Psicopatologie dell’inglese quotidiano

Di Antonio Zoppetti

Qualche giorno fa, scanalando tra i programmi televisivi mi sono imbattuto in una trasmissione in cui un amabile e colto esperto di antiquariato stava stimando un oggetto di porcellana di una signora intenzionata a venderlo. Il nome del programma – anzi format – come sempre era in inglese, Cash or Trash, solo affiancato da un’esplicazione in italiano (Chi offre di più?) con la stessa logica commerciale dei titoli di film che non vengono più tradotti. Nel caso serva un rafforzo in italiano di solito viene inserito in seconda posizione, dopo l’inglese, una scelta non casuale e ben ponderata che serve a imporre questa lingua, e allo stesso tempo a stabilire una ben precisa gerarchia. L’inglese ha la precedenza perché è lingua di prestigio e superiore.

Tornando ai fatti, l’autorevole esperto ha cominciato a esaminare l’oggetto per valutarne l’epoca, la fattura e tutto il resto, e a proposito dell’integrità si è accorto che il valore era sminuito dal particolare che la base era lievemente scheggiata, in altre parole presentava delle sbeccature o sbrecciature (ma si può dire anche sbocconcellature). Indicando quel difetto ha detto più o meno:

“Vede qui? Queste si chiamano chips, e sono una sorta di sbeccature, potremmo dire.”

Proviamo ad analizzare quest’ultima frase in profondità per sviscerare, come faceva Freud, il substrato psichico che produce questo tipo di linguaggio.

PUNTO 1 – Il contesto comunicativo “verticale”

Partiamo dal ruolo dell’esperto, che mette in scena la sacralità di colui che sa, e dunque spiega a chi non sa. La comunicazione con la venditrice non è sullo stesso piano (diciamo orizzontale), la donna si trova nella condizione inferiore tipica del discente. Il suo stato psicologico è quello di chi riceve e pende dalle labbra del maestro. Tutto quello che ha in mente è probabilmente solo sapere il prezzo della sua mercanzia, l’obiettivo primario, ma nell’essere edotta allo stesso tempo scopre che ciò che inficia il valore del suo manufatto si chiama “chips”, parola che di sicuro non conosce, o meglio avrà già sentito ma con altro significato, quello di patatine.

Un po’ di tempo fa in un locale ho ordinato una birra e ho chiesto di avere anche due patatine. Il ragazzo mi ha chiesto: “Chips?”.
“Patatine”, gli ho risposto. “Sì, ma chips?” Ha insistito. A quel punto ho capito il suo dilemma. Non sapeva se volessi un piatto di patatine fritte calde e fumanti, a pagamento, o se intendessi una ciotola con le patatine confezionate che come le noccioline accompagnano gli aperitivi e sono in omaggio. “Patatine normali, quelle del sacchetto” ho specificato. “Ah, perfetto, le chips!” Ha concluso.

Qualcosa di simile mi è accaduto in un’altra occasione in una specie di profumeria quando cercavo un regalo natalizio. Il negozio era grande – e veniva presentato dunque come uno store, mica come un semplice negozio – e abbastanza affollato. Curiosavo tra gli scaffali con in mano il prodotto scelto, e mi si è avvicinato un commesso chiedendomi se avevo bisogno di una bag. Credevo mi volesse vendere un sacchetto da regalo, e gli ho domandato quanto costasse. “No, una bag”, ha risposto indicandomi delle borse per i clienti che servivano per contenere i prodotti da presentare alla cassa, come i carrelli della spesa.

In tutti e tre gli esempi abbiamo a che fare con un meccanismo piuttosto simile. L’addetto ai lavori – detentore del linguaggio – impone una terminologia in inglese al cliente, invece di usare l’italiano. Lo fa in modo inconsapevole, con spirito educativo e in questo modo insegna la newlingua all’interlocutore, che la impara ed è ora pronto a ripeterla.

PUNTO 2 – Differenziazione dei significati e cancellazione dell’italiano

…Si chiamano chips, e sono una sorta di sbeccature, potremmo dire.
In una frase manipolatoria come questa, l’introduzione dell’inglese si porta con sé una giustificazione che nasce dalla volontà di farlo apparire più preciso o prestigioso (dunque ai vertici della gerarchia e della diglossia). Ho chiamato questo meccanismo “non-è-proprismo” perché consiste nel fare credere che la parola inglese abbia una sua necessità, e dunque si differenzierebbe dall’analoga parola che abbiamo sempre usato nella nostra lingua madre. De Amicis, nell’Idioma gentile, aveva caricaturato questo atteggiamento con la macchietta del visconte La Nuance, sempre pronto a dimostrare che ogni francesismo possedesse una presunta differente sfumatura di significato, una nuance appunto, che l’italiano non avrebbe. Oggi avviene lo stesso con l’inglese che nell’entrare ridefinisce tutta l’area semantica delle parole già esistenti, e nel farlo sottrae loro un ambito e le fa regredire (se si impone chips che fine faranno sbeccatura, sbrecciatura o sbocconcellatura già oggi poco conosciute, benché tecnicamente perfette per descrivere i fatti?). Ed ecco che l’esperto, nell’introdurre “chips” spiega che è una “sorta di sbeccatura”. In questo modo lascia intendere che non è proprio come una semplice sbeccatura, è di più: e infatti gli addetti ai lavori dicono così. Probabilmente anche il commesso della profumeria sarebbe stato pronto a spiegare che una bag non è proprio una borsa, un sacchetto o una sportina, e il barista mi avrebbe spiegato che le chips sono le patatine confezionate, al contrario di un piatto di patatine. Il fatto che tutto ciò sia semplicemente falso, e che in inglese — prima ancora che in italiano — non esista affatto questa differenza, sembra non avere alcuna importanza. Anzi sembra non possedere nemmeno una sua realtà.

PUNTO 3 – L’alienazione linguistica

In Psicopatologia della vita quotidiana Sigmund Freud indagava sulle disfunzioni della memoria e interpretava i lapsus, la dimenticanza dei nomi o delle parole straniere non come dei fatti casuali, ma come dei meccanismi inconsci di rimozione che si impongono sulla nostra coscienza. E scriveva:

“I vocaboli di uso corrente della lingua madre non possono, nei limiti del normale funzionamento delle nostre facoltà, cadere nella dimenticanza. Ovviamente, per quanto riguarda i vocaboli di una lingua straniera, le cose stanno diversamente. In questo caso, la tendenza a dimenticarli esiste…”.

Questa convinzione ritorna spesso nel saggio, anche a proposito dei lapsus linguae:

“Mentre il materiale usato nei discorsi fatti nella lingua materna non sembra soggetto a dimenticanza” sono invece frequenti i lapsus.

Freud è ormai stato abbandonato e superato, ma è interessante notare quanto questa visione sia inapplicabile all’odierna realtà dell’italiano, e degli italiani, che sembrano invece dimenticare la lingua madre per sostituirla con quella inglese in un processo che lo psicanalista avrebbe di sicuro ricondotto alla “rimozione” e che potremmo meglio definire attraverso il concetto di “alienazione linguistica”.
In una trasmissione come Cash or Trash ogni oggetto datato, d’epoca, della nonna, o “retrò” (alla francese) è denominato vintage, mentre non c’è l’oggettistica di “lusso” bensì il luxury, pronunciato sempre rigorosamente in inglese, nonostante sia un termine ben più lungo dell’italiano, a proposito di chi blatera che il ricorso all’inglese dipenderebbe dal fatto che è più sintetico e maneggevole.

La verità è un’altra, e la solita: il passaggio dall’italiano all’inglese nasce invece da un processo di alienazione dovuto al considerare quella lingua superiore e più prestigiosa, e dunque è dovuto a un complesso di inferiorità nei confronti della propria lingua madre. Questo è il vero motore, a volte inconsapevole, istintivo o inconscio (per dirla con Freud) che emerge attraverso processi di giustificazione come quelli indicati al punto 2) e attraverso meccanismi come quelli del punto 1) che – come i lapsus – sono inconsci, ma allo stesso tempo se sono analizzati in profondità rivelano una forma mentis che deriva dal pensare in inglese invece che in italiano.

E a questo punto bisogna abbandonare l’approccio psicologico del singolo parlante e passare dalla “psicolinguistica” alla “sociolinguistica”, perché affermare che le “sbeccature si chiamano chips” non ha a che fare con un disturbo mentale di un singolo individuo, ma con una mania compulsiva, che appartiene alla nostra società, dove ogni singolo individuo tende a comportarsi e a replicare una tendenza collettiva.

PUNTO 4 – I centri di irradiazione sociali della lingua

Gramsci è stato uno dei primi a porsi la questione della lingua come fatto sociale, e più che alle grammatiche dei linguisti guardava a quella “grammatica” che “opera spontaneamente in ogni società”, quella che si segue “senza saperlo” e che tende a unificarsi in un territorio da sola e senza essere normata (Antonio Gramsci, Quaderno 29 [XXI], § 2.), in altre parole: al linguaggio popolare.
Questa grammatica “immanente nel linguaggio stesso” nasce da una serie complessa di fattori che si intrecciano, e una lingua nazionale unitaria prende forma attraverso questi processi complessi quando esiste una necessità. La lingua che prende forma nel popolo è perciò l’imitazione (e il ripetere) dei modelli linguistici che arrivano dall’alto, cioè dalla classe dirigente, e il processo di “conformismo linguistico” – cioè il propagarsi di una lingua che tende a codificarsi in un certo modo condiviso e riconosciuto da tutti – avviene attraverso i “focolai di irradiazione” della lingua che negli anni Trenta aveva individuato nella scuola, nei giornali, negli scrittori sia d’arte sia popolari, nel teatro, nelle riunioni civili di ogni tipo (da quelle politiche a quelle religiose), nel cinema e nella radio. La lingua, come prodotto sociale, nasce in questi luoghi e da queste interazioni.
Trent’anni dopo Pasolini si era accorto che i nuovi centri di irradiazione della lingua erano ormai i centri industriali del nord, e che la nuova lingua tecnica e industrializzata arrivava da lì, e se tutti da Palermo a Milano parlavano di “frigorifero” era perché quella parola nasceva ed era diffusa dall’industrializzazione.

Oggi i nuovi centri di irradiazione della lingua non sono più nell’asse Milano-Torino come negli anni Sessanta, provengono direttamente dall’anglosfera, e la lingua che importiamo in modo diretto da fuori d’Italia entra in modo crudo e senza essere mediata da alcun processo di adattamento, traduzione o creazione di parole nostre. Queste parole spesso non coincidono con “cose” nuove, tutt’altro: sostituiscono le parole della nostra lingua materna che il povero Freud considerava impossibili da dimenticare, ma che invece dimentichiamo e gettiamo via, come è accaduto al calcolatore abbandonato per il computer, e come nel caso di una sbeccatura che diviene chip. Ma anche come nel caso di chi parla di reputation invece di reputazione, di vision invece di visione, di underdog invece di sfavorito, di cashback invece di rimborso e via dicendo. In questi ultimi casi la lingua materna resiste, ma finisce per diventare meno prestigiosa rispetto ai suoni in inglese, dunque possiede uno status sociale inferiore, che ne mette a rischio la sopravvivenza e il futuro.
In altre parole, nella riorganizzazione culturale e linguistica dei nostri tempi al centro della newlingua che non arriva affatto dal basso, come in molti vorrebbero far credere, c’è il costruire l’esigenza e la necessità – per dirla con Gramsci – dell’inglese. Il commesso che ti offre la bag, il barista che ti parla di chips… stanno creando la “necessità” di queste nuove parole in inglese.

Intanto, rispetto all’epoca di Freud, Gramsci e Pasolini, i nuovi centri di irradiazione della lingua si sono arricchiti non solo della televisione, ma anche del mondo digitale, pensato in inglese ed espresso in inglese. E dopo l’epoca delle riunioni religiose o politiche i nuovi fari che ci illuminano di inglese sono rappresentati dalla lingua dell’informatica che non viene tradotta, così come accade nel lavoro, nella scienza, nelle pubblicità… dove gli anglicismi sono predominanti.
La forma mentis di chi ti insegna che le sbeccature si chiamano chips è quella di chi è stato plasmato a ragionare nella lingua superiore, e la diffonde in modo inconsapevole come un colonizzatore, per il semplice fatto che la sua mente è ormai stata colonizzata. Esattamente come è colonizzata quella dei linguisti che ci spiegano che esistono i prestiti di necessità, una concettualizzazione che apparentemente descrive questa necessità, ma che nella realtà la presuppone, introduce e impone, facendo finta di dimostrarla con pseudo-argomentazioni imbarazzanti.

L’itanglese travalica completamente il concetto del “prestito linguistico”

Di Antonio Zoppetti

Voglio provare ad analizzare con le categorie del “prestito linguistico” vari esempi reali di comunicazione “italiana” in itanglese che mi sono stati segnalati negli ultimi giorni.

Esempio numero 1

Nell’immagine sopra si può vedere la presentazione di una multinazionale come la Manpower in italiano e in spagnolo. Domenico, che si è preso la briga di cercare la stessa comunicazione anche nelle varie lingue, ha rilevato che mentre in italiano ricorrono leader, global workforce solutions, business, brand, talent shortage e cyber security… nelle versioni spagnola, greca, portoghese, polacca, svedese, tedesca… “ mai – ma proprio mai – ricorre un termine inglese”.

Inoltre, nei suggerimenti della ricerca in “italiano” si legge: “Job title, Industry o Skills”, che a prima vista sembra un rimasuglio di un’impostazione della piattaforma in lingua inglese, ma si tratta invece di una “traduzione”, come si evince da “o” al posto di “or” e da “città” invece di “city”. Solo che questa traduzione di straordinaria bellezza e trasparenza evidentemente si avvale dei cosiddetti “prestiti linguistici”, i famosi “doni” che secondo alcuni osservatori arricchirebbero l’italiano invece di rappresentare un fenomeno sottrattivo che lo depaupera.
Inutile dire che negli altri Paesi le stesse cose sono espresse nelle rispettive lingue locali.

Esempio numero 2

Dalla lingua delle multinazionali si può passare a quella di un’azienda nostrana come la Rinascente che nella sua ultima newsletter (giratami da Marco) composta da un centinaio di parole, ne sfoggia una ventina in inglese (dunque un’incidenza di circa il 20%).

Si può partire dal prestito di “necessità” design che, anche se è l’adattamento dell’italiano disegno, è oggi diventato insostituibile per indicare ciò che più contraddistingue il made in Italy (= prodotto italiano), e cioè l’italian design. E così, mentre i Paesi che primeggiano in determinati settori di solito esportano la propria lingua e i propri termini (si pensi all’inglese informatico), noi esportiamo le nostre eccellenze in inglese, come si evince da food e drinks che ben rappresenta la grande nomea della cucina italiana nel mondo dell’epoca dei MasterChef. E lo stesso vale per la nostra grande tradizione nel campo della moda, cioè il fashion: la maglieria diventa Knitwear (come closer, pelase!) e tra ready-to-wear, shopping e brand i negozi e punti vendita si trasformano in store, mentre una destinazione è destination è ciò che è senza tempo, o sempreverde, diventa timeless (ma andrebbe bene anche evergreen: l’itanglese è un arricchimento che offre tanti sinonimi).

Questi, più che “prestiti”, sono l’abbandono dell’italiano e la prova della sua regressione. Timeless è il segnale di un collasso dell’italiano, delle sue regole e della sua capacità di rinnovarsi e di evolversi. Dopo il capostipite topless, gentilmente “prestatoci” negli anni Sessanta, quando ben pochi comprendevano il suo significato di “senza la parte sopra” e lo ripetevano come il nome proprio di un costume o della pratica di stare a seno nudo, sono arrivati il genderless, gli homeless (i senzatetto erano detti un tempo barboni, ma questa parola è politicamente scorretta, mica come l’inglese che è inclusivo), il ticketless, le automobili keyless senza l’inserimento della chiave, il telefono cordless e il wireless (letteralmente la tecnologia “senza fili” brevettata da Marconi), e oggi less (come free) è diventato un suffissoide da applicare alle radici inglesi seguendo le regole dell’inglese. E così c’è chi disserta sulla sottile differenza tra childless e childfree per distinguere chi non può avere figli da chi non li vuole, mentre nel settore dell’automobile (cioè l’automotive) ci sono gli pneumatici tubeless (senza camera d’aria), i veicoli senza guidatore denominati driverless e via dicendo.

Quando la frequenza dell’inglese è di questo tipo, e quando le radici inglesi si ricombinano con altre parole inglesi e italiane in ibridazioni o variazioni morfologiche, non siamo più in presenza di qualche “prestito” come avviene nel caso degli altri esostismi, ma di un fenomeno di ben altra portata che si chiama anglicizzazione.

Esempio numero 3

Su un sito di scommesse, cioè di betting, per essere moderni, mi hanno segnalato un articolo intitolato: “Sisal Wincity Diaz, il primo punto di vendita Sisal eco-friendly, aderisce al progetto ‘No Plastic More Fun” in collaborazione con Worldrise Onlus‘.”

Tra le perle evidenziate ci sono frasi come “Il Canvass Meeting Retail 2023 si è reso totalmente Carbon Neutral”.

Chi non comprende la differenza tra Carbon Neutral e Carbon Free può cercare in Rete (o se preferite googlare) l’espressione, per raggiungere fondamentali spiegazioni in “italiano” come: “Carbon net zero vs carbon neutral”, un articolo in cui si legge che il net zerosi applica all’intera organizzazione e alla sua value chain, per ridurre le emissioni indirette di carbonio dai fornitori a monte (upstream suppliers) fino agli utenti finali” ma per capire cosa si intende per climate neutrality “bisogna spostarsi in ambito imprenditoriale, dove un’azienda opera una riduzione e un offsetting di tutte le emissioni di gas a effetto serra (GHG) generate durante l’anno”.

Ma tornando al pezzo di partenza è tutto un pullulare di espressioni come: “L’Azienda sta lavorando a un nuovo concept store altamente sostenibile”; “newgioco.it, ora molto più user-friendly dopo il totale restyling”; “un prize money totale di 120 mila euro”; “Federico Chingotto e Miguel ‘Mike’ Yanguas … guidano l’entry list maschile; Maria Virginia Riera (…) sono invece le prime teste di serie del main draw femminile”…

Questi strani “prestiti” non sono più singole parole, ma “prestiti sintattici” (come qualcun li ha chiamati), cioè pezzi di inglese più complessi di quelli lessicali-terminologici, che riguardano il trapianto di porzioni di frasi che si trascinano l’inversione sintattica del costrutto originale. Allo stesso tempo, le ibridazioni come newgioco si inseriscono in una tendenza denominare in inglese ogni prodotto o funzione in una gerarchia delle parole che vede l’inglese al vertice della concettualizzazione che sostituisce quella italiana: “SNAIFUN, l’app Snaitech che premia la cultura e la passione sportiva con news, quiz e pronostici, diventa Premium Partner di AC Milan”; “Il Futuro del Gaming e degli Esports in Italia: l’Osservatorio Italiano Esports presenta in Parlamento il Primo White Paper sul settore” (da notare l’uso delle maiuscole un po’ all’inglese e un po’ alla cazzo).

Per chiamare le cose con il loro nome, questi esempi di comunicazione ibrida sono il segnale di una creolizzazione che travalica completamente l’approccio basato sul “prestito” teorizzato in certi manuali di linguistica. Non si ricorre all’inglese perché “ci manca la parola” (i cosiddetti “prestiti di necessità”) né perché qualche anglicismo si ricava una sua valenza più prestigiosa dei corrispettivi italiani (i cosiddetti “prestiti di lusso”). La frequenza e la pervasività dell’inglese è una scelta stilistica e una “newlingua” ibrida volutamente ricercata e ostentata. È una sorta di registro linguistico o di gergo che sta prendendo piede in sempre più ambiti (informatica, lavoro, economia, sport, moda, cucina…) e che sta raggiungendo il linguaggio comune, dei giornali, della politica, della cultura…

Esempio numero 4

L’ultima frontiera di questi “prestiti” si può rintracciare nella recente scelta di rinominare i porti pugliesi con la dicitura Port of Manfredonia, Port of Monopoli, Port of Barletta… per opera dell’“Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Meridionale” il cui presidente è il professore universitario Ugo Patroni Griffi (come mi ha segnalato Domenico).

Mentre nelle regioni autonome in cui si parla per esempio il tedesco la segnaletica prevede le scritte bilingui, in Puglia l’italiano è stato semplicemente buttato via, e c’è solo l’inglese.

Se questi sono prestiti… forse anche le politiche di certi atenei come il Politecnico di Milano di insegnare in inglese invece che in italiano si potrebbero leggere come una forma di prestito linguistico “totale”?

Italianismi di lusso e di necessità: anatomia di un delitto linguistico

Di Antonio Zoppetti

Sono rimasto molto colpito da questo articolo del Corriere.it dell’altro giorno:

Scommetto che anche voi, leggendolo, avrete subito pensato la prima cosa che è venuta in mente a me: “15enne” (“quindicenne” si scriveva nell’italiano antico) poteva benissimo essere sostituito dalla parola teenager. Tuttavia, riflettendoci, bisogna spezzare una lancia a favore della scelta del giornalista, perché teenager, pur essendo più evocativo, moderno e internazionale, risulta meno preciso, e non ci informerebbe sull’età esatta del nativo halloweeniano in questione. Lo stesso si può dire di un’espressione generica come over 14 o under 16: solo specificando entrambe le formule il lettore ne ricaverebbe l’età precisa, ma per economia linguistica scrivere un teenager over 14 ma under 16 sarebbe stato troppo lungo, dunque quel “15enne” si può considerare un italianismo di necessità e non di lusso (credo che ogni linguista serio ne converrebbe).

Analizziamo meglio l’articolo alla luce delle più moderne teorie della comunicazione.

Blitz

Qualcuno potrebbe storcere il naso davanti a una parola come blitz che nel sostituire italianismi di lusso come irruzione, non solo è più recente di raid, ma è anche meno in uso dal punto di vista statistico e in calo (vedi figura), dunque visto che come tutti sanno è l’uso che fa la norma, sarebbe meglio seguire la massa e scrivere sempre raid per non fare confusione e per evitare inutili e dannosi sinonimi. Senonché, ancora una volta, l’acume del giornalista è ineccepibile: parlare di raid e di rider crea un evidente bisticcio lessicale che è meglio evitare, anche a costo di privilegiare un doppione meno comune che in questo caso è motivato da esigenze di stile.


“Pizzo”

Il giornalista, giustamente, scrive “pizzo” tra virgolette, e non solo perché ricorrere alla lingua di Dante suona sempre più inappropriato, ma anche perché “pizzo” è una voce gergale e, soprattutto, è ambigua.
Senza quelle virgolette qualcuno avrebbe potuto pensare a un merletto, quei ricami che erano ancora in voga quando l’underwear era chiamato “intimo”, prima che si riconcettualizzasse l’intera categoria di ciò che si indossa sotto il dressing e l’outfit attraverso la terminologia più appropriata di boxer, slip, push-up, body e i nuovi capi intimi senza fronzoli. E prender “tangenti” per “mutande” potrebbe creare equivoci imbarazzanti.

Invece di “pizzo” l’autore avrebbe potuto scrivere paga una royalty o un fee, ma queste parole appartengono al diritto internazionale e non sono legate alla mafia o alla criminalità, dunque hanno un’opposta connotazione e il ricorso al gergale “pizzo” sembra preferibile (ricorrere invece a giochi di parole come “pizzo connection” sarebbe sì più aderente all’itanglese e all’anglopurismo, ma non sarebbe una locuzione stereotipata adatta allo stile giornalistico). Ecco dunque un altro italianismo di necessità.

Cessione dell’account

Un “pizzo” sul login dell’account di sicuro è un’espressione più tecnica, precisa e trasparente di “accesso all’account” (tra l’altro ac-cesso evoca i cessi, i water closet e i bagni), ma comunque è apprezzabile l’uso terminologicamente ineccepibile di account, che un tempo qualcuno avrebbe potuto designare con profilo, un italianismo decaduto anche per la sua solita polivalenza e ambiguità. Ormai è in uso solo per indicare per esempio il profilo “nasuto” di Dante, o la prospettiva dei dipinti degli antichi Egizi, e questa parola si tende a evitare anche per indicare lo skyline di una città, l’identikit di un criminale e a maggior ragione va evitato nel linguaggio informatico che deve essere univoco. Dunque “profilo” è italianismo di lusso da evitare.

Caporalato digitale

Qualche perplessità suscita invece l’espressione “caporalato digitale” e per molteplici motivi. Caporalato, come pizzo, è un italianismo gergale e dunque andrebbe meglio tra virgolette anche lui (per coerenza). In secondo luogo (= in seconda location) la parola “digitale” è ancora una volta ambivalente, fa pensare alle impronte digitali, e sarebbe più corretto parlare di digital (come in digital divide, digital art…) anche per uniformarsi alla regola dell’itanglese che si è ormai consolidata e che prevede in questi casi la caduta della “e finale” in parole come vision, mission, tutor, social, competitor

Last but not least, invece di caporalato digitale l’autore del pezzo avrebbe potuto scrivere digital caporalato, con inversione sintattica e pronuncia all’inglese; sarebbe preferibile anche perché è un’accezione nuova e indica qualcosa di nuovo rispetto al caporalato tradizionale della raccolta di pomodori. L’inglese è più adatto per descrivere ciò che è nuovo, e infatti la metà dei neologismi del nuovo Millenno è in inglese. Volendo evitare un vocabolo imbarazzante come “caporalato” forse si poteva ricorrere a un digital bossing o qualcosa del genere, ma non importa. Andiamo avanti.

Rider e food delivery

Quanto ai rider (pronuncia all’inglese) fa rider (pronuncia all’italiana) chiamarli fattorini, ciclofattorini o con altri patetici italianismi di lusso e non in uso; al massimo, se proprio si devono evitare le ripetizioni, esiste il sinonimo pony expess, anche se ormai di bassa frequenza e maggiormente legato a uno strumento di locomozione come lo scooter più che una bike, che grazie a Dio sta soppiantando l’italianismo di lusso bicicletta, come la prima parola inglese ha già fatto con motoretta, motorino e simili.
Colpisce invece lo scrivere food delivery in minuscolo invece di Food Delivery, preferibile; ma questo è un problema di interferenza dell’italiano sugli anglicismi che a volte vengono purtroppo storpiati. Lo so, può suonar blasfemo violare a questo modo la lingua sacra, ma a pensarci bene è un peccato veniale, rispetto a quanti vorrebbero parlare – pensate un po’ – della gastronomia a domicilio, che come mi ha fatto notare una volta uno “sveglio” (anzi smart) è anche concettualmente errata: e se uno si vuole far portare l’hamburger in un luogo diverso da quello che risulta essere il suo domicilio fiscale come la mettiamo? Per esempio al lavoro, a casa della fidanzata… (questo non è humour è un commento reale che mi hanno lasciato in passato). Per non parlare degli homeless che sono per definizione senza fissa dimora. L’inglese non pone di questi problemi.
Stesso discorso per “piatti a domicilio”: i rider non portano affatto i “piatti”, quelli sono a cura del committente, le pietanze sono consegnate nel loro apposito packaging, e chi dice piatti non ha idea di cosa sia il delivery e magari lo confonde pure con il take away, con il doggy bag, con il McDrive o con il catering. Quanto a italianismi di lusso come settore alimentare, ristorazione o pietanze invece di food sono un linguaggio troppo lungo (ci sarebbe cibo ma poi evoca il mangime dei cani e dei pet) e da boomer. E allora meglio le parole inglesi, che sono dei “doni” – non dimentichiamolo mai! – e dovremmo mostrare un po’ di gratitudine invece di criminalizzarle come ai tempi del fascismo! E a chi si lamenta perché non sono italiane andrebbe rammentato il proverbio: a gift horse dont’ look in the mouth!

Altre considerazioni statistiche

Alcuni puristi catastrofisti e oscurantisi, gli stessi che un tempo se la prendevano con i francesismi, da un po’ di tempo gridano al vento che l’italiano sarebbe in pericolo davanti all’inglese che stravolge il nostro modo di parlare. Ma proprio le analisi di articoli come questo dimostrano che non è affatto così, e che è tutta un’illusione ottica, un po’ come la temperatura percepita: se finisci all’ospedale in pieno agosto perché i tassi di umidità e la calura ti fanno svenire, hai preso un bel granchio! Perché se guardi il termometro magari segna solo 30 gradi e il tuo collasso non è dunque oggettivo, è un capriccio da ignorante, sei tu che ne percepisci 40 e credi di morire.

Anche per gli anglicismi avviene la stessa cosa.

Se contiamo le parole del titolo in questione sono 16 (“Rider 15enne paga ‘pizzo’ sulla cessione dell’account: blitz contro il caporalato digitale nel food delivery”), ma gli anglicismi sono solo 4 o 5 (rider, blitz, account + food e delivery che però si potrebbero contare come una sola parola, e non come due)! Avrebbero potuto essere ben di più, come a questo punto dovrebbe essere chiaro. E allora di che cosa si sta parlando? L’italiano è salvo ed è ben lontano da essere in pericolo, perché le parole come “il”, “del”, “nel”, “sul”, “contro”… resistono e continuano a essere prevalenti. Finché l’inglese riguarda il lessico non c’è alcun problema e non è il caso di fare tutto ‘sto casino per 4 o 5 parole inglesi!


Anche la firma del giornalista rimane italiana, Pierpaolo Lio, e lo stesso si può dire per la parola di apertura del pezzo che è “Milano” e non “Milan”. Dunque anche se su GoogleMaps si legge Milan, Venice, Florence… noi continuiamo a denominare i nostri luoghi nel nostro dialetto, a parte la regione Sicilia che preferisce Sicily, ma ciò è motivato dalla decisione di essere internazionali.

Certo, noi invece parliamo di New York e non di Nuova York come si diceva una volta, e mentre gli statunitensi parlano di Tuscany, Lombardy e adattano tutti i nostri toponimi noi non lo facciamo per i loro, ma ubi major minus cessat (espressione latina che si potrebbe tradurre con In front of English, Italian is dead), ed è normale in un mondo globalizzato!

Problemi di trasparenza

Un’altra delle fake che vorrei smontare riguarda la presunta poca trasparenza dell’itanglese.

Se si analizza l’articolo si vede benissimo che accanto ai titoloni cubitali è appositamente previsto, più in piccolo, un catenaccio che si rivolge proprio ai boomer e agli analfabeti e usa vocaboli come tangenti, credenziali, profili, fattorini… Dunque anche chi non è istruito perché per esempio conosce il francese, il tedesco, lo spagnolo o altri inutili dialetti del mondo (come l’italiano) riesce a farsi un’idea di che cosa diamine si parli, in attesa che tutti finalmente si convertano alla lingua dei popoli dominanti e dei nati fortunelli, che non devono apprendere altre lingue e preferiscono che sia il resto del mondo a dover imparare e utilizzare il loro idioma naturale. Del resto gli sforzi e gli investimenti dell’intera Europa che ha fatto dell’inglese la lingua obbligatoria da apprendere sin dalle elementari presto risolveranno tutto. E a mano a mano che i boomer moriranno – si spera presto – anche i catenacci giornalistici forse cesseranno finalmente di esistere e di avere un senso (o almeno di essere scritti in una lingua e in uno stile obsoleti). E chi non lo capisce non ha proprio idea di come funzioni il giornalismo, oggi come oggi.

Lo stile giornalistico e i suoi virtuosi presupposti

Parliamoci chiaro, i flussi dell’informazione internazionale ricalcano, ripetono e seguono ciò che viene battuto dalle agenzie dell’anglosfera, ed è un bene che sia così, perché se un domani dovesse scoppiare, che ne so, un conflitto con la Russia, la Cina o il mondo musulmano, mica si potrebbero riprendere le loro fonti che fanno propaganda, al contrario delle nostre che ben ci raccontano in modo neutrale e oggettivo avvenimenti come l’invasione dell’Iraq motivata da prove false, o l’aggressione della Russia all’Ucraina presentata senza raccontare tutti i precedenti che hanno portato Putin a commettere questo crimine ingiustificabile. Comunque, senza fare inutili polemiche, tornando alla lingua, è normale che se Dunald Trump si sveglia un giorno e dice “fake news” tutti i giornali il giorno dopo scrivano fake news, e non bufale, così come quando in Italia esplode il covid hai voglia a titolare che Conte ha introdotto le zone rosse, la quarantena, il coprifuoco, o ha blindato le città; se i giornali anglofoni chiamano tutto ciò l’italian lockdown anche noi dobbiamo epurare la nostra lingua, abbandonare quello che si diceva sino al 17 marzo 2020 e scrivere solo lockdown. O vogliamo ridurci come i francesi e gli spagnoli che parlano di confinamento? (parola che da noi evoca il fascismo, tra l’altro).
Del resto non è che un giornalista italiano, o di qualche altra area periferica dal peso pari a zero, possa inventare le proprie regole, ci mancherebbe solo questa! Quelle sono fissate dai canoni del giornalismo anglosassone, e al massimo i giornalisti periferici possono applicare questi canoni quando danno notizie locali irrilevanti per le fonti internazionali. Dunque le scuole coloniali di giornalismo, tra cui spicca il “Master Full Time e online per giovani” erogato da “RCS Academy”, insegnano le regole auree di quello anglosassone basato sulle famose 5 W (da pronunciare in inglese e non “doppie vu”, che fa molto provinciale), e cioè Who? (chi?), What? (cosa?), When? (quando?), Where? (dove?) e Why? (perché?).
Certo, mancherebbe un piccolo particolare: il come? Ma in inglese non comincia con “W” quindi tanto vale omettere questa insignificante quisquilia nello storytelling massmediatico, e se proprio si vuole insistere su questo benedetto “come?” la risposta è semplice: in inglese e attraverso gli anglicismi! In questo modo il cerchio si chiude, e l’anatomia del delitto linguistico è servita.

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PS
Oggi, dalle 16:30 alle 18:00, si terrà il seminario digitale “L’italiano come lingua ufficiale nella Costituzione? Proposte di politica linguistica a confronto”.

È moderato da Michele Gazzola (Ulster University) e i relatori sono:
Massimo Arcangeli (Università degli Studi di Cagliari);
Claudio Marazzini (presidente dell’Accademia della Crusca);
Lucilla Pizzoli (Università degli Studi Internazionali di Roma).

La locandina → https://www.societadilinguisticaitaliana.net/wp-content/uploads/2023/03/Locandina-seminari-digitali-27mar-def.pdf
Il collegamento Zoom → https://us02web.zoom.us/j/87068830649?pwd=QVdoLzN2NnR6REYwZFZ6U0VDQ1hWZz09

La favola dei prestiti linguistici: un concetto da buttar via

di Antonio Zoppetti

Tappolet! Chi era costui?
Pochi in Italia conoscono e citano questo studioso di cui non esiste nemmeno una voce sulla Wikipedia (tranne nella versione in tedesco), eppure tutti ripetono, spesso a vanvera, e danno per scontata una sua riflessione.

Enrst Tappolet (1870-1939) era uno studioso svizzero che tra le altre cose si occupò delle motivazioni culturali che portavano ad utilizzare certe parole tedesche nelle aree dove si parlavano i dialetti francofoni. E in un libro del 1914 (Die alemannischen Lehnwörter in den Mundarten der französischen Schweiz) fece una distinzione tutta teorica per distinguere i prestiti di cui esiste già un corrispondente, che interpretava dunque come scelte “di lusso” (Luxuslehnwort) da quelli che portano qualcosa di nuovo di cui non c’è già un corrispondente, e che venivano perciò considerati una “necessità” (Bedürfnislehnwort).

Questa distinzione era destinata a conoscere un’inesplicabile fortuna, in Italia, dove i linguisti l’hanno ripetuta facendola diventare un dogma e un postulato dalla validità universale, dimenticando l’autore, il contesto storico in cui si inseriva, e trascurando ogni atteggiamento critico sul senso della sua suddivisione. Ma prima di entrare nel merito di questa classificazione delle parole straniere, è utile domandarsi perché vengono definite impropriamente “prestiti”.
Negli anni Ottanta Gian Luigi Beccaria scriveva: “Curiosa parola in uso tra i linguisti: la lingua che presta il vocabolo non ne rimane priva, e la lingua che riceve non è obbligata a restituirlo” (Gian Luigi Beccaria, Italiano. Antico e nuovo, Garzanti, Milano 1988, p. 241).

L’origine del concetto di prestito linguistico

L’origine della metafora del prestito, un tempo chiamato anche imprestito (ma alcuni puristi di fine Ottocento condannavano queste espressioni in favore di presto o impresto) è datata, e ha a che fare con l’imitazione degli elementi culturali e dei costumi altrui che vengono assimilati. Carducci, per esempio, si scagliava contro il “paletot” (più tardi italianizzato in paltò), un soprabito che i sarti parigini avevano “tolto a prestito dai marinai della Bretagna” e che avevano “trovato il mezzo di far pagare (…) infinitamente più caro delle stoffe più fine”. Prima di lui anche Anton Maria Salvini (1653-1729) aveva parlato di “prestito” a proposito delle maniere “prese in prestito o da altri dialetti d’Italia o dalle altre due lingue sorelle, francese e spagnuola.”
Con il tempo la metafora è stata usata sempre più spesso anche per descrivere il ricorso a parole straniere, a lungo chiamate barbarismi, e uno dei primi scritti tecnici che ricorreva a questa formula risale all’epoca del fascismo: “Sull’imprestito linguistico” di Vittore Pisani (Ulrico Hoepli. Milano 1939). Ma la fortuna dell’espressione “prestito linguistico” è cominciata dopo il fascismo, negli anni ’50, ed è esplosa tra gli anni ’70 e gli anni ’90.

La similitudine del prestito si trova anche fuori dalla lingua italiana, nello spagnolo préstamo lingüístico, nel francese emprunt linguistique, nell’inglese loanword e anche nel tedesco, per tornare a Tappolet.

Ernst Tappolet e i prestiti di lusso e di necessità

La distinzione tra prestiti di lusso e di necessità è una semplicistica e arbitraria suddivisione come se ne possono fare tante altre, un po’ come dire che le donne si possono distinguere in due insiemi: le bionde e le brune, tralasciando le differenze tra castane e corvine, escludendo le rosse, le brizzolate, quelle dai capelli bianchi, quelle calve, e rendendo problematica l’attribuzione a uno dei due insiemi nei casi di chi si tinge o usa una parrucca (ogni riferimento ai peggiori stereotipi sulla visione della donna è voluto).

Il punto è che questo tipo di distinzioni sono legittime e possono avere anche la loro utilità, se contestualizzate, ma se diventano delle regole universali e delle categorie a cui si attribuisce una portata reale che esce dai distinguo concettuali non possono che produrre pseudoragionamenti.
Basta un minimo di buon senso per comprendere i limiti e le problematicità di simili definizioni. Come aveva scritto negli anni ’70 Paolo Zolli, il concetto di “necessità” non ha alcun fondamento né logico né storico. Davanti a una parola che non c’è, non è affatto “necessario” importarla da un’altra lingua così com’è (da filosofo sono abituato a dare a questa parola il suo significato di ciò che è, e non può non essere), visto che è possibile anche tradurla con elementi endogeni (es. revolver diventa rivoltella), oppure adattarla ai propri suoni (beafsteak diventa bistecca), coniare una nuova parola (tramezzino davanti a sandwich) o recuperare una parola già esistente con un nuovo significato (singolo che, di fronte a single, assume anche il significato di scapolo). Ma anche tralasciando l’abc della logica e della storia delle lingue, la distinzione di Tappolet non aveva la portata dogmatica “universale” che ha assunto in Italia, era solo una semplificazione per distinguere due concetti in modo teorico, perché l’oggetto dello studio stava nelle motivazioni, pragmatiche o affettive, che portano ad adottare una parola straniera. E infatti lo svizzero spiegava che alla base del ricorso alle parole straniere non c’era in gioco solo “il nome della cosa”, perché a essere decisivo era il ricorso a una determinata parola nella prassi comunicativa. A proposito di certe parole tedesche che si erano affermate nelle aree francofone Tappolet scriveva: “Come si può immaginare la ‘necessità’ di un’espressione straniera in questi casi? Presumibilmente, il termine tedesco si è affermato rapidamente perché giocava un ruolo più importante nei rapporti con i tedeschi che in quelli con i francesi”. (Tappolet 1913, p. 54; citato in: De Gruyter, Entlehnung in der Kommunikation und im Sprachwandel Theorie und Analysen zum Französischen, Edition Niemeyer, Göttingen 2011).

Lessico e bufale

Nei libri di linguistica, mediamente, oggi la distinzione tra lusso e necessità è introdotta omettendo l’autore e in modo acritico, come un postulato. Ma ogni ragionamento che parte da un postulato errato è destinato a crollare. E così si trovano definizioni dogmatiche come: “Si distinguono i prestiti di lusso e di necessità”. Chi e perché fa queste distinzioni viene taciuto. La categoria del prestito di necessità è solitamente impiegata per indicare una parola straniera che si porta con sé un concetto o un oggetto di cui non esiste una parola italiana. Ma anche tralasciando le osservazioni di Zolli e del buon senso, ci sono molti altri limiti logici che dovrebbero fare abbandonare questo strampalato criterio.


Proviamo a chiederci: mouse è un prestito di lusso o di necessità? Qualunque risposta rischia di trascinarci in qualcosa di simile alle antinomie della ragione di Kant, perché è possibile argomentare in modo apparentemente logico entrambe le posizioni.

A) Mouse è un oggetto nuovo di cui non esisteva un corrispondente italiano = necessità.
B) Mouse, e cioè “topo”, esisteva in italiano e si poteva benissimo usare la stessa metafora come è accaduto in francese (souris), spagnolo (ratón), tedesco (Maus) e nella maggior parte delle lingue del mondo = lusso.

La conclusione è che la necessità è solo italiana. Questa necessità non è una conclusione che si ricava per via deduttiva dalla definizione, è un’affermazione che presuppone ciò che vorrebbe dimostrare, visto che il lusso e la necessità riguardano le motivazioni che portano all’adozione di un anglicismo. Basta tornare all’origine della metafora del prestito, che si basa sull’imitazione e sull’assimilazione per imitazione, per svelare la bufala e il circolo vizioso del ragionamento. Avrebbe senso parlare di imitazione di necessità?

L’applicazione delle categorie dei prestiti di lusso e di necessità agli esempi concreti mostra tutta l’insensatezza della questione, e infatti non esiste alcun accordo e criterio oggettivo per stilare delle liste di esempi condivisi, e chiunque tenti di separare i due insiemi è destinato a controversie che ricordano quelle del sesso degli angeli, perché rimangono nella sfera delle opinioni da tronisti, più che da linguisti.
Ho trovato spesso la parola computer tra gli esempi che i linguisti fanno dei presunti prestiti di necessità, il che è un falso storico. Fino agli anni ’90 utilizzavamo normalmente la parola calcolatore (e anche elaboratore) che poi è stata progressivamente sostituita dall’anglicismo che è diventato un “prestito sterminatore”, entrato come “prestito di lusso” e finito per diventare un “prestito di necessità”, perché ormai i calcolatori evocano la macchine di una volta e non i nuovi dispositivi. Anche in questo caso la necessità è solo italiana, visto che in inglese, francese e tedesco si usava e si usa ancora oggi la stessa parola: computer, ordinateur, computador

Prendo “in prestito” uno schemino reale che per esemplificare la presunta necessità usa questi esempi:
Pacemaker: qualsiasi traduzione aggiungerebbe complessità.
Sauna perché non c’è corrispondente.
Selfie? Diverso da autoscatto.
Taggare: concetto difficile da spiegare se non con circonlocuzioni.
Whistleblower non è delatore”.

I giudizi che giustificano la “necessità” del ricorso a queste parole sono molto opinabili.
Pacemaker inizialmente era indicato in italiano con segnapassi, e faccio fatica a ravvisare la “complessità” della traduzione, riportata su tutti i dizionari anche oggi. Il fatto che si sia abbandonata in favore dell’anglicismo ha a che fare con altri fattori che non c’entrano nulla con la necessità di non tradurre.

Sauna non mi pare affatto un prestito di necessità, è una parola a tutti gli effetti integrata nella lingua italiana, che non viola le nostre regole di pronuncia e ortografia, e al plurale fa saune. È dunque un adattamento e il suo provenire dal finlandese è ormai racchiuso solo nella sua storia etimologica.
Taggare non mi sembra un prestito di necessità, è una parola ibrida derivata da tag che a sua volta è un’etichetta o un marcatore, e se non fossimo colonizzati dal linguaggio delle multinazionali informatiche che impongono la loro lingua invece che tradurre decentemente le interfacce, diremmo forse etichetta/etichettare e marca/marcare, come diremmo scaricare invece che downloadare, un altro bel prestito di “necessità” che deriva dal fatto che ripetiamo ciò che leggiamo: download. Facciamo il download delle immagini in allegato (e non in attachment), perché download non è stato tradotto, ma attachment sì. Li definirei “prestiti d’obbligo”, perché siamo indotti e obbligati a utilizzarli per forza di cose, e sono trapiantati nella nostra lingua dall’esterno, più che per nostra volontà. Forse la necessità è tutta qui.
Selfie e autoscatto sono tra gli esempi più controversi che ben illustrano l’impossibilità logica e l’inutilità pratica di distinguere i prestiti di lusso da quelli di necessità. Il motivo del contendere è nello stabilire se una parola esisteva già o meno, che è un’altra trappola senza via di uscita. Quando si cercano solo i significati storici è evidente che non si trovano esempi legati alle nuove tecnologie, ma si trascura un particolare fondamentale nelle lingue vive: le parole sono elastiche e si evolvono. Se l’autoscatto in un primo tempo era legato allo scatto automatico temporizzato, nulla vieta di usare questa parola in un nuovo senso, dove “auto” si può impiegare per indicare che lo faccio da solo (io mi autoriprendo) e non si capisce perché oggi non dovrebbe indicare le nuove modalità di farsi una fotografia da soli, soprattutto perché questo uso come sinonimo secondario è documentato sui giornali. Ecco un altro ginepraio da cui non si esce. Ammesso che autoscatto sia “di necessità” che cosa accade se una nuova parola italiana si evolve e diventa un equivalente? Se accanto a happy hour si diffonde l’alternativa apericena il prestito di necessità viene retrocesso a prestito di lusso?

Ma soprattutto: che senso ha dividere i prestiti negli insiemi di lusso e di necessità? A cosa serve impantanarsi in simili diatribe prive di utilità?

Il vicolo cieco tutto italiano del lusso e della necessità

In Italia, la classificazione attraverso le categorie dei prestiti di lusso e di necessità ha avuto la sua fortuna dagli anni Ottanta agli anni Duemila, anche se viene ripetuta anche oggi, fuori tempo massimo.

Provate a spiegare a un inglese che ci sono i “prestiti di necessità”… provate a leggere le voci della Wikipedia che parlano dei prestiti linguistici in spagnolo, in francese o in inglese. Nessuno distingue i prestiti attraverso queste bislacche categorie, una classificazione che è presente invece nella versione italiana. Ma persino sulla bistratta e inaffidabile Wikipedia, frutto di voci popolari di autori ignoti, si critica duramente questa distinzione che invece molti manuali scritti da blasonati linguisti italiani (e le tantissime tesi e tesine dei loro studenti) ripetono in modo talebano.

Mi sono chiesto più volte il perché di questo pasticciaccio italiano. E forse c’è una motivazione storica che ci ha indotti a infilarci in questo vicolo cieco. Dopo la messa al bando dei forestierismi di epoca purista e soprattutto fascista, avevamo bisogno di un nuovo criterio per non respingere in blocco tutte le parole straniere. La distinzione manichea tra lusso e necessità apriva una porta all’accoglimento e alla giustificazione di alcuni forestierismi. Non tutti, certo, ma la presunta necessità permetteva un certo aperturismo, per quanto patetico, che consentiva (almeno in modo astratto) di legittimare i buoni e i cattivi da scrivere sulla lavagna. L’opinabile giudizio di buon senso è così stato eletto a dogma.

Ma una volta individuati i prestiti di lusso che cosa si risolve? Il fatto che un prestito di lusso sia superfluo non ne giustifica l’inutilità, e ancora una volta tornano in mente le osservazioni di Paolo Zolli che poneva l’accento sul fatto che spesso la parola straniera contiene delle sfumature diverse rispetto a quella corrispondente in italiano (Paolo Zolli, Come nascono le parole italiane, Rizzoli, Milano 1989, p. 7).
D’altronde i sinonimi perfetti sono molto rari, e per qualsiasi parola è sempre possibile sostenere che “non è proprio” come l’alternativa possibile. Ancora una volta la distinzione tra lusso e necessità è un’opinione, non un fatto, anche se viene spacciata per tale.

Davanti a un’interferenza dell’inglese sempre più ampia e profonda, invece di rimanere invischiati in queste classificazioni, i linguisti dovrebbero prendere atto che la favola dei “prestiti linguistici” si sta rivelando una categoria concettuale fuorviante che non è più in grado di rendere conto della complessità delle cose. Basta provare ad applicare la teoria del “prestito” agli esempi reali per comprenderlo.

Trapianti, innesti linguistici e pseudoanglicismi

Torniamo alla radice della metafora del prestito, l’imitazione di elementi culturali, prima che linguistici. E chiediamoci: cosa stiamo prendendo in prestito, di preciso? Cosa stiamo imitando? Siamo sicuri che stiamo prendendo in prestito semplicemente delle singole parole che corrispondono a oggetti o a concetti?

Facciamo un altro paio di esempi controversi. Un caregiver è un assistente familiare, che letteralmente potrebbe esprimersi con badante. Ma poiché il participio presente del verbo badare (= colui che bada) ha assunto un significato legato a una professione (il che è un fatto accidentale, non una necessità), ecco che gli assistenti familiari e i “non-è-proposti” rivendicano l’anglicismo come un necessario elemento che distingue il loro ruolo da quello di chi lo fa per lavoro. Potrebbero anche rivendicare un nuovo significato per l’italiano badante, potrebbero definirsi assistenti familiari, ma non lo fanno e si trincerano dietro un’espressione in inglese.
Secondo esempio: la pretesa intraducibilità di mobbing che non sarebbe proprio come vessazioni (o comportamento vessatorio). Mentre ci si può accapigliare su ciò che parole come queste evocherebbero, per assegnare a ciascun anglicismo il bollino blu di lusso o di necessità, c’è un piccolo particolare che sfugge ai più. Sia caregiver sia mobbing in inglese non hanno affatto il significato che si sono ricavati in italiano. Sono pseudoanglcismi. E allora cosa stiamo prendendo in prestito? Un suono, non il suo significato, perché quest’ultimo glielo attribuiamo noi in modo arbitrario.


Nel nuovo Millennio parole come basket o volley stanno soppiantano l’italiano pallacanestro e pallavolo. Ancora una volta sono pseudoanglicismi, visto che in inglese si parla di basketball e volleyball, parole che non si possono decurtare. Dov’è il prestito? Ha senso classificarli come prestiti parziali o decurtati?
Gli pseudoanglicismi sono tantissimi. Qualcuno, per conservare la categoria del “prestito” invece di buttarla via come sarebbe ora, ha dovuto inventare etichette come “prestiti apparenti”. Ancora una volta sono solo imitazioni. Goffe o ridicole? Provinciali? Frutto di moda o di un complesso di inferiorità? Non importa. Footing è uno pseudoanglicismo antico che ci arriva dal francese, e nasce dall’applicare alla radice foot una desinenza -ing che segue le regole a orecchio dell’inglese, ma in inglese non esiste, o meglio ha tutt’altro significato, perché si parla di jogging. Più recentemente ci siamo inventati lo smart working, unendo due radici all’italiana, ma per un inglese si tratta di un’espressione incomprensibile rispetto al significato che le diamo noi.
In questi casi non prendiamo in prestito delle parole, ma delle radici o degli elementi che ricombiniamo a orecchio. Perché quel che conta è il suono, non l’oggetto o il concetto. E allora mi parrebbe più sensato cambiare metafora, e invece che parlare di prestiti dovremmo forse parlare di trapianti e di innesti, per attingere dalla biologia foriera di molte metafore linguistiche, a partire dal concetto di lingue vive.
A volte si trapiantano le parole, ma più spesso si trapiantano delle radici e si fanno innesti.
Come si spiegano le centinaia e centinaia di parole ibride a base inglese che si moltiplicano nella lingua italiana e che non hanno simili corrispondenti nel caso dei francesismi e degli altri forestierismi? Chattare, shampista, scoutismo, computerizzazione, baby-calciatore, zanzare killer, libro-game… che razza di prestiti sono queste parole bastarde che si scrivono e pronunciano in un modo che non è più italiano, ma non è nemmeno inglese? L’itangese ha ormai travalicato abbondantemente i limiti del prestito linguistico e sta prendendo vita.

L’itanglese non è fatto da semplici prestiti

Analizziamo qualche titolo di giornale. Adesso si parla del long covid, ma è davvero un prestito?

Sarei curioso di chiedere a qualche espertone se si tratta di un prestito di lusso o di necessità. È forse un concetto nuovo? Perché non dovremmo usare la nostra lingua e parlare semplicemente e naturalmente per esempio di covid lungo? Perché se tutti lo dicono in inglese la necessità è tutta qui. Certo, se l’inglese diventa la lingua della scienza poi accade che non solo si perda la terminologia in italiano – l’inglese si è rivelato un processo sottrattivo non aggiuntivo – e che si introducano i nuovi concetti in inglese e si ripetano in modo automatico (vedi la “necessità” di pacemaker) anche quando sarebbe naturale tradurli, nelle lingue sane. Ma a proposito di covid c’è qualcosa in più da rilevare: è diventato una specie di calamita che si porta con sé una regola istintiva e non scritta, quella di associarlo sempre e solo a parole inglesi con l’inversione della sua collocazione all’inglese. E dunque si parla di covid free, di covid center, di covid manager…, e in questi e molti altri casi non abbiamo più a che fare con prestiti lessicali isolati, ma con il prestito o trapianto di una grammatica formativa per le neologie (come lo pseudoanglicismono vaxche segue la regola del no + inglese: no mask, no global…). E così, visto che due terzi degli anglicismi che ci siamo fatti “prestare” sono costituiti da parole composte o locuzioni, spesso ognuno di due elementi formativi prende vita autonoma (smart, baby, cyber, food…) e si ricombina con altri elementi in circolazione (smart city, baby-gang, cybersecurity, pet food…) in una rete di anglicismi interconnessi che si espande nel nostro lessico a prescindere dal fatto che sia inglese ortodosso o reinventato e accostato a parole italiane (cybercriminale, babypensionato, salvaslip…).

Proviamo a vedere un altro titolo del Corriere: “Dal skimmer per la piscina allo shampoo per la barba”. Chissà se “dal skimmer” invece di “dallo skimmer” come vorrebbe la lingua italiana è solo un refuso o il segnale di uno sfacelo linguistico su cui l’inglese e lo pseudoinglese che innestiamo trova il terreno più fertile per germogliare.
Quando ero ragazzo ho fatto il bagnino in una piscina e tra le mansioni più noiose c’era quella di pulire i filtri a bordo-vasca. Oggi sembra che Amazon li venda chiamandoli skimmer. Letteralmente si può dire anche schiumatoio, deschiumatore o più in generale depuratore, ma alle multinazionali che esportano i loro prodotti nella loro lingua non conviene affatto tradurre in italiano, la tendenza è quella di imporre la loro lingua, dai titoli dei film alle confezioni del Monopoly, oggi scritto con la ipsilon finale. A dare manforte alla colonizzazione linguistica ci pensano i giornalisti che abbandonano l’italiano e ripetono gli anglicismi (skimmer ha anche altri significati legati al crimine informatico). Sono prestiti questi? Skimmer sarà un lusso o una necessità? Opterei per un lusso che diventa necessità quando si compila l’ordine di acquisto.


Quando Sky, all’interno dell’offerta del Pass Entertainement, offre gratuitamente anche il Pass Kids (declinato al plurale con la “s”) abbiamo a che fare con dei prestiti?

A me paiono trapianti dove la lingua non è fatta più dai nativi italiani ma dalle multinazionali che ci vendono i loro prodotti con i loro nomi, seguendo le proprie “necessità” commerciali davanti alle quali a noi sudditi non resta che ripetere ciò che leggiamo sulle scatole. Questi esempi travalicano le singole parole per diventare prestiti di pezzi di inglese ben più complessi, dal long covid alle mansioni lavorative di un social media manager, “prestiti sintattici” dal costrutto invertito.

In un altro titolo vediamo che chiudono le strutture sanitarie che avevano nomi italiani come il Galeazzi e apre Mind. Si tratta forse di un prestito? A me pare solo l’abbandono dell’italiano per aderire alla lingua delle multinazionali che viene perpetrato anche dalle nostre stesse istituzioni. E così c’è il politico che introduce il Jobs act, ci sono i servizi Delivery delle Poste Italiane, i Gate delle stazioni, Rai Gulp che propone il TG Kids, mentre Alitalia diventa ITA Airways, a Milano il Salone del mobile diventa la Fashion Week, il quartiere della ex Fiera campionaria diventa Citylife… e vogliamo spiegare tutto questo con le categorie dei prestiti?

E che dire della business school Rcs Academy e del suo master con il “metodo Corriere”? Nel pacchetto metodologico c’è anche imparare a scrivere in itanglese, suppongo, per educare all’abbandono dell’italiano e far diventare un incrocio pericoloso un incrocio killer da inserire nei black points da scrivere con la “s” del plurale!


Chissà, quando il Politecnico di Milano ha deciso di erogare la formazione universitaria solamente in lingua inglese, estromettendo l’italiano, forse era solo un banale prestito linguistico “totale”, dove a essere presa in prestito è la lingua inglese nella sua interezza. E sarà un lusso o una necessità per fare dell’ateneo un polo internazionale?

Credo che possa bastare. L’itanglese non si può spiegare con la favola dei prestiti. E quando certi linguisti, davanti all’attuale tsunami anglicus, pensano di interpretare l’interferenza dell’inglese con la tassonomia dei prestiti linguistici e delle categorie del lusso e della necessità che Tappolet ha immaginato ormai ben più di un secolo fa, mi ritorna alla mente il ritornello di una canzone di Jannacci rivisitata con un gioco di parole alla Bartezzaghi:

Lessico e nuvole
la faccia triste dell’America…
che voglia di piangere ho!

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]