Anglomania compulsiva: dai singoli “prestiti” alle regole dell’itanglese

Di Antonio Zoppetti

Mettiti comodo. Inspira profondamente. Adesso espira e rilassati… anzi relax!
E ora ripeti: no panic! No problem! No smoking! No comment, no global, no mask, no vax, no limits! Non c’è limite a queste espressioni.
Prendi fiato nuovamente e continua: no logo, no tax, no tax area, no fly zone, no fly list, no oil, no pain no gain, no show, no contest
No… Non si tratta di un metodo per imparare l’itanglese con l’ipnosi, è quello che accade quotidianamente con la sovraesposizione agli anglicismi da cui siamo bombardati nella panspermia del “virus anglicus”.

In questo modo siamo indotti a introiettare una regola, quasi senza accorgerci, e a far diventare questa combinazione di “no + qualsiasi cosa in inglese” una sorta di grammatica generativa “no italian” che ci permette di inventare i nostri pseudoanglicismi anche personalizzabili, anzi customizzabili, con la stessa logica di quel bambino che ha partorito un ormai celebre “petaloso” probabilmente derivato dal martellamento del linguaggio delle pubblicità e dal biscotto “inzupposo” del Mulino Bianco.

Era il 1980 quando Jane Fonda e le sue due colleghe vessate dal maschilismo del loro capoufficio erano inseguite dalla polizia, e nel baule della macchina avevano un cadavere. Nella scena del film Dalle 9 alle 5 orario continuato, per ben tre volte la protagonista gridava alle altre: “No al panico”, una scelta di doppiaggio insolita rispetto al più consueto “niente panico”.
Oggi l’espressione “no al panico” restituisce su Google circa 67.200 risultati, contro i 227.000 di “no panico”, e i 1.510.000 di “no panic” (la variante più italiana “niente panico” ne conta 319.000). La preposizione “al” è in declino per interferenza dell’itanglese, più che dell’inglese dove circola don’t panic, e ha portato a far diventare “no panic” persino un’icona grafica declinata in ogni modo.

Mario Draghi, Luca Zaia e Nando Mericoni

Perché mai dovremmo dirlo all’inglese?
Se lo è chiesto venerdì scorso Mario Draghi, con un atteggiamento inaudito nella nostra politica recente, quando ha interrotto ironicamente la lettura di un comunicato che gli avevano scritto con le parole smartworking e babysitting.
La risposta sta nella nostra alberto-sordità: ci sentiamo più belli, invece che ridicoli come Nando Mericoni interpretato da Alberto Sordi. Ma questo complesso di inferiorità si nutre di una sovraesposizione all’angloamericano sempre più dilagante che ci abitua e ci colonizza la mente in modo subliminale. Il numero e la frequenza degli inglesismi è tale che hanno fatto il salto, i “prestiti” lessicali sono ormai i trapianti linguistici che germogliano e stanno creando i primi abbozzi di una lingua creola, dove emergono delle nuove regole formative.

Se c’è il doping, il dribbling, lo shopping, il brainstorming, il body building, il bird watching, il baby sitting, il meeting… poi è normale l’accettazione della regola dell’ing (di inglese) per cui una prenotazione è booking, il cucinare cooking, la messa in piega brushing, il tirare fuori e l’esternare outing, la formazione a distanza e-learning… In questo modo si arriva alla creazione di pseudoanglicismi come il footing (dalla radice foot, diffuso anche in Francia), affiancato dai più ortodossi jogging e running, o il dressing per indicare il vestire (da to dress, ma in inglese dressing è un condimento per l’insalata, e per l’abbigliamento si parla di clothing).

E allora il presidente del Veneto Luca Zaia ha parlato dei caregiver, cioè i badanti o gli assistenti familiari, convinto che fossero gli autisti dei disabili; car evoca automobile e giver ricorda forse i guidatori sul modello di taxi driver. Certi lapsus sono freudiani. È in questo modo che l’interferenza dell’inglese agisce, e gli anglicismi si moltiplicano.

Classificare le espressioni inglesi una per una e chiamarle “prestiti”, come fanno i linguisti, significa isolarle dal loro contesto, e non essere in grado di comprendere ciò che sta accadendo. Il Morbus Anglicus non consiste più nell’importare singoli prestiti di “lusso” o di “necessità”, è una patologia psichica e sociale che porta alla coazione a ripetere, l’anglomania è diventata una nevrosi compulsiva.

Le espressioni inglesi vanno inquadrate e spiegate nelle loro relazioni.
Se le multinazionali del farmaco sono chiamate Big Pharma, poi accade che le piccole e medie e imprese del farmaco diventino le Small Pharma. Tutto questo ha una ripercussione anche sull’abuso delle maiuscole a inizio parola, che sono ormai diventate la norma per certe citazioni dall’inglese, per essere più fedeli all’originale, in una tendenza che sta facendo aumentare questo vezzo anche per molte espressioni italiane, alla faccia delle norme editoriali e della tendenza all’abbandono delle maiuscole reverenziali un tempo molto più diffuse.

Dal Corriere.it del 9/3/21

Work, working, worker(s) e key worker

La regola formativa delle desinenze in “ing” si affianca poi a quella delle desinenze in “er”.
Se c’è il working e il co-working ci sono poi i worker e i co-worker, come ci sono i rocker e i rapper (non i rocchetari e i rappatori), i blogger (non i bloggatori), i rider, i bomber (pseudoanglicismo calcistico) e gli stopper

Coach/coaching/coacher,
surf/surfing/surfer,
run/running/runner
questi non sono prestiti lessicali isolati! Il numero di queste parole è tale da trasformarsi in una regola per la formazione delle parole come in inglese!

Poco tempo fa mi hanno segnalato un articolo su OggiScuola che ripete sin dal titolo in maniera ossessiva “key worker” come fosse una normale espressione italiana comprensibile a tutti. In questo modo la si diffonde facendo sentire inadeguato e ignorante il lettore, che si colonizza all’itanglese: si dice così! Come? Non lo sai? Adesso te l’ho insegnato. Va e ripeti. Crescete e moltiplicatevi.
Con queste tecniche si controlla maggiormente il destinatario, invece di usare un linguaggio adatto a lui come nelle buone vecchie prassi del giornalismo. La comunicazione comprensibile e trasparente è stata sostituita dalla newlingua orwelliana. Il linguaggio è uno strumento di controllo e predispone il lettore attraverso i paroloni e l’inglesorum (il nuovo latinorum degli azzeccagarbugli) a uno stato psicologico di inferiorità che è funzionale a trasformare ogni suo eventuale “non sono d’accordo” con un: “No, ti sbagli, è solo che non hai capito”.

La spiegazione di cosa siano i key worker arriva solo alla fine, con strategia acchiappona che costringe a leggere l’articolo sino all’ultima riga: sono solo “le categorie di lavoratori le cui prestazioni siano ritenute indispensabili per la garanzia dei bisogni essenziali della popolazione”. Ma il lettore ci deve arrivare da solo combinando le radici che sono già diffuse. Non ci sono i lavoratori indispensabili, necessari, strategici, le figure chiave del lavoro, le mansioni perno… c’è una lunga spiegazione che fa sembrare l’anglicismo comodo e necessario, come se non avessimo equivalenti. L’italiano non esiste più, evidentemente è solo un modo patetico di esprimere un concetto nella nostra lingua obsoleta. Se una parola chiave è keyword (da digitare sulla tastiera-keyboard), i concetti chiave sono key, e i sistemi delle chiavi intelligenti sono venduti come keyless (che si appoggia a contactless, ticketless… e in generale all’italian-less).
Sull’altro versante, se il lavoro è work (work in progress, e-work, smart work e smart working, dove in inglese c’è ormai il lavoro e anche il lavorare), è chiaro che i lavoratori diventino worker ed e-worker – almeno fino a quando non verrà sdoganata la “s” del plurale che si trova sempre più di frequente (smart workers) – visto che le mansioni si esprimono sempre più spesso solo in inglese, e tra navigator e train manager, nascono così i sindacati dei rider(s) o dei pet sitter.

Dal Corriere.it del 16/2/21

L’aziendalese è ormai diventato itanglese e dunque nell’epoca delle riforme del lavoro chiamate jobs act (più digeribile di “abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori”), i vecchi centri per l’impiego si ribattezzano con job center, senza una reale ristrutturazione, mentre i lavoretti sfigati di precari che rappresentano i nuovi poveri sempre più dilaganti sono dei graziosi minijob, su cui si basa la gig economy, edulcorazione di economia selvaggia dello sfruttamento senza diritti. Il vezzo di esprimere l’economia in inglese ha avuto inizio alla fine degli anni Novanta con la bolla speculativa chiamata new economy. Ma allora come chiamare l’economia normale? Semplice: old economy. E in che altro modo, se no? E se ciò che è ecologico diventa green, l’economia verde diventa green economy, che si abbina molto bene anche alla blue economy, un accostamento per tutte le stagioni, dove anche i colori come il blu (adattamento del francese bleu) si anglicizzano sul red carpet della moda e tra total black e total white si procede verso tutte le sfumature di gray.

La grammatica dell’itanglese

Qui a essere prese in prestito non sono più le singole parole, ma sequenze logico-lessicali di ben altra portata, che possiedono le loro radici; vengono trapiantate porzioni di dna linguistico, che si innestano e moltiplicano come la gramigna in una versione transgenica e si ibridano con il nostro vocabolario storico tra parole e locuzioni realmente importate dall’inglese e quelle che prendono vita in modo autonomo, per le diverse forme o per i diversi significati rispetto all’originale.

Nella scorsa puntata di Piazza Pulita (condotta da Corrado Formigli su La7) un giornalista ha fatto un servizio su quello che si potrebbe definire “il dramma delle fake mask”, così ha detto, cioè vendute come certificate anche se non lo sono affatto. Queste mascherine non omologate, cioè false, contraffatte, taroccate sono state introdotte con un concetto in inglese. C’est plus facilesorry… è più easy! E non è il primo giornalista ad avere usato questa espressione, in una tendenza a usare i concetti-chiave in inglese, porli al vertice di una gerarchia linguistica e farli diventare una categoria, mentre all’italiano – lingua di rango inferiore – si ricorre solo all’interno degli articoli.

Dopo i fake e le fake news, vuoi vedere che presto nascerà la regola di fake + qualunque cosa in inglese?
I falsi positivi dei tamponi potremmo definirli fake positive, i falsi invalidi potrebbero diventare fake disabled(s), i soldi falsi fake cash, visto il successo di cash, del cashback istituzionale e del cashless, in una distruzione dell’italiano sempre più sistematica che ci sta portando verso il fake italian mescolato al fake english.

Questi “prestiti” dall’angloamericano non si riescono più a restituire, e soprattutto non sono come quelli che provengono dalle altre lingue: non sono statici, portano a un’ibridazione virale, si allargano nel nostro lessico e sono destinati a soffocarlo e a prendere il sopravvento.

Siamo appena agli inizi d’un processo di scadimento e frantumazione della lingua: solo crepe nei muri e qualche pavimento sconnesso. Ma bisogna intervenire, e bisogna farlo sia individualmente, sia nella scuola, sia attraverso i mezzi d’informazione e gli organi ufficiali”, scriveva nel 1987 Arrigo Castellani nel suo “Morbus Anglicus” (p. 153).

Purtroppo, da allora, gli interventi della scuola, dei mezzi di informazione e delle istituzioni sono andati nella direzione contraria, tutti hanno scelto di passare all’itanglese, invece di tutelare l’italiano. E il processo di frantumazione – il restyling della nostra lingua – ha oggi una dimensione tale per cui in molti ambiti le pareti sono crollate e nei prossimi decenni crolleranno anche i muri portanti e i soffitti. L’itanglese è ormai una lingua, e sta sviluppando le sue prime regole.

La parole di Draghi sono arrivate in modo inaspettato e sono importanti. La speranza è che non siano uno sprazzo, ma un segnale di cambiamento prossimo venturo.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

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