perché quelli in carica sono già patentati del livello C1 e C2 di inglese. Dietro questo fiorellino da mettere all’occhiello non si mette in luce la preparazione, la competenza o la bravura dell’organico, ma solo la sua conoscenza della lingua superiore. Come se fosse questo il requisito da propagandare negli immancabili “Open day” che servono a reclutare gli studenti.

Il numero di Avogadro

La dirigente scolastica dell’Istituto, nello spiegare che si tratta di una sperimentazione solo avviata, anticipa che per il momento ci si aspetta un numero di studenti e classi contenuto, e dalle adesioni dipenderà il futuro allargamento della proposta ad altri indirizzi e classi. La mia speranza è che iniziative di questo tipo falliscano miseramente, e che non si raggiunga il “numero di Avogadro” necessario per continuarli. Più realisticamente so bene che non andrà a questo modo, perché l’anglificazione della scuola nel nuovo millennio si sta allargando in maniera preoccupante.

Uno dei primi segnali è partito proprio da Torino, quando il Politecnico ha deciso di incentivare i corsi in inglese nell’anno accademico 2007-2008 attraverso l’iscrizione gratuita per il primo anno, discriminando di fatto i corsi in italiano che invece si pagavano. Pochi anni dopo, nel 2012, il Politecnico di Milano si è spinto ben oltre decidendo di estromettere la nostra lingua dalla formazione universitaria per erogare corsi solo in inglese. Anche in questo caso ci sono state vicende giudiziarie infinite, ma benché sulla carta sia stata riconosciuta una teorica “primazia dell’italiano”, di fatto l’ateneo continua a erogare corsi quasi solo in inglese. E così mentre questo modello si allarga, e recentemente anche la Bocconi di Milano ha preso la medesima direzione, oggi si abbassa l’asticella includendo anche le scuole secondarie, che sono il prossimo terreno di conquista. Nei Paesi scandinavi, dove l’anglificazione è stata da tempo introdotta e sperimentata, si assiste a una marcia indietro perché si è visto che insegnare in inglese si trasforma in un processo sottrattivo, non aggiuntivo. Insegnare in un’altra lingua comporta la perdita e la riduzione della terminologia nella lingua nativa, induce alla semplificazione dei concetti e dei ragionamenti perché si esprimono con più difficoltà, spinge a pensare in inglese, che invece di aggiungersi alla lingua di partenza finisce per fagocitarla. Noi, al contrario stiamo andando in questa direzione suicida in modo becero, acritico e coloniale. Le nefaste conseguenze di questi approcci sono state denunciate da autori africani come Ngugi wa Thiong’o che le hanno subite: lì, le scuole coloniali in lingua inglese hanno non solo contribuito all’abbandono delle lingue indigene, ma hanno soprattutto creato barriere culturali: chi non sapeva l’inglese non poteva accedere alle scuole che imponevano quella lingua e in quella lingua insegnavano. L’inglese ha creato una diglossia tra lingua della cultura e lingua del popolo che da noi apparteneva al Medioevo, quando il latino era la lingua appunto della scuola e della scrittura e il volgare delle massi analfabete. E noi, oggi, in nome di un supposto “internazionalismo” che viene fatto coincidere in modo surrettizio con il parlare in inglese, stiamo costruendoci da soli analoghe scuole coloniali per formare le future generazioni. Così, mentre l’itanglese diviene la lingua modello del linguaggio della scuola e del Ministero dell’Istruzione, l’inglese puro diviene la lingua della nuova cultura, in una svolta linguicista che discrimina la nostra storia e cultura.

Ma a raccontare queste cose, o per lo meno a mostrare l’altra faccia della medaglia dell’anglificazione, affinché ognuno possa fare le sue scelte in modo consapevole, non sono i giornali, né i politici, né gli intellettuali (a parte sparute eccezioni di qualche “dissidente”), sono più spesso i lettori. E Marco Zomer, agguerrito attivista dell’italiano, è riuscito a fare arrivare la sua voce al giornale, seppur in un trafiletto in cui le sue riflessioni sono state riassunte e semplificate.

L’anglificazione della scuola è il nuovo terreno di conquista che nei prossimi anni emergerà e si allargherà, ma invece di produrre riflessioni serie e dibattiti, viene dato per scontato come “il futuro” ineluttabile, un futuro dove l’italiano finirà per diventare un dialetto.