L’imposizione manipolatoria dell’inglese nella comunicazione pubblica

Di Antonio Zoppetti

Durante l’Occupazione, mille parole tedesche sono spuntate sui muri di Parigi e di altre città francesi. È iniziato qui il mio orrore per le lingue dominanti e l’amore per quelle che si volevano eradicare. Visto che oggi, in quegli stessi luoghi, conto più parole americane che non parole destinate ai nazisti all’epoca, cerco di difendere la lingua francese, che ormai è quella dei poveri e degli assoggettati. E constato che, di padre in figlio, i collaborazionisti di questa importazione si reclutano nella stessa classe, la cosiddetta élite.
(Michel Serres, Contro i bei tempi andati, Bollati Boringhieri, 2018).

Ogni volta che prendo un Frecciarossa vengo travolto da nuovi anglicismi imposti agli utenti in modo voluto e prepotente. I clienti, che un tempo per definizione avevano sempre ragione, si sono trasformati in utenti da manipolare; e la prima regola della comunicazione trasparente, che una volta presupponeva l’adozione di un linguaggio adatto e comprensibile per il destinatario, è stata sostituita dalle nuove prassi che impongono a tutti la lingua decisa dagli strateghi della comunicazione con il risultato che è il destinatario che deve per forza di cose assoggettarsi alla terminologia decisa dal mittente.

La lingua è potere. Attraverso le parole si può controllare il destinatario, intimidirlo, trasformare chi non è d’accordo in chi non ha capito, e soprattutto educarlo. La lingua della comunicazione pubblica, cittadina e istituzionale ci martella a suon di anglicismi in modo sistematico e ben preordinato. E la sensazione è davvero quella di vivere in un Paese occupato.

Cronaca di un viaggio nell’itanglese

Alle 9 esco di casa per raggiungere la stazione. Passo davanti all’insegna di un Italian Bakery aperto non da molto accanto all’Italian Hair Line. Si tratta banalmente di un fornaio e di un parrucchiere in un’area semiperiferica o semicentrale (dipende dai punti di vista) di Milano, in un quartiere popolare dove non ci sono turisti. Queste attività commerciali che si elevano attraverso l’inglese magari con il pretesto di voler essere internazionali hanno come clientela gli italiani che scendono nel negozio sotto casa, o se sono di passaggio sono attirati dalle pizzette nelle vetrine, ma dubito che mediamente sappiano cosa significhi “bakery”.

Alle 9 e 15 sono in metropolitana. A quell’ora l’affluenza è media, c’è persino qualche posto a sedere. Mi guardo intorno. Ci sono studenti, gente comune, e una buona fetta di “stranieri” di varia provenienza. Cinesi, ispanici, altri che parlano in qualche lingua che non identifico, e che dall’aspetto potrebbero essere arabi, rumeni, slavi… ma non vedo inglesi o americani. Eppure la comunicazione è bilingue a base inglese, nella cartellonistica e soprattutto negli annunci sonori. A ogni fermata l’inglese ti penetra come un mantra: prossima fermata Loreto, next stop Loreto
La porta della carrozza è interamente coperta da una pubblicità con scritte in inglese e, in piccolo, un motto italiano che specifica di cosa si stia parlando, ma anche la logica degli altri pannelli pubblicitari segue quasi sempre lo stesso andazzo.

Alle 9 e 30 attraverso il “gate” della stazione (a Milano non ci sono le porte, solo i gate), mi dirigo verso il mio binario e mi sento sollevato perché penso a come è bello che ci sia ancora il “binario”, anche se mi assale l’angoscia che la prossima volta a qualcuno sarà venuto in mente di chiamarlo tracks o alla peggio binary, perché binario è un po’ troppo italiano. Su Italo hanno già sostituito ufficialmente il “capotreno” con il train manager, nella comunicazione ai passeggeri e anche nei contratti di lavoro.
Intanto devo preoccuparmi di fare il “Self Check In” del mio “ticketless”, perché le Ferrovie hanno deciso che la “convalida” “del “biglietto digitale” si debba chiamare in inglese. È la globalizzazione bellezza! È la nuova terminologia imposta alla gente, e se qualcuno si perde e non capisce, il personale gli spiega tutto nella terminologia che hanno deciso gli strateghi della “comunication”. Cartellonistica e annunci sono solo in italiano e inglese. Il mantra dell’inglese sonoro, come nella metropolitana, ritorna ad anglificare la mente e il cuore dei passeggeri. Un tempo c’erano i corsi di lingua da apprendere durante il sonno, adesso lo si può fare anche nel dormiveglia in treno, il corso d’inglese è compreso nel prezzo del biglietto. Il plurilinguismo non esiste, è stato cancellato.
Guardo i nuovi schermi informativi in italiano-itanglese o inglese, e ripenso ai vecchi cartellini che invitavano a non sporgersi dai finestrini, a non gettare oggetti e a non fumare in quattro lingue: italiano, inglese, francese e tedesco. Oggi le altre lingue sono state buttate via. Che gli stranieri imparino l’inglese, e se no, si arrangino. L’inglese è la nuova lingua da imporre. Punto. Lo si fa nella sua interezza come lingua “internazionale” della comunicazione cittadina e ferroviaria, e attraverso gli anglicismi che vengono introdotti in italiano al posto delle nostre parole storiche.

Un annuncio spiega che per ogni reclamo è possibile usare il “webform” sul sito Trenitalia oppure il modulo cartaceo. “Webform” è il nuovo anglicismo introdotto, o forse sono io che non l’avevo mai sentito declamare prima, comunque sia fa parte ormai della terminologia ufficiale della colonia Italia. Mi domando perché un modulo digitale sia indicato come webform mentre se la stessa cosa è cartacea diventa “modulo”. La risposta è che tutto ciò che è nuovo o riguarda l’informatica viene riproposto in inglese: “webform” è ripetuto anche nella traduzione in inglese, e arriva da lì. Gli strateghi hanno pensato bene di introdurlo invece di tradurlo.

Due ore dopo il treno è in forte ritardo. Capisco che ho ormai perso la coincidenza che da Mestre mi dovrebbe portare a Pordenone. La gente è spazientita. Arriva l’annuncio ufficiale e rimango incredulo di fronte a quelle parole, soprattutto quando vengo informato anche attraverso un messaggino:

“A causa di un guasto … il tempo di viaggio del treno Frecciarossa XXX è superiore di circa 30 minuti rispetto al programmato … Distinti saluti, Customer care…”

Nulla è lasciato al caso. Gli strateghi della comunicazione devono aver pensato di eliminare la parola “ritardo” che probabilmente suscita “vibrazioni negative” per l’azienda (e incentivano la richiesta dei rimborsi), dunque preferiscono usare la locuzione manipolatoria “il tempo di viaggio è superiore di 30 minuti”. Nove parole contro una: ri-tar-do. In compenso non si firmano Assistenza clienti, ma Customer Care, e in questo modo la presa per il culo del passeggero è conclusa. Gli strateghi della comunicazione – gli stessi che magari sono pronti a spiegarci che il ricorso all’inglese è motivato anche al fatto che gli anglicismi sono più sintetici rispetto all’italiano – hanno le idee chiare: la sinteticità è un valore solo per giustificare gli anglicismi, ma se si deve occultare il ritardo qualunque cosa va bene.

La lingua è un fiume che va dove vuole?

Qualche ora dopo sono finalmente al mio dibattito su dove sta andando la lingua italiana. Il mio interlocutore è un convinto seguace del “liberismo” linguistico, sostiene che la lingua è un fiume che va dove vuole, non è possibile controllarla.

Chiedo: ma “la lingua è un fiume che va dove vuole chi?”. La gente e il popolo? Mi pare che vada dove vuole chi è nelle condizioni di imporla al popolino a cui non resta che ripetere self check in e gli altri 4000 anglicismi che ci arrivano prevalentemente dall’alto, dall’espansione delle multinazionali e della loro lingua, dalla nuova cultura coloniale dove sembra esserci solo l’inglese e dai collaborazionisti dell’inglese che si annidano proprio nelle élite. Il punto è che l’acqua “va dove vuole” nella natura selvaggia, altrimenti viene incanalata per farla scorrere sotto i ponti delle città, nei sistemi di irrigazione, mentre si costruiscono gli argini proprio per orientarne i flussi, e quando le acque tracimano è perché è mancata la manutenzione, sono stati trascurati o fatti male.

L’idea che orientare la lingua sia un’imposizione autoritaria è tipica italiana, perché prevale lo stereotipo che l’unico modello di politica linguistica a cui guardare sia quello del fascismo. Mi viene fatto notare che anche se da un punto di vista razionale una parola come “covid” che indica una malattia, e non un virus (il coronavirus), dovrebbe essere femminile, e nonostante inizialmente l’allora presidente della Crusca avesse consigliato di usare il genere più appropriato, nell’uso si è imposto il maschile. Questa non è però la prova dell’ingovernabilità della lingua, ma del fatto che da noi mancano delle istituzioni che la regolamentino in modo ufficiale. Infatti anche in Francia si è posta la questione, e il giorno dopo che l’Accademia francese ha spiegato la correttezza del femminile, tutti si sono adeguati e hanno scritto così, non perché l’accademia sia un organo che obbliga la gente a parlare in un certo modo, tutto il contrario: la gente – e i giornali – riconoscono questo ruolo di consulenza che accettano e seguono, contenti che esistano delle prescrizioni e delle uniformazioni su cui modellarsi. Da noi questo ruolo appartiene ai mezzi di informazione che si muovono in modo caotico, istintivo e spesso pasticciato (oltre a preferire l’inglese). C’è insomma una bella differenza tra autoritarismo e autorevolezza, tra imposizione forzata e spontaneo riconoscimento di un punto di riferimento normativo necessario per conservare l’integrità e l’identità linguistica.

E allora è più sensato seguire l’autorevolezza di un’accademia o lasciare che la lingua la facciano i giornali o le ferrovie? Se questi ultimi introducono l’inglese al posto dell’italiano non è anche questa un’imposizione?

Mentre nell’italietta provinciale pensiamo che lo tsunami anglicus sia inarginabile, all’estero gli argini si costruiscono e funzionano, magari non sempre, ma complessivamente l’anglicizzazione del francese o dello spagnolo non è certo paragonabile alla nostra. Il liberismo linguistico, che io chiamo invece anarchismo metodologico, presuppone che sulla lingua non si debba intervenire, il che è una presa di posizione politica (più che linguistica) comprensibile ma anche discutibile. Per giustificarla si dice che tanto non è possibile imporre alla gente come parlare. Ma basta prendere un Frecciarossa per constatare che non è affatto così. La verità è che la lingua è un meccanismo di imitazione per cui la gente segue i modelli che arrivano dai centri di irradiazione linguistici, e questi ci stanno presentando un ben preciso modello di newlingua che di liberale non ha proprio nulla. Vige la legge del più forte, e non voler tutelare l’italiano davanti alla glottofagia dell’inglese significa essere complici della sua distruzione, che qualcuno scambia per una “normale” evoluzione e pensa pure che arrivi dal basso, come se l’attuale “dittatura dell’inglese” fosse qualcosa di “democratico”.

A me pare invece che siamo in presenza di un cambio di paradigma conflittuale dove una minoranza di collaborazionisti che occupano i centri di irradiazione della lingua – dalle istituzioni ai mezzi di informazione – sta educando le masse e imponendo la lingua dei padroni. A questo modello dominante bisognerebbe contrapporne un altro, che purtroppo non si vede tra gli intellettuali, ma è invece presente e sentito in larghe fasce della popolazione che non ne possono più degli anglicismi e si trovano tagliate fuori.

La traduzione: lezioni di accoglienza nel trattamento dei forestierismi

Di Antonio Zoppetti

Davanti alle parole straniere che non hanno un traducente naturale e che non sono ancora entrate nei nostri vocabolari (e forse non ci entreranno mai), come si deve comportare un traduttore per compiere le proprie scelte consapevoli? Meglio accogliere lo “straniero” o difendere la “purezza” dell’italiano?

Questo è l’interrogativo che pone Ilide Carmignani, una delle più rinomate traduttrici italiane, celebre soprattutto per le sue traduzioni delle opere di Luis Sepúlveda. Il tema sarà affrontato in un incontro al salone del libro di Torino (16 ottobre 2021, Sala Ciano, Padiglione 3, ore 12.45) intitolato “La traduzione: lezioni di accoglienza. Il trattamento dei forestierismi” che vede la partecipazione dei responsabili editoriali del Devoto Oli e dello Zingarelli, rispettivamente Biancamaria Gismondi e Mario Cannella, e anche la mia.

La questione della “purezza della lingua” e dell’accoglienza dello “straniero” evoca pericolosamente, e in modo provocatorio, una serie di archetipi su cui è bene fare molta chiarezza.

L’accoglienza del diverso e l’imposizione delle lingue dominanti

Prima di tutto è bene precisare che non ha senso fare alcuna analogia tra l’accoglimento delle parole straniere e l’accoglimento degli immigrati. Più volte alcuni giornalisti hanno accostato, a sproposito, la massima “sovranista” – come è di moda dire oggi – “prima gli italiani” con “prima l’italiano”, riferendosi alle posizioni che ho espresso in Diciamolo in italiano (Hoepli, 2017). Ma le parole non sono persone, e in una città come Milano la fitta presenza sul territorio di migliaia di cinesi, rumeni, albanesi, arabi o africani da un punto di vista linguistico non ha alcun impatto. Gli italiani non conoscono una parola di queste lingue, e l’unico terreno di scambio è quello gastronomico. I wanton fritti, il kebap o i falafel, lo zighinì degli eritrei. C’è poco altro. L’italiano è impermeabile alle lingue degli immigrati, risente invece dei modelli culturali ed economici statunitensi, che non sono presenti sul territorio a questo modo, ci arrivano in altre forme molto più potenti, dall’alto, e hanno a che fare con l’inglese come lingua internazionale, con l’espansione delle multinazionali, la globalizzazione e anche con il senso di inferiorità culturale, prima che linguistico, di una classe dirigente fatta da giornalisti, imprenditori, tecnici, scienziati… che ostentano l’inglese con orgoglio. Tutto ciò ci porta a ricorrere agli anglicismi anche quando avremmo le nostre parole, che però non hanno il medesimo prestigio. Gli anglicismi, al contrario degli altri forestierismi, non hanno a che fare con l’accettazione delle culture deboli, minoritarie o discriminate, sono il risultato, spesso prepotente, dell’imposizione di una cultura dominante che ci sovrasta.

Dalla purezza della lingua all’ecologia linguistica

Anche la “purezza della lingua” e la “difesa dell’italiano” sono categorie che andrebbero ridefinite, nel nuovo Millennio, perché non hanno nulla a che vedere né con il vecchio concetto di “purismo” né con le prese di posizione legate alla guerra ai barbarismi di epoca fascista.
Nessuna lingua è pura, non c’è nulla di male né di strano nell’accattare parole altrui, come scriveva già Machiavelli nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua. Il punto oggi è un altro e ha a che fare con il tema dell’ecologia linguistica. È una questione di numeri e di modalità.

La prima edizione elettronica del Devoto Oli del 1990, di cui ho curato il riversamento digitale, conteneva circa 1.600 anglicismi, ma oggi sono diventati 4.000. La prima edizione dello Zingarelli digitale del 1995 (un prototipo fuori commercio) ne annoverava circa 1.800, mentre oggi sono 3.000.

Negli ultimi 30 anni, in sintesi, l’interferenza dell’inglese è cresciuta a dismisura e in modo incontrollabile, e gli anglicismi “hanno scalzato il tradizionale primato dei francesismi e continuano a crescere con intensità, insediandosi (…) anche nel vocabolario fondamentale”, come ha scritto Tullio De Mauro (Storia linguistica dell’Italia repubblicana: dal 1946 ai nostri giorni, Laterza, Bari-Roma 2016, p. 136). Questa esplosione di parole inglesi è soprattutto cruda, e cioè senza adattamenti. Mentre l’influsso plurisecolare del francese ci ha arricchiti con migliaia di parole che sono state italianizzate, e i francesismi crudi sono oggi meno di un migliaio, l’inglese non si adatta e le migliaia di anglicismi sempre più frequenti e comuni sono dunque “corpi estranei”, come aveva compreso Arrigo Castellani nel suo “Morbus anglicus”, che violano le regole della nostra scrittura e pronuncia, e dunque se il loro numero diventa eccessivo finisce con lo snaturare l’identità linguistica “del bel paese là dove ‘l sì suona”.

Oggi le parole inglesi nei dizionari superano di gran lunga la somma di tutti gli altri forestierismi messi assieme, e tra le parole nate negli anni Duemila circa la metà sono in inglese crudo, una percentuale preoccupante anche perché tra le parole italiane mancano quelle primitive, come ha osservato Luca Serianni (Il lessico, vol. 2 della collana Le parole dell’italiano, Rcs Corriere della Sera, Milano 6/1/2020, pp. 53-54) e per la maggior parte sono derivate (come africaneria), o composte (come anarco-insurrezionalista).

Su questo scenario è evidente che la questione della “purezza della lingua” e della sua tutela ha tutta un’altra valenza rispetto al passato. La nuova “questione della lingua” si trasforma nella “questione delle lingue”, di tutto il pianeta, minacciate dall’invadenza dell’inglese che le schiaccia. È lo “tsunami anglicus” che Tullio De Mauro ha denunciato esplicitamente nel 2016 rivedendo totalmente le sue posizioni nei confronti del “Morbus anglicus” che negli anni Ottanta aveva negato.

Dopo aver fatto queste premesse è evidente che l’accoglimento dei forestierismi nelle traduzioni non può essere trattato alla pari. L’accoglimento di qualche parola straniera è il benvenuto, quando è il caso e quando non esistono alternative naturali. I forestierismi possono costituire un arricchimento, in queste circostanze. Ma il ricorso agli anglicismi, al contrario, rappresenta sempre più spesso un depauperamento della nostra lingua, è diventato una coazione a ripetere più simile a una nevrosi compulsiva, per cui tutto ciò che è nuovo si esprime direttamente in inglese, senza alcuna altra strategia: non si traduce, non si adatta, non si coniano nuove parole italiane… e quel che peggio si ricorre sempre più spesso all’inglese anche in presenza di parole italiane, e queste scelte generano numerosi “prestiti sterminatori” che scalzano e fanno morire le nostre parole storiche.

Per questi motivi sarebbe auspicabile spezzare questo ricorso all’inglese sistematico e distruttivo, e fare una distinzione tra l’accoglimento dei forestierismi, che in linea di principio può essere un’apertura positiva, e quello degli anglicismi che in sempre più ambiti sta trasformando la nostra lingua in itanglese.

Purtroppo in Italia non esistono punti di riferimento a cui i traduttori possono attingere soprattutto nel caso dei tecnicismi, e le scelte traduttive sono lasciate alla loro sensibilità e discrezione. In un contesto dove l’anglomania dilaga e l’inglese è preferito, è sempre più difficile proporre soluzioni italiane. Mentre in Francia e in Spagna le accademie coniano alternative e neologie autoctone e il ricorso all’inglese è una scelta, e mentre esistono banche dati terminologiche che fissano le traduzioni e rendono il francese e lo spagnolo lingue vive che si arricchiscono, in Italia non c’è nulla del genere. Davanti alle fortissime pressioni che arrivano dall’anglosfera il liberismo linguistico che parte dal presupposto che una lingua si difende da sé, che va studiata e non protetta, si trasforma in un anarchismo linguistico dove la lingua dei Paesi dominanti finisce per avere la meglio.

Queste sono le premesse del mio intervento e del confronto che avverrà a Torino, che si articolerà in modo meno generico soprattutto attraverso l’analisi di esempi lessicali molto concreti.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Inglese internazionale o plurilinguismo?

Di Antonio Zoppetti

A Milano, capitale dell’itanglese, in metropolitana la segnaletica è bilingue, italiano e inglese, e lo stesso accade per la comunicazione sonora: a ogni fermata riecheggia l’annuncio bilingue che ripete in modo ossessivo: “Prossima fermata… next stop…”
Nelle ore di punta l’utenza è formata più che altro da pendolari ammassati – almeno prima della pandemia – mentre nelle ore serali c’è un’alta concentrazione di arabi, cinesi, sudamericani… gli anglofoni sono piuttosto rarefatti, insomma. Ma dietro questo tipo di comunicazione c’è una precisa filosofia: straniero = inglese = lingua internazionale. Questi annunci sono un martellamento, un lavaggio del cervello che in modo ipnotico ci abitua alla presenza e all’essenzialità del solo inglese.
Anche prendere un treno significa immergersi in questa logica. Una volta c’erano le targhette con scritto “Vietato sporgersi” o “Non gettate alcun oggetto dal finestrino” affiancate dalle traduzioni in francese, tedesco e inglese. Oggi la traduzione è solo in inglese. E per di più l’inglese sconfina sempre maggiormente, e prende il posto dell’italiano. Nelle stazioni o negli aeroporti francesi, spagnoli o portoghesi ci sono le porte per l’imbarco, in Italia ci sono solo i gate. Viaggiare ai tempi del covid implica non occupare i posti con i divieti, ma i cartellini marcatori nella comunicazione delle Ferrovie dello Stato si chiamano marker (“il distanziamento è garantito da specifici marker sui posti non utilizzabili”), mentre ai passeggeri si “spiega” che “è ripresa la distribuzione del welcome drink a bordo treno” o che sui Frecciarossa ai “nuovi servizi di caring a bordo treno” si aggiunge la consegna gratuita “del safety kit gratuito a tutela della salute”, per garantire un protocollo covid free attraverso l’incentivazione di Qr code e ticketless

In treno è meglio non appoggiare le borse sul “desk”, tutto chiaro in questa “semplice indicazione”?


L’inglese internazionale e l’itanglese sono due fenomeni diversi, ma nascono dallo stesso humus e si alimentano dalla stessa mentalità sottostante che idolatra l’inglese come lingua superiore (cfr. “Globalese e itanglese: le relazioni pericolose”).

Il progetto di portarci sulla via bilinguismo italiano/inglese

Il progetto di portare ogni Paese sulla via del bilinguismo a base inglese è mondiale, e spesso è spacciato attraverso la parola plurilinguismo, che è invece l’esatto opposto: l’imposizione del globalese, la strategia dell’inglese globale, è tutto il contrario del plurilinguismo, che considera la diversità linguistica una ricchezza e un valore da tutelare e promuovere.

Il ricorso all’inglese sovranazionale in parte coincide con l’egemonia economica e culturale degli Stati Uniti – e dunque con la globalizzazione – e in parte è figlio di un imperialismo linguistico di natura coloniale storicamente legato all’espansione del Regno Unito e all’idea di Churchill di continuarlo da un punto di vista linguistico-culturale attraverso l’alleanza con gli Usa:

“Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente” (discorso agli studenti di Harvard, 6 settembre 1943).

Ne ho già parlato più volte, e lo ribadisco: considerare l’inglese come la lingua internazionale che risolve i problemi della comunicazione tra i popoli non è una scelta neutra, come potrebbe essere per esempio l’esperanto, è un enorme vantaggio per i popoli dominanti che impongono a tutti gli altri la propria lingua madre, senza doversi occupare di apprenderne altre. Questa visione non è un assioma indiscutibile, è solo una scelta possibile che si può benissimo mettere in discussione, e per tanti motivi. Eppure da noi il dibattito manca. La nostra classe politica e dirigente, con la complicità di intellettuali e giornalisti, ci fa credere che il globalese sia una realtà compiuta, e non un progetto politico, e lo fa in modo piuttosto subdolo, sia attraverso la propaganda di notizie false sia attraverso prassi subliminali che ci abituano gradualmente, anno dopo anno, ad accettare questa ideologia senza accorgercene e senza che ci sia un dibattito.

Queste prassi surrettizie sono infinite. La sostituzione della comunicazione multilingue dei treni con quella italo-inglese si inserisce in un contesto molto più ampio che vede l’Italia in prima linea nella diffusione dell’inglese globale.
Un tempo a scuola si poteva scegliere se studiare come seconda lingua il francese o l’inglese, oggi c’è solo l’inglese, ben propagandato dalle tre “i” della scuola di epoca berlusconiana e della Moratti ministra dell’istruzione (Inglese, Internet e Impresa). Il Politecnico di Milano di fatto eroga la maggior parte dei suo corsi in inglese, nonostante le polemiche e le sentenze.
Nel 2019, per essere “internazionale” la Rai ha annunciato la nascita di un canale in lingua inglese, mentre gli analoghi progetti dei canali francesi, russi o della stessa BBC (che trasmette in 45 lingue diverse) prevedevano trasmissioni in tante lingue, dallo spagnolo all’arabo, per arrivare a tutti. In realtà Rai English, che ci è costata 2 milioni di euro, è stata solo l’ennesimo progetto naufragato e mai realizzato, ma la mentalità sottostante gode di ottima salute. Sino al 2017 nei concorsi per la pubblica amministrazione era obbligatorio conoscere una “seconda lingua”, ma la riforma Madia ha sostituito tutto con la “lingua inglese” che è diventata un requisito obbligatorio. Questa stessa logica si ritrova nell’obbligo di presentare i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (Prin) in inglese, con il paradosso che un progetto su Dante o sul diritto romano (basato sul latino) debba essere presentato in inglese! Perché?
Perché decennio dopo decennio il nostro Paese sta perseguendo il disegno churchilliano – che non ci conviene affatto – in modo subdolo.
Uno degli esempi più recenti è l’introduzione della nuova carta d’identità in italiano e in inglese.

La nuova carta d’identità italiana, bilingue, e quella tedesca che include anche il francese, come avviene in Austria, e ovunque sul passaporto.

Credete che sia normale che debba essere così visto che siamo ormai cittadini europei? Allora siete stati ben colonizzati. Perché nel passaporto italiano e degli altri stati europei c’è anche il francese, ma nel nuovo documento elettronico la terza lingua è stata fatta sparire?

Un cittadino francese, Daniel De Poli, davanti alla nuova carta d’identità di stile anglo-europeo in francese, ha protestato con il delegato del ministero degli Interni, mostrando che in Germania il nuovo documento prevede, oltre al tedesco, anche il francese e l’inglese (lo stesso vale per l’Austria), come nel caso del passaporto europeo. E di fronte alla risposta che la scelta era motivata dall’essere l’inglese lingua internazionale, Daniel si è rivolto all’associazione di difesa francofona AFRAV che il 20 marzo 2021 ha presentato un ricorso perché questa decisione è illecita.

In Italia non credo che esistano associazioni del genere, e forse nessuno si è nemmeno mai posto il problema.

Notizie false e propaganda

Accanto alle prassi che ci abituano al bilinguismo e oscurano il plurilinguismo c’è poi la propaganda delle false giustificazioni. Una delle più gettonate, per esempio, è quella di sostenere che in ambito scientifico l’inglese internazionale ha preso il posto del latino che una volta era la lingua franca degli scienziati. Un’affermazione falsa sotto molti punti di vista. In primo luogo il latino era semmai la lingua dei teologi, cioè coloro che hanno condannato Galileo, visto che il “padre” della scienza aveva abbandonato il latino del Nuncius sidereus per scrivere il Dialogo dei massimi sistemi e il Saggiatore per la prima volta proprio in italiano. E anche se alcuni scienziati hanno continuato a usare il latino ancora sino all’Ottocento, la rivoluzione scientifica è avvenuta soprattutto nelle lingue locali. Inoltre, il latino di teologi e scienziati non era la lingua madre di nessuno, era una scelta neutra e il paragone inglese-latino regge solo se il confronto lo si fa con il latino dell’epoca imperiale, quando i Romani conquistavano e colonizzavano imponendo i propri i costumi e dunque anche la propria lingua. In terzo luogo non è affatto vero che l’inglese sia la lingua della scienza ovunque e in ogni ambito (cfr. “Inglese unica lingua della scienza? Non dovunque”).

La bufala che ci fa credere che l’inglese globale sia una realtà già compiuta, invece che un disegno che si vuole realizzare a scapito del plurilinguismo, è molto gettonata, ed è l’alibi preferito dagli anglomani. Eppure, proprio secondo i rapporti 2020 dell’Ef Epi – un’organizzazione che stila classifiche sulla conoscenze dell’inglese nel mondo per esaltarne i benefici – l’Italia è al 26° posto in Europa, quindi siamo messi malino. Stando ai rapporti Istat 2015, tra chi sa una o più lingue straniere (quindi solo una parte della popolazione), l’inglese è conosciuto dal 48,1%, il francese dal 29,5% e lo spagnolo dall’11,1% . In sintesi l’inglese è masticato da una minoranza degli italiani, e se si passa all’analisi del livello di conoscenza le cose precipitano: il 28% dichiara una conoscenza scarsa, il 27% buona e solo il 7,2% ottima.

La conoscenza dell’inglese appartiene ai ceti sociali alti, e come ha osservato il linguista tedesco Jürgen Trabant tutto ciò porta a una moderna “diglossia neomedievale” che esclude una larga fetta di popolazione che non ha accesso a questa lingua. I nostri politici, invece di tutelare e promuovere l’italiano, e gli italiani, sembrano invece favorire questa frattura sociale con provvedimenti come quello della riforma Madia. Il loro progetto è quello di farci diventare bilingui, e non quello di promuovere il plurilinguismo. Ma l’inglese globale è una discriminante anche fuori dall’Italia.

Uno dei firmatari del nostro disegno di legge per l’italiano è Jean-Luc Laffineur, italiano che risiede in Belgio, presidente di un’associazione che si batte per una Governanza Europea Multilingue (Gem+).
Mentre nell’Unione Europea – di cui il Regno Unito non fa più parte – è in atto un dibattito sullinglese come presunta seconda lingua, e ci sono fautori dell’euroinglese e quelli dell’inglese britannico, Laffineur interviene con un articolo in cui snocciola numeri e statistiche. L’inglese è la lingua madre di una minoranza di europei: irlandesi e maltesi rappresentano circa l’1,5%, mentre il tedesco è la lingua madre di circa il 20% dei cittadini europei, il francese del 16% e l’italiano del 15%. Anche se l’inglese è la seconda lingua più studiata in Europa (anche grazie ai programmi scolastici che fanno in modo che sia così), non significa che tutti la padroneggino: solo il 15% dichiara di saperlo fare, mentre il 38% dichiara di conoscerla abbastanza per sostenere una conversazione, ma solo il 25% è in grado di comprendere le notizie di giornali e tv. Il tedesco, il francese, l’italiano e lo spagnolo rappresentano insieme circa il 60% delle lingue native della popolazione dell’UE. Se si aggiunge il polacco, questa cifra sale a circa il 70%.
Come scrive Laffineur, la lingua dell’Europa non è però solo un problema di democrazia, ma anche di potere, che si esercita attraverso la lingua, e di identità linguistica. Invece di chiederci quale sia la lingua da imporre all’Europa, perché non dovremmo guardare al pluriliguismo e per esempio al modello elvetico fatto di tedesco, francese e italiano? Se in Svizzera le lingue di lavoro sono 3, perché l’Europa non potrebbe adottarne 5 o 6? Certo, alcune minoranze linguistiche sarebbero comunque escluse, ma forse lavorare in altre lingue oltre all’inglese sarebbe anche nel loro interesse.

Naturalmente si può dissentire e schierarsi dalla parte del globalese che se si affermerà porterà l’italiano e le altre lingue a diventare i dialetti di un’Europa che parla l’inglese. Ma in Italia sembra invece che a porsi questi problemi siano davvero in pochi, e non se ne parla.
Nei Paesi francofoni la difesa della propria lingua è invece normale, e non ha nulla a che fare con l’essere contro l’inglese, ma con il favorire il plurilinguismo e quindi tutte le lingue d’Europa. Laffineur lo spiega chiaramente in un articolo sul giornale belga La libre (chi non lo comprende può avvalersi di un traduttore automatico come Deepl che mi pare migliore di quello che Google promuove come fosse l’unico, cioè il suo). In un altro pezzo sulla stessa rivista l’autore critica persino la decisione di Ursula von der Leyen, madrelingua tedesca, di inaugurare praticamente in inglese il primo discorso sullo stato del Parlamento Europeo proprio nell’anno dell’uscita del Regno Unito (“un bel regalo, per gli inglesi”).

Ve lo immaginate un articolo del genere su un giornale italiano?

Le due Europe

In teoria l’Unione europea nasce all’insegna del multilinguismo e sull’autonomia linguistica di ogni singolo Paese e il problema della comunicazione tra i parlamentari eletti non dovrebbe certo coinvolgere i cittadini europei. Ma le cose non si possono sempre separare così nettamente. Di fatto, accanto all’Europa pluralista, almeno sulla carta, c’è un’altra Europa che invece di basarsi sui diritti linguistici di tutti i cittadini europei privilegia il globalese, e si adopera per portarci tutti sulla via del bilinguismo. Paradossalmente, la supremazia schiacciante dell’inglese e il venir meno del plurilinguismo è esplosa negli anni Duemila con l’entrata dei Paesi dell’Est. Più la Comunità Europea si è allargata e più si è andati verso l’inglese visto come soluzione concreta e pratica. Oggi la lingua di lavoro è diventata soprattutto l’inglese, e solo in maniera minore lo sono anche il francese e il tedesco, mentre l’italiano è stato ormai escluso.

L’Europa dei diritti linguistici, tuttavia, esiste, e all’estero ci sono molte associazioni che la difendono, come la Gem+ di Bruxelles o l’Oep (Osservatorio Euopeo del Plurilnguismo) di Vincennes (Francia), che nella sua carta proclama che “il plurilinguismo non può essere separato dall’istituzione di un’Europa politica.” Inoltre, ci sono parecchie cause internazionali in corso che si appellano a questi principi per combattere le decisioni dell’Europa anglomane. La Corte di giustizia dell’Unione europea (comunicato stampa n. 40/19, 26 marzo 2019), per esempio, ha sancito che “nelle procedure di selezione del personale delle istituzioni dell’Unione, le disparità di trattamento fondate sulla lingua non sono, in linea di principio, ammesse”, a meno che non esistano “reali esigenze del servizio”, ma in questi casi devono essere motivate “alla luce di criteri chiari, oggettivi e prevedibili”.

Come è possibile, allora, che senza alcun criterio esplicitato e senza reali esigenze di servizio, grazie alla riforma Madia in Italia un professore di spagnolo o di francese, non può essere assunto nella scuola se non sa l’inglese, lingua che esula dalle sue competenza specifiche?

Anche da noi dovrebbe nascere un dibattito come quello che si registra nei Paesi francofoni e in più parti dell’Europa, e dovremmo chiederci se davvero l’inglese è la soluzione che ci conviene e che vogliamo.

Per questo la proposta di una legge per l’italiano non si limita a indicare qualche misura concreta per promuovere e difendere la nostra lingua davanti agli anglicismi e all’itanglese, ma anche di sostenerla davanti alla “dittatura dell’inglese” imposta dalla riforma Madia, dal Miur e da tutti quei balzelli linguistici che tutelano e diffondono l’inglese a scapito dell’italiano e degli italiani. Sia sul piano interno sia su quello internazionale.

Grazie alle oltre 500 persone che con le loro firme hanno aderito alla petizione “una legge per l’italiano”.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. Le immagini, i collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Dal purismo all’ecologia linguistica

Di Antonio Zoppetti


“Sotto tutti i cieli di tutte le epoche, nell’eterna lotta tra i puristi e gli altri – piaccia o no – vincono gli altri. Pensare di salvare una lingua costringendola alla cattività ministeriale, poi, è l’ultima cosa che potrebbe aiutarla.”

Con queste parole, Cino Vescovi ha risposto a un articolo di Davide Grittani (“I killer dell’italiano”) il quale, davanti all’eccesso di anglicismi che sfigura la nostra lingua storica, aveva invece proposto l’istituzione di un Ministero per la difesa della lingua. Il botta e risposta è avvenuto sulla rivista L’intellettuale dissidente.*

Non senza ragioni, Vescovi esprime enormi perplessità sulla capacità della nostra classe politica di salvaguardare l’italiano, visto l’uso che ne fanno proprio le istituzioni e certi ministri. Non gli si può dare torto, e infatti una proposta di legge in proposito dovrebbe passare per una “rifondazione cruschista” che potrebbe ritornare al suo storico ruolo lessicografico e maggiormente prescrittivo, e fare ciò che fanno le accademie di Francia e Spagna. Ma il purismo non c’entra proprio niente, con tutto questo, e sarebbe ora di spazzare via una serie di sciocchezze e di luoghi comuni che abbondano nelle penne dei tanti non-interventisti.

“L’unico modo per salvare una lingua è lasciarla libera di razzolare ovunque. Nei mercati, nei bordelli, nelle chiacchiere delle beghine e negli angiporti, come ha sempre fatto”, continua Vescovi. Dimentica però che la nostra è stata una lingua letteraria e che per secoli era il dialetto a scorrazzare nella vita quotidiana, almeno fino all’unificazione dell’italiano avvenuta nel secondo Novecento, nell’epoca della radio, del cinematografo e della televisione, ma anche dell’emigrazione che ha portato al contatto tra dialetti diversi, tra loro spesso incomprensibili, e della scolarizzazione. Rivangare la politica linguistica fascista della proibizione e sostituzione dei barbarismi agitandola come lo spauracchio, inutile, significa non avere chiaro cosa sta avvenendo oggi in Francia, in Spagna, in Islanda e in molti altri altri Paesi, dove i modelli sono di ben altro tipo. L’inglese rappresenta una minaccia per l’identità dell’italiano – e delle lingue di mezzo mondo – non per una manciata di “prestiti” che possono irritare un purista, ma per la quantità e la profondità di anglicismi che la stanno travolgendo e ne stanno creolizzando il lessico. L’evoluzione dell’italiano del Terzo millennio non è affatto legata a ciò che avviene nei mercati, dove la gente ripete lockdown, computer, cashback e il resto non per scelta, ma perché sono calati dall’alto senza alternative. Le chiacchiere degli angiporti hanno lasciato il posto alle chat del web dove l’itanglese impera perché il lessico e la terminologia sono sempre meno fatti da nativi italiani e sempre più dall’espansione delle multinazionali, e dove i modelli linguistici dei bloggatori e delle piattaforme sociali ricalcano il linguaggio dei mezzi di informazione che a loro volta parlano la lingua degli influencer, dei manager, del marketing, dei tecnici e dei politici colonizzati dall’inglese che riversano nel loro fragile italiano. Se fino all’Ottocento erano gli scrittori a fare la lingua, oggi i centri di irradiazione sono di altro livello, ahinoi, e sono fatti da chi ostenta l’inglese perché crede di essere moderno e si vergogna dell’italiano che spesso poco conosce.

L’idea della lingua che si difende da sé è fallita. Il liberismo linguistico ha senso quando esiste un equilibrio sano che possiede i propri anticorpi e si autoregola. Ma quando una lingua dominante sta esercitando la sua pressione globale ovunque, e quando l’unica strategia di evoluzione linguistica consiste nell’importare parole crude da una sola lingua, senza inventarne di proprie e senza adattarle, lo scenario non è quello dell’eterna lotta tra puristi e gli altri, né quello della lotta contro il barbaro dominio di epoca fascista, è invece quello della Resistenza.

Se i panda sono a rischio estinzione, non si può rispondere che le specie evolvono e si estinguono (è normale, è sempre avvenuto e sempre avverrà) in nome dell’evoluzionismo magari nelle sue estensioni aberranti del cosiddetto darwinismo sociale che con quello biologico ha poco a che a fare. Bisogna intervenire per salvaguardare la biodiversità, che come il multilinguismo è un valore e una ricchezza. Se le balene rischiano di scomparire dalla faccia della terra è perché l’equilibrio naturale è messo a rischio da uno sfruttamento sistematico e distruttivo da parte dell’uomo che si sta rivelando sempre meno sostenibile e sta distruggendo l’ambiente. Invece di dire che le balene si sono sempre difese da loro, è meglio intervenire e proteggerle, come si cerca di intervenire quando altre specie animali – dai topi alle zanzare tigre – si moltiplicano a dismisura sino a danneggiare l’ecosistema. La globalizzazione non sta distruggendo solo l’ambiente, ma anche le culture e le lingue locali.

Prima di parlare di purismo, di fascismo, di liberalismo linguistico e di panzane astratte, bisognerebbe fare il punto concreto sulla situazione.

Facciamo il punto

Ne ho già parlato fino allo sfinimento, ma mi ripeto. Dallo spoglio dei dizionari emerge che tra le parole che sono nate negli anni Quaranta e Cinquanta gli anglicismi crudi rappresentavano circa il 3,6%. Questo numero negli anni Sessanta è salito a quasi il 7%, negli anni Settanta ha superato il 9%, negli anni Ottanta il 16%, negli Novanta il 28% e oggi costituisce quasi il 50% delle parole del Nuovo millennio. È chiara la progressione esponenziale? È chiaro cosa sta avvenendo?

Il Devoto Oli del 1990 registrava circa 1.700 anglicismi non adattati, quello del 2020 ne annovera circa 4.000, il che significa che in 30 anni ne sono spuntati 2.300 di nuovi (una media di 76 all’anno e un aumento del 135,29%). E i numeri dello Zingarelli e di altri dizionari sono in linea con queste cifre.

Passando dalla presenza alla frequenza, tutti i dati mostrano che gli anglicismi sono usati sempre più spesso sui giornali, e hanno colonizzato il lessico di tanti ambiti della nostra lingua: l’informatica, la formazione, il lavoro, l’economia, la tecnologia, la scienza, persino la moda. Oltre ad avere conquistato i linguaggi di settore, la parte più esterna del nostro lessico, stanno penetrando sempre più nel quotidiano. Se nel 1990 le parole inglesi erano spesso tecnicismi, oggi ce ne sono circa 1.600/2.000 che appartengono al linguaggio comune, sono cioè parole che qualunque persona di media cultura dovrebbe conoscere – anche se non è detto che le usi attivamente – perché si incontrano quotidianamente fuori dal lessico specialistico e di settore. In questo penetrare nella lingua di tutti i giorni, stanno entrando persino nel lessico fondamentale, cioè lo zoccolo duro del nostro vocabolario.

Tutto ciò non è normale. La rapidità e la profondità con cui accogliamo le parole inglesi non ha precedenti nella nostra storia, e non è minimamente paragonabile a quanto è successo in passato con l’interferenza del francese, quando era questa la lingua che ci influenzava maggiormente e da cui attingevamo di più. L’inglese forma ormai una rete di radici che si intrecciano e stanno prendendo vita ricombinandosi anche in pseudoanglicismi che creiamo da soli, e si mescolano tra loro e con altre parole italiane in una trasformazione che non ha più niente a che vedere con l’italiano storico, e non si può che chiamare itanglese, una lingua ibridata fatta sempre più di “corpi estranei” rispetto ai nostri suoni, che violano le regole della nostra ortografia e della nostra pronuncia e le snaturano.

L’ecosistema linguistico si è spezzato. Sono i fatti, e c’è poco da negare.

Queste sono le conseguenze del liberismo linguistico italiano, conseguenze molto più gravi rispetto a quelle che si registrano in Paesi come la Francia e la Spagna dove i politici e le accademie operano con ben altre modalità. E allora cosa vogliamo fare? Proseguire in questo modo e considerare l’itanglese la modernità e il nostro futuro?

È una scelta, ma c’è anche chi – come me e tanti altri – si oppone e la combatte e non certo per purismo.

Il problema non sono gli anglicismi – questo deve essere chiaro – ma l’anglomania compulsiva che porta a introdurre solo e continuamente espressioni in inglese. Il punto, allora, non è quello di proibire gli anglicismi e di proporne la cattività, ma quello di creare le condizioni culturali per riappropriarci dell’italiano, della sua bellezza, del suo valore, e di difendere la nostra identità. Senza questa rivoluzione culturale, ogni battaglia è persa. Senza una promozione dell’italiano all’interno del nostro Paese e all’estero, visto che è una risorsa anche economica potenzialmente enorme, il rischio è che diventi un dialetto creolizzato su base lessicale inglese, mentre la lingua dell’istruzione, della scienza e del lavoro sarà l’inglese internazionale.

I panda siamo noi, non sono gli altri, e teorizzare il non-interventismo significa suicidarci linguisticamente e culturalmente.

Il nostro futuro dipende dalle scelte politiche. Se finalmente il governo ha preso coscienza della necessità di un Ministero per la transizione ecologica, bisogna lavorare per fare emergere chiaramente anche la necessità di un Ministero per la transizione all’ecologia linguistica.

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* Ringrazio Carla Crivello per la segnalazione degli articoli sull’Intellettuale dissidente.


PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. Le immagini, i collegamenti e i commenti originali sono perduti.]