Le parole del 2020: è anglodemia!

Nell’individuare le parole che si sono imposte in questo sciagurato 2020 è inutile dire che la maggior parte sono legate alle vicende della pandemia. Ed è altrettanto inutile sottolineare che la maggior parte ci arrivano dall’inglese, a cominciare da coronavirus e covid.

La più antica attestazione di coronavirus è nella lingua inglese, risale al 1968 (registrata anche dall’Oxford dictionary) ed è un composto dal latino con l’inversione del determinante corona all’inglese, come hanno ricostruito Salvatore Sgroi e Claudio Marazzini.
All’epoca non riguardava gli uomini, era un virus caratterizzato dalla struttura a corona (virus a corona potremmo dire più chiaramente in italiano, ma a nessuno viene in mente) individuato in alcune specie animali. Poi ha fatto il salto di specie, che nel 2020 si è detto soprattutto in inglese, spillover che infatti è stato inserito tra i neologismi del Devoto Oli 2021 appena uscito. Anche la struttura della corona che è fatta di spuntoni si esprime in inglese, e tra gli addetti si parla senza alternative di spike.
In italiano avremmo spinula che in ambito scientifico e biologico indica appunto una formazione anatomica o patologica a forma di spina. Ho domandato all’immunologa Maria Luisa Villa (corrispondente della Crusca) se fosse una traduzione corretta, proponendo di usarla. Mi ha risposto che la trovava ottima e ha subito scritto al virologo Fabrizio Pregliasco per sapere che ne pensasse, visto che nessuno l’aveva mai impiegata. È piaciuta anche a lui… ma qualcuno ha mai sentito parlare di proteina a spinula? Gli scienziati nemmeno si pongono il problema (con l’eccezione di Villa e pochi altri), importano dall’inglese e basta. Ma anche i divulgatori preferiscono riempirsi la bocca di spike protein.


Anche covid è una sigla che ci viene dall’inglese, è la denominazione ufficiale che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’11 febbraio 2020, ha attribuito alla malattia causata dal virus a corona, più precisamente COVID-19: COronaVIrus Disease 19, dove 19 indica l’anno di identificazione del virus. Questa parola si sta attestando soprattutto al maschile, perché confusa con il virus che la causa, ma lo stesso è accaduto per l’aids, che sarebbe una Sindorme da ImmunoDeficienza Acquisita che noi diciamo all’inglese, ma nelle lingue romanze si chiama di solito Sida secondo l’ordine naturale delle parole nelle rispettive lingue (noi no!); comunque ci sono altre malattie maschili, dal morbillo al vaiolo, e non mi pare un problema. Il problema è semmai che covid si porta poi con sé varie locuzioni anglicizzate, dai covid hospital ai covid pass di cui si è discusso quest’anno per indicare una sorta di patente di immunità, dai covid manager ai luoghi covid free (gli anglicismi non sono mai isolati, sono prolifici).

Coronavirus e covid sono il risultato dell’interferenza dell’inglese internazionale, ma non costituiscono un danno per la lingua italiana perché – anche se terminano per consonante – non violano le regole della nostra pronuncia e scrittura, dunque sono inglesi soltanto nella loro etimologia. A meno che non si dica “coronavàirus” come qualcuno ha fatto (e non solo Di Maio) per sentirsi più americano, ma l’effetto alla Nando Moriconi (interpretato da Alberto Sordi in Un americano a Roma, Steno 1954) è stato disincentivante.

Anche il distanziamento sociale è un calco dell’inglese di nuova coniazione, ma magari traducessimo o italianizzassimo più spesso! Purtroppo lo facciamo sempre meno (in meno del 30% dei casi stando al Gradit 2006), come nel caso di lockdown, la parola dell’anno secondo il dizionario Collins, che è un po’ il simbolo dell’anglodemia che caratterizza la lingua italiana. Da noi è arrivato sui giornali e in tv esattamente il 17 marzo 2020, prima parlavamo di blocco, isolamento, serrata, blindare, zona rossa, chiusura… Poi, siccome i giornali inglesi hanno chiamato tutto ciò italian lockdown, ecco che lo abbiamo importato bello, nuovo e crudo. Il 17 marzo scrivevo: “Vuoi vedere che questa parola oggi in prima pagina sul Corriere digitale diventerà «la» parola che useremo nel futuro al posto di isolamento, blocco, quarantena?
Non mi ero sbagliato.

Tra gli altri neologismi inglesi più eclatanti legati alla pandemia ci sono droplet al posto di goccioline, wet market per indicare i mercati degli animali vivi come quello di Wuhan, si è cominciato a parlare di recovery fund, recovery plan e adesso anche di recovery next generation invece di piano o fondo per la ripresa o per le nuove generazioni; di drive in test o drive through per indicare molto più semplicemente i tamponi in macchina; si è imposto il contact tracing che sarebbe solo un tracciamento dei contatti (e che si affianca al tracking che già usavamo per esempio per il tracciamento dei pacchi postali), è esploso il preesistente smart working per designare il lavoro agile, da casa o a distanza, si è parlato di coronabond, termoscanner, e jogging ha avuto avere la meglio su runner e sulle corsette; il governo ha introdotto il cashback e diffonde il cashless, il click day che fa il paio con il family day e una serie sempre più alta di day, il cui ultimo della serie è il futuro v-day, il giorno in cui inizieranno i vaccini (il giorno del vaccino è troppo italiano).

Tra gli anglicismi meno stabili ci sono stati quelli come staycation, cioè il turismo di prossimità o le vacanze a casa e deliri tipicamente italioti come il south working che non sembra destinato a prendere piede.
Altri anglicismi come cluster si sono radicati con il nuovo significato di focolaio, mentre i centri ospedalieri sono diventati hub (“Il Sacco di Milano è ormai l’hub di riferimento della Lombardia per il coronavirus”). Ai no vax si sono aggiunti i no mask (la mascherina si mette quotidianamente, ma quando diventa una categoria alta nella gerarchia delle parole si esprime in inglese) e nella follia in cui si dice no + qualunque-cosa-suoni-inglese si parla anche dei no dad, che non sono gli orfani di padre ma i contrari alla didattica a distanza.

Molte parole inglesi che già c’erano si sono radicate, e la loro frequenza è salita, per esempio app (che però potrebbe essere l’abbreviazione di applicazione e dunque è una parola di fatto italiana, nonostante il suo etimo), trend, task force, screening che si porta con sé l’entrata nella lingua italiana di screenare in modo sempre più ufficiale; e poi voucher (“Coronavirus. Congedi parentali, legge 104 e voucher baby sitter” laRepubblica.it, 20/3/20; “Soggiorno annullato per coronavirus? Si ha diritto a voucher o rimborsi”, IlSole24ore, 22/3/20) e molte altre.

Non male come media! Tra neologismi inglesi e il radicamento degli anglicismi esistenti, il 2020 (come negli ultimi trent’anni del resto) registra il trionfo dell’itanglese e si dovrebbe parlare di anglodemia, che si appoggia bene alla pandemia (una delle parole più gettonate) e all’infodemia (information + epidemic), un neologismo fresco fresco per indicare l’esplodere incontrollato delle informazioni spesso poco attendibili, diffuso dall’Oms ai primi di febbraio.

L’anglodemia è appunto l’esplodere incontrollato dell’inglese, spesso poco attendibile perché fatto molte volte di pseudoanglicismi o di parole inglesi che diciamo solo noi, non sono “internazionalismi”, e non ricorrono affatto in Francia o in Spagna, per esempio.
E a proposito di altri Paesi dovremmo chiederci cosa è arrivato nel 2020, fuori dall’inglese.
Triage e plateau si sono usati molto, ma attenzione: sono francesismi solo nella forma, in realtà li usiamo perché li abbiamo importati dall’inglese, visto che sono in uso anche lì. Poi si è registrata l’impennata della movida mutuata dallo spagnolo, che era in auge negli anni Novanta ed è tornata di moda. Per il resto l’italiano si conferma una lingua colonizzata dal solo inglese.


“Chi dice forestierismo oggi dice anglicismo”, ha scritto Luca Serianni (Le parole dell’italiano. Il lessico, Rcs, 2019, p. 65) e nel Devoto Oli 2021 a parte l’inglese (tra le parole non inerenti al covid ci sono anche deepfake, cisgender, fooding…) non c’è molto di eclatante. Se non qualche nipponismo e qualcosa di gastronomico (dorayaki e ramen piatti tipici giapponesi o poke, un piatto hawaiano).

“Per le parole italiane, o ascrivibili all’italiano, spicca un dato: non c’è nessuna parola primitiva, del genere di naso, traccia, vigogna” ha notato Luca Serianni (ivi, p.53) riferendosi ai neologismi. Il che significa che le parole italiane nuove sono quasi solo composti o derivati.
Tra i composti più divertenti del 2020 c’è per esempio covidiota, oppure c’è l’emergere di paucisintomatico che già esisteva ma è diventato popolare, e tra le nuove entrate del Devoto Oli 2021 c’è autoquarantena o biocontenimento, mentre tra i derivati nasce quarantenare, e poi climaticida, denatalista, immigrazionismo, parlamentizzare ma nulla di significativo, né di paragonabile alla portata delle parole inglesi.
C’è qualcosa che arriva dal gergale come sbriluccicare, ci sono molte sigle nuove o divenute popolari come dad (didattica a distanza), fad (formazione a distanza), mes (meccanismo europeo di stabilità), dpcm, spid, dpi cioè dispositivi di protezione individuale che qualcuno pronuncia “di-pi-ài” nella follia anglomane che ci acceca. E poi c’è qualche neosemia, cioè l’emergere di nuovi significati di parole preesistenti, come tamponare che non significa più solo arginare qualcosa o sbattere contro l’auto davanti, ma diventa anche il far tamponi.

Le altre parole italiane che nel 2020 si sono usate più spesso non sono nuove. C’è negazionista che allarga un po’ il suo significato alla situazione pandemica, si conferma la popolarità di sovranista, si parla di ristori nel senso di rimborsi, di congiunti per indicare i familiari stretti, e poi dominano assembramento, igienizzare e sanificare, autocertificazione, quarantena, mascherina… tutta roba vecchia.

La lingua italiana pare morta, non produce nulla di endogeno che spicca.

Se guardiamo le 10 parole più cliccate del 2020 in Italia su GoogleTrends colpisce che a parte coronavirus (ed esclusi personaggi o eventi) ci siano Classroom, Meet e Weschool. Si tratta di tre piattaforme utili per la didattica a distanza, ma l’ultima ha un nome in inglese anche se è un’impresa italiana fondata nel 2016 da Marco De Rossi e si usa nella scuola pubblica di Stato!

Andate sul sito del Ministero dell’istruzione e leggete quali sono le principali funzionalità che offre questo sistema. Si chiamano: WallBoard – TestRegistroAula virtualeChat.
Su 6, 4 sono in inglese e solo 2 in italiano.
E ciò che nel 2020 è accaduto alla nostra lingua è coerente con questo dato. L’italiano muore e l’itanglese cresce.

Buone feste a tutti.

PS
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Basta merry ChristmasHappy New Year
Buon Natale, buone feste e un 2021 migliore per tutti.