Anglicismi e neologismi

Per descrivere le cose nuove e per rendere conto delle nuove esigenze, una lingua viva deve evolvere e coniare nuove parole. In questi cambiamenti, l’evoluzione può attingere dal proprio patrimonio linguistico autonomo oppure trarre spunto da parole straniere (alloglotte).

albero delle parole
Immagine tratta da: https://mauropresini.wordpress.com/2015/12/23/gatti-e-bigatti/

Venendo per esempio ai neologismi del nuovo Millennio una parola come autoeditoria è una coniazione autonoma per indicare il fenomeno dell’autopubblicazione dei libri con le nuove tecnologie, mentre una parola come badante, dal verbo badare, si trasforma in un sostantivo per indicare una nuova figura professionale.

Se invece si guarda fuori dall’italiano non è affatto necessario importare in modo “crudo” senza adattamenti, i modelli si possono anche “tradurre” attraverso calchi, cioè parole che ricalcano modelli stranieri, che possono essere strutturali (o formali) come pallacanestro da basketball, fine settimana da weekend, grattacielo da skyscraper o ancora bistecca da beefsteak. In altri casi i calchi sono detti semantici, quando una parola acquisisce un nuovo significato per l’influsso di un forestierismo, per esempio angolo diventa anche sinonimo di calcio d’angolo sul modello di corner, realizzare assume anche il significato di comprendere qualcosa, e non solo di costruire, per influsso di to realise, e singolo diventa anche scapolo, e non più solo unico, per l’influenza di single.

Queste strategie implicano l’italianizzazione delle nuove voci, che pur sotto l’interferenza dell’inglese, mantengono l’identità della nostra lingua: non violano il nostro modo di pronunciare e scrivere i lessemi secondo le nostre regole, in altre parole non sono “corpi estranei” come li chiamava Arrigo Castellani.

Naturalmente c’è anche la possibilità di importare una parola straniera non adattata, integrale o cruda, cioè così com’è, per esempio self publishing invece di autoeditoria o caregiver (assistente familiare) così simile a badante, da cui eravamo partiti.

Quando, davanti all’esplosione incontrollata delle parole inglesi, ci dicono che l’evoluzione della lingua è un fenomeno normale, che le lingue evolvono anche grazie all’interferenza degli altri idiomi, che da sempre l’italiano ha attinto dal francese, dallo spagnolo, dall’arabo e da ogni altra lingua, dobbiamo stare attenti: ci vogliono prendere per il naso o forse per qualche altra parte del corpo più in basso. Queste affermazioni sono delle banalità, per chi si occupa di linguistica, e soprattutto sono degli schemini teorici che non hanno alcun senso se non si quantificano.

Il punto è un altro. Per fare una riflessione seria, dobbiamo chiederci: come sta evolvendo l’italiano? Quanti sono tra i neologismi quelli “crudi” e quanti quelli italianizzati? Quante sono le parole nuove costruite sui modelli italiani? Quanti sono gli anglicismi rispetto ai francesismi, ispanismi, germanismi, nipponismi e via dicendo?

Questo è il nocciolo. E, purtroppo, se andiamo a vedere come stanno le cose scopriamo che l’italiano è gravemente malato, perché è sempre meno in grado di coniare parole sue, è sempre meno in grado di tradurre, produrre calchi e adattare. L’evoluzione dell’italiano del nuovo Millennio pare proprio che si basi su una strategia suicida per cui la soluzione prevalente è sempre la stessa: importare dall’inglese senza adattare. Se i neologismi finiscono per coincidere sempre più con gli anglicismi, ecco che si finisce inevitabilmente nell’itanglese: una struttura apparentemente italiana dalla quantità di parole inglesi sempre più fitta e massiccia.

Neologismi e anglicismi negli studi di Adamo-Della Valle

Sui neologismi è doveroso citare i contributi di Giovanni Adamo e Valeria Della Valle che dal 1998 lavorano al progetto dell’Osservatorio neologico della lingua italiana, in collaborazione con l’Istituto per il lessico intellettuale europeo e la storia delle idee del CNR.
Giovanni adamo Valeria della valle neologismi quotidiani Olschki

Il fine dei loro lavori è quello di studiare l’innovazione lessicale della lingua italiana attraverso l’analisi dei quotidiani e dei periodici: viene esaminato il lessico dei giornali con lo scopo di raccogliere tutte le nuove parole non registrate dai dizionari. Un primo risultato di questo studio (Neologismi quotidiani. Un dizionario a cavallo del millennio, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2003) ha analizzato poco più di 5.000 neologie tra il 1998 e il 2003, di cui 683 erano parole inglesi, cioè circa il 13%. Questo risultato, però, si riferiva agli anglicismi integrali e non teneva conto “dei lemmi ‘misti’, ovvero delle parole italiane in cui si trova un «elemento formante» inglese”. Insomma, conteggiando anche queste parole le percentuali salirebbero ulteriormente.

Anche se si potrebbe non essere d’accordo, le conclusioni di Valeria Della Valle non erano preoccupate davanti a questi numeri, e infatti, nel 2004, dichiarava:

Dal materiale esaminato (5.059 nuove formazioni lessicali, per un totale di 10.710 contesti giornalistici) non si possono trarre, superficialmente, segnali di particolare allarme: se è vero che si ricorre spesso alla lingua inglese, è anche vero che i neologismi registrati sono, nella maggioranza dei casi, formati attraverso i procedimenti tradizionali di derivazione e composizione della nostra lingua.

[Scuola e cultura, Istituto Comprensivo Muro Leccese, anno II, n.2 aprile/maggio/giugno 2004 p. 9].

Della Valle ha sempre palesato posizioni non allarmate davanti all’interferenza dell’inglese, ma nel 2018 questa serafica tranquillità sembra proprio che sia venuta meno anche da parte sua, visto che nell’ultimo aggiornamento del lavoro, basato sullo spoglio dei giornali dal 2008 e il 2018, le cose sono cambiate: tra le circa 3.500 nuove parole incluse in Neologismi. Parole nuove dai giornali 2008 – 2018, edito da Treccani, il predominio dell’inglese è aumentato in modo preoccupante, una parola su 5 è in inglese:

Tra il 2008 e il 2018, sui giornali italiani sono più che raddoppiati, rispetto al decennio precedente, i neologismi inglesi: nel nostro modo di parlare sono apparse 15 nuove parole composte da ‘food’ e solo 2 da ‘cibo’; hanno fatto il loro ingresso 17 termini con ‘gender’ contro 13 con ‘genere’, stessa cosa per ‘smart’, che ha la meglio sulla sua traduzione italiana, ‘intelligente’. Sul totale dei neologismi italiani, i termini inglesi sono schizzati dal 10 al 20,11 percento [rispetto all’aggiornamento del 2006]. ‘Un elemento molto preoccupante a nostro modo di vedere’, ha ammesso Valeria Della Valle.

[Il fatto quotidiano, “Da ‘mafiarsi’ a ‘dichiarazionite’ e ‘viralizzare’: ecco tutti i neologismi apparsi sui giornali negli ultimi 10 anni“, Ilaria Lonigro, 2/12/2018].

In conclusione, sembra che  proprio attraverso lo studio dell’interferenza dell’inglese, la professoressa abbia cambiato idea e sia passata da una posizione “negazionista” a una preoccupata, esattamente come hanno fatto Luca Serianni e persino Tullio De Mauro.
Queste preoccupazioni, anno dopo anno, stanno ormai coinvolgendo tutti i glottologi più seri, che cambiano idea semplicemente studiando cosa sta succedendo. Le posizioni “negazioniste”, che sino agli anni Duemila rappresentavano il pensiero dominante tra i linguisti, perdono terreno e gli studiosi che si rifiutano di vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti sono sempre meno, e presto scompariranno davanti all’insostenibilità delle argomentazioni su cui si sono arroccati senza via di uscita. Anche perché, purtroppo, il dato che emerge dagli studi di Adamo-Della Valle – un neologismo su 5 è in inglese – è ancora poca cosa rispetto alla realtà ben più grave che emerge dallo spoglio dei dizionari.


La distinzione tra neologismi occasionali e duraturi

Bisogna fare molta attenzione a distinguere le cose: tra i neologismi tratti dalla stampa, la percentuale delle parole effimere o “usa e getta” (cioè gli occasionalismi non destinati ad affermarsi in modo stabile e a entrare nei dizionari) è molto alta. Parole come “spelacchio” per indicare l’albero di Natale del comune di Roma del 2017, oppure “antirenziano”, si esauriscono con l’uscita di scena delle situazioni o dei personaggi in questione. Solo alcune di queste neologie giornalistiche sono destinate ad avere fortuna e a essere registrate nei vocabolari futuri.

«Forse dei 3.505 neologismi ne rimarrà la metà, forse di meno» ha spiegato Valeria Della Valle.

[Avvenire, “Lingua. Petaloso, asinocrazia, webete, azzardopatia: le nuove parole dell’italiano”, Giacomo Gambassi, 6/12/2018].

Le parole che sono incluse nei dizionari, al contrario, a volte impiegano anche un decennio prima di essere inserite, perché vengono di solito accolte solo dopo che hanno manifestato una presumibile stabilità. E infatti, da un mio confronto tra i circa 1.600 anglicismi presenti nel Devoto Oli del 1990 e i circa 3.500 del 2017 è emerso che soltanto 67 sono usciti in questo lasso di tempo (cfr. Diciamolo in italiano. Gli abusi nell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla, Hoepli, 2017, pp. 95-99). I “negazionisti” convinti che l’inglese non sia un problema allarmante che si appellano alla presunta obsolescenza delle parole inglesi, perciò, parlano senza cognizione di causa. L’obsolescenza e la loro scomparsa non riguarda le voci dei dizionari, ma soltanto la nuvola di anglicismi non registrati che ci avvolge (soprattutto sulla stampa) è che è di ordine di grandezza superiore al numero di quelli registrati che hanno invece la loro stabilità.

Fatta questa precisazione, non resta che conteggiare i neologismi e gli anglicismi presenti nei dizionari, e il dato sconcertante è che la metà dei neologismi è in inglese crudo.


Zingarelli e Devoto Oli: gli anglicismi sono il 50% dei neologismi del nuovo Millennio

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Devoto Oli, edizione digitale del 2017: a sinistra i neologismi del nuovo Millennio e a destra gli anglicismi del nuovo Millennio.

Dallo spoglio dell’edizione digitale del Devoto Oli del 2017 si può vedere facilmente che le parole comparse nel nuovo Millennio sono 1.049, e di queste ben 509 sono in inglese crudo, dunque circa il 50% (una media di circa 30 anglicismi nuovi all’anno). Ma si tratta di un dato grezzo: se si va più a fondo si scopre che il problema principale di questi 509 anglicismi sono le lacune. A queste parole “crude” bisognerebbe infatti aggiungere molti semiadattamenti o parole miste che costituiscono di fatto “corpi estranei” inglesi: per esempio non compare antimobbing, così come sono assenti molte parole come whatsappare, bloggare, twittare e ritwittare… Insomma, con una ricerca più accurata e manuale emerge come gli anglicismi superino il 50% dei neologismi.

zingarelli neologismi anglicismi
Zingarelli, edizione digitale del 2017: a sinistra i neologismi del nuovo Millennio e a destra gli anglicismi del nuovo Millennio.

Le percentuali non cambiano di molto se si analizza l’edizione digitale dello Zingarelli 2017: le parole datate dal 2000 in poi sono 412 di cui 178 in inglese puro, cioè il 43,2%. Ma ancora una volta in queste estrazioni automatiche ci sono molte lacune che attraverso analisi più minuziose fanno salire le percentuali: la parola numero 17 (a sinistra), antiglobal, non esce automaticamente tra gli anglicismi a destra, anche se di fatto lo è, e oltre ai casi del Devoto Oli anche da questo elenco sono assenti molte parole da fashionista o googlare, che se prendiamo invece in considerazione fanno lievitare ulteriormente le percentuali.

Semplificando, si può tranquillamente affermare che la metà dei neologismi del Duemila è in inglese crudo. E chi dice che attingere dalle lingue straniere è un fenomeno che c’è sempre stato e “normale” dovrebbe invece riflettere sui numeri, più che sugli schemini astratti: non è affatto normale, è un segnale di allarme gravissimo. E infatti, i francesismi del nuovo Millennio sono solo 5 per lo Zingarelli (contro 6 ispanismi, 1 germanismo e 3 parole giapponesi) e 12 per il Devoto Oli (che registra 5 ispanismi e 0 germanismi). La sproporzione è evidente: queste ultime sì che sono percentuali “normali” e che non destano alcuna preoccupazione, l’interferenza dell’inglese è invece una vera e propria colonizzazione lessicale che sta soffocando e facendo regredire la nostra lingua come una piaga.

Se si analizzano gli anglicismi nei linguaggi di settore, ancora più preoccupante è la perdita di un lessico in italiano in molti ambiti, a cominciare dall’informatica, dove per lo Zingarelli ci sono ben 232 anglicismi su 737 parole marcate a questo modo, e per il Devoto 0li 417 su 980. E allora è ancora possibile parlare di informatica in italiano o siamo costretti a usare l’itanglese? Questo è il bel risultato che nel giro di un solo ventennio ci ha portato la strategia di importare anglicismi crudi e basta, grazie all’espansione delle multinazionali, ai terminologi sul loro libro paga che affermano come fosse una verità (e non la loro pessima strategia) che “i termini non si traducono” e a chi crede che “essere internazionali” equivalga a parlare la neolingua globale dei mercati, l’angloamericano, invece che guardare agli esempi davvero internazionali per esempio di Paesi come la Francia e la Spagna che non si vergognano certo della propria lingua né di tradurre e adattare.

Fuori dall’informatica, le cose non sono molto diverse in settori come il mondo del lavoro, l’economia, la tecnologia e persino la scienza, come ha denunciato Maria Luisa Villa:

Possiamo “permetterci di abbandonare l’italiano come lingua viva nella comunità nazionale, consegnando il dibattito sui temi della scienza a un linguaggio diverso da quello primario? Non abbiamo invece il compito di preservare l’uso dell’italiano scientifico per permettere un livello di comprensione pubblica sufficiente perché tutti possano godere dei diritti, ed esercitare i doveri di buon cittadino?”.

[Maria Luisa Villa, L’inglese non basta. Una lingua per la società, Bruno Mondadori, 2013., p. 7].

Cosa sarà dell’italiano fra 50 anni se tutto ciò che è nuovo si esprime in inglese crudo e si rinuncia a tradurre, adattare e coniare nuove parole italiane? Cosa accadrà alla nostra lingua se questa è la strategia evolutiva che abbiamo adottato?

La risposta a queste domande retoriche è facile, ma forse è bene ricordare gli ammonimenti di importanti linguisti, come Gian Luigi Beccaria:

“Se puntiamo su una lingua diversa dalla materna come lingua delle tecnoscienze, assisteremo a un nostro rapido declino come società colta. L’italiano, decapitato di una sua grossa parte, decadrà sempre più a lingua familiare, affettiva, dialettale, straordinariamente adatta magari per scrivere poesia ma incapace di parlare ai non specialisti di economia o di architettura o di medicina”.

[Gian Luigi Beccaria, Andrea Graziosi, Lingua madre. Italiano e inglese nel mondo globale, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 116].

O come Luca Serianni:

“Una lingua che rinunciasse a esprimersi in aree culturalmente centrali, come la scienza e la tecnologia, sarebbe destinata a diventare nell’arco di pochi anni un rispettabilissimo dialetto: adatto alla comunicazione quotidiana e alla poesia, ma inadeguato a cimentarsi con la complessità del presente e con l’astrazione propria dei processi intellettuali”.

[Luca Serianni, “Conclusioni e prospettive per una neologia consapevole”, Firenze, Società Dante Alighieri, durante il convegno del 25 febbraio 2015].

13 pensieri su “Anglicismi e neologismi

  1. incredibile, cifre da capogiro: ormai anche i “duri e puri” cominciano ad accorgersi di un fenomeno titanico.
    A tal proposito, domani ho un regalino per te dal mio blog: nei meandri dei miei scaffali ho ritrovato un volumetto di 80 anni fa che ignoravo di avere, che ci racconta di un’Italia diversa… ma identica! ^_^

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    • sì l’anglicizzazione sta cominciando a diventare innegabile e preoccupante anche da parte di chi per molto tempo l’ha sottovalutata, il problema è capire se chi sta rivedendo le sue posizioni è disposto anche a fare qualcosa per fermarla o se bisognerà attendere ancora qualche anno, sperando che non sia troppo tardi. Son curioso del tuo regalino, allora domani lo scarto! 🙂

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  2. Il caso di “bistecca” < beefsteak mi sembra un po' diverso da "fine settimana" o simili, perché la parola inglese non significa affatto "cosa con due stecche" come sembrerebbe suggerire l'italiano, che andrebbe piuttosto definito come un adattamento fonetico della parola inglese (comunque preferibile all'anglismo crudo, in questo senz'altro concordo).

    Casi come "googlare" mi sembrano effettivamente initalianizzabili, se non tutt'al più ortograficamente (*guglare), in quanto inglobanti un marchio commerciale; qui il problema più che linguistico è d'altra natura, cioè di come pervasivi siano ormai le gradi aziende nella nostra vita, e il fatto che queste provengano quasi tutte da ben poche parti del mondo.

    Infine, a proposito degli anglismi caduti in disuso, richiamerei l'attenzione su una voce entrata nell'italiano circa quarant'anni fa e poi uscitane, per quanto attualissima come significato: "boat people", come vennero chiamati i profughi dal Vietnam che affollavano coi loro precari natanti i mari dell'Estremo Oriente e che suscitarono – diversamente dai loro attuali comapgni di sventura – un'ondata di sdegno e di solidarietà internazionale (e sul cui modello lessicale nacque l'ancor più effimero termine "flot people", per designare i lavoratori vietnamiti che raggiungevano l'URSS attraverso gli aerei della compagnia sovietica Aeroflot).

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    • Ciao Giovanni, provo a risponderti.
      1) “Beefsteak” significa “fetta di bue”, non cosa “con due stecche”, hai ragione (grazie della precisazione), è un calco basato sull’assonanza e non sulla traduzione degli elementi, ma non sono entrato dentro gli schemini linguistici così a fondo, è un po’ come il “bug” (lett.cimice) che in italiano si può dire “baco” per analogia, e costituisce un altro modello ancora di italianizazzione.
      2) “Guglare” sarebbe un adattamento o un’italianizzazione, siamo d’accordo, ma non è in uso, mentre “googlare” è un semiadattamento che parte da una radice che viola le nostre regole di scrittura e pronuncia, dunque è a tutti gli effetti un “corpo estraneo” che va incluso nei conteggi, a mio parere, ma anche secondo il presidente della Crusca Claudio Marazzini, per esempio, che concorda con il mio modo di conteggiare l’interferenza dell’inglese, e mi scriveva che anche “computerizzare” andrebbe conteggiato a suo modo di vedere, vista la pronuncia. Però i nomi commerciali non credo siano fuori dalle categorie linguistiche, esistono centinaia di nomi propri passati nella lingua dai prodotti (italiani e stranieri), per es. “scotch” (nastro adesivo) da cui infatti risulta una nuova accezione popolare di “scocciare” e non certo “scotchare”(dunque questo è il fatto linguistico nuovo: oggi non si adattano le derivazioni).
      3) “Boat people” non è affatto un anglicismo caduto in disuso, è riportato nei dizionari e lo trovi sugli articoli di giornali anche nel 2019 (https://www.google.com/search?q=%22boat+people%22&client=firefox-b&tbm=nws&source=lnt&tbs=lr:lang_1it&lr=lang_it&sa=X&ved=0ahUKEwiEvoS-h8rgAhXMzaQKHbfmB3EQpwUIIA&biw=1366&bih=613&dpr=1). E’ vero che nel tempo la sua frequenza è diminuita e il suo significato si è allargato uscendo dal contesto della guerra del Vietnam, ma è una cosa diversa. Se vuoi un esempio di anglicismo caduto in disuso c’è invece “baby market”, registrato nel Devoto Oli del 1990, e poi successivamente eliminato perché non più utilizzato, o forse inserito prematuramente.
      Un saluto

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      • “Beefsteak” significa “fetta di bue”: no. Beef è manzo, non bue (ox). Steak è la bistecca alta e spessa, non significa genericamente “fetta” (slice).
        ““bug” (lett.cimice)”: no. Bug letteralmente è termine generico per “piccolo insetto”. Cimice è bed bug.

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        • Ciao “Scuotilancia” E,ma… forse ti dovrei chiamare Siano?
          Non è difficile riconoscere chi sei dal tono delle tue argomentazioni.
          Grazie delle precisazioni, magari scrivi anche a chi gestisce il dizionario Nuovo De Mauro, che riporta erroneamente: dall’ingl. beef-steak, comp. di beef “bue” e steak “fetta di carne” (https://dizionario.internazionale.it/parola/bistecca). E poi scrivi anche a Serianni e Trifone che hanno commesso lo stesso errore nel Devoto Oli e agli altri dizionari. Anche quelli di inglese, visto che, scioccamente, invece di utilizzare il monosemismo che piace a te e ai tuoi amici, una parola = una cosa (se no che confusione), registrano tante accezioni della parola “bug”, tra cui gli emitteri (che comprendono appunto le cimici, visto che bedbug è solo la cimice del letto) e anche le cimici in senso lato come le microspie.
          Complimenti per avere compreso al volo (come sempre) il senso delle cose…. e abbi il coraggio di firmarti quando te ne vai in giro per la rete con la tua pennina rossa e blu a lasciare le tue opinioni come fossero i voti che forse non sei sempre nelle condizioni di dare. A presto…

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          • 😀 Le parole inglesi è meglio cercarle su dizionari inglesi. Fra manzo e bue c’è una bella differenza! E tra fetta e bistecca pure. I bugs sono insetti di molti tipi, non solo le cimici (e le cimici in inglese sono solo bed bugs). E che bug significhi baco nel gergo informatico è ben noto. 😀
            Prima di (s)parlare dell’inglese, è consigliabile impararlo.
            Buona crociata!

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            • Le crociate sono fatte dagli anglofili e dalle multinazionali che si espandono e voglio imporre il loro monolinguismo basato sull’inglese in tutto il mondo, e purtroppo davanti a questo fatto in Italia non abbiamo alcuna reattività, ma tanti collaborazionisti. Io non faccio crociate, faccio la Resistenza, e non sparlo dell’inglese: lo tengo fuori e ben separato dalla nostra lingua. Conoscere l’inglese è importante, ma ancora più importante è conoscere, amare, promuovere e praticare l’italiano. Chi ricorre all’inglese lo depaupera giorno dopo giorno e lo fa morire (ti consiglio di consultare un dizionario di italiano, imparerai che il manzo in zootecnica è un vitello castrato https://dizionario.internazionale.it/cerca/manzo, e di consultare qualche dizionario dei sinonimi che riporta che equivale a bue, l’unica differenza e l’età, dunque un manzo è un bue, se vuoi puoi aggiunegere giovane, ma bue non significa che sia necessariamente vecchio).

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  3. La differenza tra manzo e bue è solo nell’età. La carne di bue è la carne di bovino castrato (manzo) che ha superato i quattro anni e mezzo di età, quella del manzo è macellata prima e può anche comprendere un bovino femmina che non ha partorito. Sono inquadrate nella categoria C delle etichettature di legge. Poi c’è la carne di vitellone, categoria A, macellato tra 12 e 18 mesi, e a seguire di vitello, ma c’è anche toro, giovenca o vacca. Con bistecca si intendono propriamente i tagli che incorporano l’osso di lombata o costata e la bistecca di bue è piuttosto pregiata perché in Italia non c’è come negli USA la cultura di allevare questi animali per la carne, tradizionalmente da noi erano bestie da soma, e negli allevamenti è più conveniente macellarli giovani.

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    • Grazie, a dire il vero non ho alcuna competenza di macellazione, e mi sorprende questa coda su una questione a margine di un articolo che parla di ben altre cose. Comunque sia le categorie cui accenni sono normative recenti, e appartengono di sicuro a una moderna terminologia del settore. L’entrata di bistecca sul modello di beefsteak è ottocentesca, e al di là delle sedimentazioni moderne del significato, indica una fetta di carne di bue o di manzo secondo i dizionari (Devoto Oli: “Dall’ingl. beefsteak ‘fetta di bue’, come nel De Mauro; Treccani: “dall’ingl. beefsteak, comp. di beef «manzo» e steak «fetta (di carne)»”). Io non darei peso alle sciocchezze di un utente che credendo di essere anonimo scrive solo per disturbare motivandolo con “te lo dico io” come se fosse al di sopra di tutti. Per la cronaca anche per “bug” la Treccani riporta l’etimo da me indicato (bug ‹bḁġ› s. ingl. (propr. «cimice»; pl. bugs ‹bḁġs›), così come lo Zingarelli (vc. ingl., propr. ‘cimice, insetto’, che negli Stati Uniti assunse anche il sign. di ‘difetto in un meccanismo’ ☼ 1983).
      Saluti e grazie delle precisazioni.

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  4. I dati che riporti sono citati anche da G Antonelli nel libro ‘il museo dell’italiano’ ma dice che è un’illusione ottica e che passata la moda torneremo a dire tesserino invece si badge, a me non sembra una moda credobchebhai colto il punto, usare l’inglese è diventata una strategia

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    • Grazie Massimo. Antonelli sostiene queste cose da molti anni e si ritrovano in molti suoi libri, personalmente ho criticato la validità di queste posizioni più volte, anche perché sono conclusioni che andrebbero dimostrate più che affermate, e comunque sono argomentazioni che circolano da tempo, ma sempre meno condivise anche dai linguisti, visto che i dati su cui erano basate sono ormai vecchi, quelli nuovi non le supportano più. Anche se i badge in futuro scomparissero non scomparirebbero gli anglicismi, sarebbero sostituiti da nuove cose dette in inglese, se non cambia il vento. Già Arrigo Castellani aveva compreso negli anni ’80 che per un anglicismo che esce ne entrano 10, anche se forse i suoi conti erano ottimistici, ne entrano molti di più, stando proprio all’analisi dei dizionari. Un saluto.

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