Chi fa la lingua? E chi fa l’itanglese?

Davanti all’anglicizzazione della nostra lingua, il ruolo dei linguisti, la guida dell’Accademia della Crusca, le iniziative come i dizionari delle alternative e dei sinonimi agli anglicismi sono molto importanti. Costituiscono un punto di partenza fondamentale, ma non certo sufficiente, perché il fenomeno è extralinguistico: la lingua non è fatta, né può essere fatta, dai glottologi; evolve con altre dinamiche imprevedibili, nasce dal basso e dall’alto, snodandosi tra norme e uso.

Per arginare il fenomeno dell’itanglese occorre dunque una rivoluzione culturale che parta proprio dai centri di irradiazione della nostra lingua. Prima di provare a reagire, bisogna perciò comprendere quali siano.

L’evoluzione dell’italiano: dai modelli letterari all’epoca del sonoro

Storicamente furono gli scrittori e i letterati a fare l’italiano, molti secoli prima che l’Italia si costituisse politicamente. Questo italiano letterario, con le sue regole e allo stesso tempo molto variegato, non era però un patrimonio di tutti, era la lingua dei libri e della scrittura, ma non era parlato e praticato dagli italiani nella quotidianità.

Manzoni non parlava l’italiano, si esprimeva in milanese nei contesti cittadini e prevalentemente in francese in quelli più istituzionali:

Supponete dunque che ci troviamo cinque o sei milanesi in una casa dove stiam discorrendo, in milanese, del più e del meno. Capita uno, e presenta un piemontese, o un veneziano, o un bolognese, o un napoletano, o un genovese; e, come vuol la creanza, si smette di parlar milanese, e si parla italiano. Dite voi se il discorso cammina come prima; dite se ci troviamo in bocca quell’abbondanza e sicurezza di termini che avevamo un momento prima; dite se non dovremo ora servirci d’un vocabolo generico o approssimativo, dove prima s’ avrebbe avuto in pronto lo speciale, il proprio; ora aiutarci con una perifrasi, e descrivere, dove prima non s’avrebbe avuto a far altro che nominare; ora tirar a indovinare, dove prima s’era certi del vocabolo che si doveva usare, anzi non ci si pensava, veniva da sé (…) lo confesso, il non poter chiamar mio idioma, se non quello in cui io le sappia dire, cioè il milanese.

[“Della lingua italiana”, in Opere inedite e rare, pubblicate per cura di Pietro Brambilla da Ruggero Bonghi, Enrico Rechiedei e Ci editori, Milano 1891].

Questo passo è interessante per comprendere come lo scrittore abbia speso vent’anni per formare la lingua modellata sul fiorentino vivo dei Promessi sposi, che tra le polemiche, si è successivamente imposta come il modello vincente.

Passando dalla lingua scritta e letteraria al parlato, si esprimevano in piemontese e in francese anche Cavour, o Vittorio Emanuele II,  e dopo l’unificazione dell’Italia restava ancora da fare l’italiano, per parafrasare Massimo D’Azeglio.

Soltanto un secolo fa, durante la Grande Guerra, c’erano notevoli problemi di comprensione tra gli ufficiali piemontesi e le masse di braccianti del meridione, perché gli elementi comuni tra i dialetti del Nord e del Sud erano pochi e un piemontese e un pugliese, o un veneto e un siciliano non si capivano.
In seguito i dialetti cominciarono ad italianizzarsi sempre di più anche con la costituzione della leva obbligatoria, che portò al contatto fisico degli italiani di diversa provenienza, e poi l’italiano si fece strada come patrimonio comune con le riforme della scuola che estromisero i dialetti dall’insegnamento (in un primo tempo visti come un ostacolo all’unificazione linguistica), e ancora con la scolarizzazione sempre maggiore, con la diffusione dei giornali, o delle opere teatrali. Ma solo con l’epoca del sonoro, per la prima volta, si pose la questione di un italiano parlato che fosse un modello per tutti, di lessico e di pronuncia.

L’italiano di oggi nasce dunque con la radio (1924) e con l’avvento del sonoro al cinema (1927). Questi paradigmi furono molto più potenti dello scritto per l’unificazione della nostra lingua. In epoca fascista nacque a Roma una scuola di dizione che si impose come il modello della radio e del doppiaggio cinematografico, e in caso di divergenze tra la pronuncia fiorentina e quella romana fu la seconda a essere scelta come il canone del regime (Roma caput mundi). In questa nuova fase, i modelli letterari e il fiorentino pesavano sempre meno nell’evoluzione dell’italiano moderno, e con l’avvento della televisione (1954) il ruolo-guida della letteratura subì un colpo di grazia.

Gli anni Sessanta e la tecno-lingua dei centri industriali del Nord

Mentre la distanza tra la lingua dei libri e del parlato si accorciava sempre di più, negli anni Sessanta fu Pier Paolo Pasolini (“Nuove questioni linguistiche”, Rinascita, 26 dicembre 1964) a capire lucidamente che l’italiano basato sui testi letterari e sul toscano era finito. Il nuovo italiano era tecnologizzato, raccoglieva gli influssi del modo di parlare del Nord, il nuovo centro di irradiazione, un neoitaliano che si staccava da quello di Roma e Firenze, ed era sempre più policentrico: esprimeva il linguaggio della nuova classe egemone, la “borghesia capitalista”. In definitiva, dopo l’epoca degli scrittori, erano ormai gli imprenditori, gli scienziati e i giornalisti (nella loro accezione anche televisiva) coloro che avevano sempre più il potere di decidere della sorte della nostra lingua. Anche se molti linguisti di allora diedero torto a Pasolini, come osserva Claudio Marazzini:

oggi “non si può negare che lo scrittore intuì meglio di altri la tendenza alla quale si avviava la lingua nazionale, la quale iniziava davvero un processo di definitivo distacco dalla propria tradizione umanistico-letteraria”.

[L’ italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua, Rizzoli 2018, p. 132].

Il ruolo dell’industrializzazione nella nuova lingua è stato enorme. Per fare qualche esempio significativo, basta ricordare Gian Luigi Beccaria che ha notato come la grande distribuzione gastronomica abbia unificato linguisticamente molti alimenti che prima venivano detti in una miriade di varietà regionali. Oltre al caso dei crumiri di Casale Monferrato:

“Dei dolci, soltanto quelli che hanno nome commerciale, industriale (panettone, pandoro, panforte) portano denominazioni nazionali” mentre “il dolce tipico di carnevale, difficilmente commerciabile su larga scala perché andrebbe tutto in briciole” ha ancora nomi diversi a seconda dei luoghi: chiacchiere, bugie, crostoli, frappe, galani e via dicendo.

[Misticanze. Parole del gusto, linguaggi del cibo. Garzanti 2009, p. 171].

E oggi cosa sta avvenendo?

Questo fenomeno sta continuando su scala mondiale, e dopo l’era del linguaggio del Nord, la neolingua dei mercati è basata ormai sull’esportazione dell’inglese.


L’italiano anglicizzato del nuovo Millennio

La scienza parla l’inglese. La tecnologia si esprime in inglese. I giornalisti riportano, spesso virgolettando senza tradurre, le espressioni angloamericane che attingono dalle fonti internazionali, e le diffondono così nella nostra lingua prive di alternative, dalle “fake news” di Donald Trump, allo “shutdown” che circola in questi giorni su tutti i mezzi di informazione senza alcuna spiegazione né alternativa. Lo stesso accade per ogni tipo di neologia che ci porta la globalizzazione e l’espansione delle multinazionali d’oltreoceano. Purtroppo, al contrario di quanto avviene in altri Paesi come Francia e Spagna, noi non manifestiamo alcuna reattività di fronte a questo fenomeno (ci sono persino linguisti “lungimiranti” che lo negano e ci dicono che è tutta un’illusione ottica), anzi, la aiutiamo dall’interno nella nostra strategia di dire in inglese anche ciò che abbiamo storicamente sempre espresso in italiano nella convinzione di essere più moderni e internazionali. Questa follia non è altro che l’alberto-sordità di Un americano a Roma privata dell’ironia ed elevata a strategia comunicativa.

E così, dopo l’epoca della denominazione nazionale dei prodotti gastronomici regionali è arrivata quella della denominazione sovranazionale del settore del “food” e della grande distribuzione planetaria: le grandi catene di fast food che servono hamburger, cheesburger e milkshake, a cui si aggiungono i nuovi prodotti mondiali come i marhmalllow, i muffin, le cheese cake, che si sposano con il cake design. Mentre le patatine diventano chips, abbiamo interiorizzato senza alternative i self service, il take away, gli all can you eat; nei discount si trovano gli energy drink e i prodotti sugar free e fat free, che si possono assaggiare nei  food corner. Ci compiacciamo di questo inglese che è allo stesso tempo merce, lingua e cultura, e in questo modo, dopo l’invenzione tutta italiana di marchi dal suono inglese come Autogrill, anche i nuovi “brand” del settore si chiamano oggi Slow food o Eataly, mentre enoteche, cantine e vinerie si trasformano in wine bar, come la metà delle insegne dei negozi delle grandi città a cominciare dai parrucchieri che sono ormai hair stylist, per non apparire antiquati come la nostra lingua.

Dopo l’epoca degli industriali del Nord e della loro lingua, individuata da Pasolini, è arrivata quella dei colossi mondiali che esportano la neolingua del nuovo Millennio. Tutto il settore delle merci si sta anglicizzando: negozi, botteghe e punti vendita cedono il posto agli shop e agli store: e-store, e-shopping, megastore, pet shop, pop up shop o temporary shop, sex shop detti sexy shop all’italiana (con i sex toys e gli strap-on), showroom, shopping center, bookshop, beauty shop (center e farm), phone center, outlet, supermarket


L’informatica e la Rete

Le merci e i loro nomi in inglese diventano un tutt’uno indivisibile, fanno parte dello stesso pacchetto nominalistico-culturale da esportare. Questo è particolarmente evidente nel caso dei colossi mondali dell’informatica e della Rete: Microsoft, Google, Facebook. Noi ripetiamo quel che leggiamo sulle scatole degli articoli che ci vendono e sulle interfacce dei loro prodotti che utilizziamo, perciò non ci resta che downloadare, googlare, whatsappare, twittare, photoshoppare, e in questa moria dell’italiano anche i semi-adattamenti italiani scompaiono davanti alle regole interiorizzate dall’inglese: non ci sono bloggatori o chattatori, ma blogger e chatter, sul modello di youtuber, follower, influencer, hater, hacker, cracker, surfer che vanno di pari passo con i designer, i rapper, i runner, i pusher, i serial shopper, gli skipper, gli speaker, gli stopper

Come è possibile non cogliere l’assimilazione di una desinenza inglese che stiamo importando senza rendercene conto in una regola istintiva e inconscia? Come è possibile non vedere che gli anglicismi costituiscono una rete sempre più fitta di radici e di parole interconnesse che si espandono nel nostro lessico?

Davanti a tutto ciò, affrontare il fenomeno della penetrazione dell’inglese attraverso categorie obsolete come quelle dei “prestiti” isolati – come molti linguisti continuano a fare – significa non comprendere la realtà, e non avere gli strumenti per reagire. Come si fa a non cogliere dietro questi fenomeni una strategia che vede come unica soluzione quella di importare le cose nuove con nomi in inglese, invece di adattare, coniare neologismi o allargare il significato delle nostre parole?

La tecnologia senza fili inventata da Marconi la reimportiamo con il nome di wireless legata al digitale, che si sposa con il cordless (less è uno degli anglicismi formanti più infestanti: dopo il topless, sono arrivati gli homeless, i genderless, i ticketless, i conctactless e moltissime altre parole “italianless”). L’informatica è la parte della nostra lingua numericamente più devastata, ma non è un caso isolato, è solo il settore più contaminato e più eclatante. Il problema è che sta accadendo lo stesso in ogni ambito.

Dai linguaggi di settore a quello delle istituzioni

Nello sport quasi tutte le nuove discipline entrano con nomi in inglese senza traduzioni: il bungee jumping e non il salto con elastico, il nordic walking e non la camminata nordica, il canyoning e non il torrentismo, e quindi si impongono senza alternative il carving, lo spinning, il twirling, lo stand up paddle, mentre le traduzioni storiche regrediscono e si parla sempre meno di pallacanestro, pallavolo e pallanuoto e sempre più di basket, volley e waterpolo anche nelle denominazioni ufficiali.

L’italiano non è più in grado di essere autosufficiente e non ha più una sua terminologia in troppi ambiti, dalle nuove professioni del lavoro alle strategie commerciali chiamate marketing, e sta regredendo nell’ambito della moda, della tecnologia, della scienza,  sempre più incapace di produrre i neologismi che servono per sopravvivere nel futuro.

I mezzi di informazione che in passato hanno unificato l’italiano oggi lo distruggono. Non c’è solo il linguaggio anglicizzato dei giornalisti, ormai i canali Rai sono in inglese: Rai movie, Rai Premium, Rai News, Rai Gulp per i bambini. Lo stesso vale per molti altri canali in chiaro (Paramount, Real time) e a pagamento (Discovey channel, Sky). I palinsesti televisivi sono sempre più affollati di anglicismi nel linguaggio (reality show, talk show, soap opera, fiction, sit-com, pay tv, telemarketing, entertainment, nomination) e anche nei nomi di alcune trasmissioni (Voyager, Tabloid, Report, X-Factor, e persino ossimori come The Voice of Italy o Italia’s Got Talent) che sempre più spesso sono rifacimenti di programmi acquistati dagli Stati Uniti. E tutto questo non può che avere forti ripercussioni anche sulla lingua degli italiani.
Anche il cinema produce sempre più anglicismi a cominciare dai titoli delle pellicole angloamericane che non sono più tradotte. E così si diffondono parole come highlander, top gun, day after, che travalicano i confini cinematografici e straripano nella lingua comune, mentre i generi drammatico o commedia diventano drama e comedy, e la terminologia delle riviste di settore si esprime con concetti culturali in inglese: i remake, i prequel, gli spin-off

Persino la pubblicità ha contribuito storicamente a fare la lingua (nel bene e nel male), creando espressioni codificate (crea un’atmosfera, il logorio della vita moderna…) e parole (brillantante, maxi-formato), ma oggi parla sempre più l’inglese dei prodotti globali, nelle offerte anglicizzate come le limited edition, e nei nomi commerciali che diventano parole di uso comune (post-it, scottex, tampax, scotch…).
In inglese si esprime gran parte della modernità nella musica, gli anglicismi colonizzano sempre più il linguaggio economico e finanziario, penetrano nel linguaggio della formazione e della scuola, e questo è gravissimo. Se agli inizi del Novecento è stata la scuola a unificare l’italiano e renderlo un patrimonio comune, insieme ai giornali e all’epoca del sonoro, oggi questi centri di irradiazione diffondono l’inglese. E come se non bastasse si anglicizza il linguaggio di aziende come le Ferrovie dello Stato, e dei competitori come Italo che introducono il train manager al posto del capotreno,  e poi quello delle città come Milano… che è il nuovo “centro di irradiazione del Nord” per tornare a Pasolini.

Se questi sono i centri di irradiazione della lingua, quelli che in passato hanno unificato l’italiano e che oggi diffondono l’inglese, su questi occorre intervenire con una rivoluzione culturale che porti a riappropriarci della nostra lingua in ogni ambito, a cominciare dagli addetti ai lavori. Ma perché questo possa avvenire occorrerebbe una politica linguistica. E invece non possiamo che constatare tragicamente che l’inglese è ormai entrato anche nel linguaggio istituzionale, dalle leggi alla politica.

Gli anglicismi sono entrati dunque nel cuore dello Stato. E questo è inaccettabile, è il segno che il limite è stato abbondantemente superato. Ed è ora di intervenire, di protestare e di fare qualcosa.

La rivoluzione culturale necessaria per arginare l’itanglese deve partire proprio dalla politica, come avviene in Francia e negli altri Paesi civili. E se i nostri politici non lo vogliono fare è necessario che i cittadini e gli italiani si costituiscano in un movimento e in un gruppo di pressione che, come elettori, potrebbe far cambiare l’atteggiamento della politica italiana che invece di tutelare la nostra lingua la sta depauperando.

Perché la lingua si fa dall’alto, ma si fa anche dal basso: la facciamo tutti noi.

(continua)

16 pensieri su “Chi fa la lingua? E chi fa l’itanglese?

  1. Mi ha stupito la “gioventù” dell’italiano, così come il limitatissimo periodo in cui è riuscito a sviluppare una terminologia tecnico-scientifica autoctona, prima di arrendersi all’inglese. Che peccato…

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    • L’italiano parlato non ha nemmeno un secolo di vita, inteso come patrimonio unitario, purtroppo la scuola non lo insegna, e non si trovano molte riflessioni sull’argomento. Diverso è il caso dell’italiano scritto, che ha i suoi secoli di storia, ma è sempre stata una lingua quasi “artificiale” in bocca alla gente (con le eccezioni dell’area tosco-centrale), come sintetizza il passo di Manzoni citato (ma anche questo la scuola non lo insegna molto). La terminologia scientifica invece è più antica, perché risale alla tradizione scritta, è stata inaugurata con Galileo e si è diffusa facendosi largo tra la tradizione del latino, con giganti come Redi, Vallisneri, Spallanzani… anche se ormai regredisce.

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  2. Mi ricordo che in una puntata di “Colombo”, un personaggio andava in quella che veniva tradotta nel doppiaggio come “fattoria della bellezza” (o “della salute”, non ricordo). All’epoca probabilmente qua non esistevano, ma poco dopo sono apparsi quelli che per un certo periodo si sono chiamati “centri benessere”. Ma la denominazione è durata ben poco mi sa…

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  3. Condivido in pieno il pensiero di Lucy e aggiungo anche il settore della moda. Sono entrambi miei settori specialistici e quando traduco evito accuratamente tutti i termini elencati sopra.
    Aggiungo che sono abbastanza ottimista. Secondo me si tratta, praticamente per tutti gli ambiti, di espressioni e termini che nascono sulla scia di una moda, e che come tutte le mode passeranno. Personalmente, quando mi imbatto in un blog o in un libro che a prima vista pare interessante ma che a una lettura più attenta cavalca quest’onda superficiale e assurda, lo lascio perdere subito: che si tratti di cucina, moda, istruzione, formazione permanente, cultura, informazione o quant’altro. Che contenuto può mai trasportare una parola usata principalmente perché “adesso si usa così?”
    In un articolo che ho letto ieri sulla NZZ, incentrato su un tema analogo, l’autore cita Schopenauer, che già nell’Ottocento criticava lo “scempio” perpetrato ai danni della lingua tedesca; le “innovazioni linguistiche” di allora, conclude l’autore dell’articolo, sono da tempo morte e sepolte, mentre Schopenauer lo si legge ancora oggi: c’è speranza.

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    • Ciao Giovanna, grazie del tuo contributo. Io però non sono così ottimista, non vedo una moda passeggera nel fenomeno dell’inglese, ma una strategia comunicativa che consiste nell’importare tutto ciò che è nuovo in inglese crudo, senza mai adattarlo o tradurlo (a costo di inventarlo, vedi “navigator”). Questo processo sta portando alla regressione di molte parole italiane e l’italiano non è più autosufficiente in motli ambiti, dall’informatica al lavoro, dalla tecnologia alla scienza… Sto facendo da tempo degli studi statistici sul fenomeno, e gli anglicismi stanno aumentando in un modo senza precedenti con una velocità senza precedenti: nel giro di 50 anni hanno colonizzato la nostra lingua soppiantando totalmente il primato del francese che però è il risultato plurisecolare dei substrati storici che ci hanno inflenzato sin dai tempi di Dante (qui trovi qualche grafico: https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2017/09/12/i-forestierismi-nellitaliano-i-numeri-del-devoto-oli-2017/ ). Non esistono dati sulla regressione e l’obsolescenza degli anglicismi, e allora ho provato a farne uno io: da un confronto tra il devoto oli 1990 e quello del 2017 ne sono usciti solo 69, e ne sono entrati circa 2000 nuovi. Il 50% dei neologismi del nuovo Millennio è in inglese crudo. I francesismi, come gli ispanismi, sono stati assimilati e italianizzati nella gran parte dei casi, gli anglicismi no. Non ci sono precedenti con i tanti allarmi sui forestierismi fatti nel passato, basati su criteri ispirati al purismo e non sul reale numero di forestierismi crudi che stravolgevano la lingua. In altre parole gli allarmi sul francese che si facevano sin dai tempi di Leopardi (https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2017/09/13/una-precisazione-di-leopardi-sulla-necessita-di-una-lingua-sovranazionale/ ) non riguardavano i francesismi non adattati e crudi, ma le parole italianizzate di origine francese: i puristi le condannavano, ma non violavano le nostre regole morfosintattiche, non erano cioè “corpi estranei”. Se non si interviene con una politica linguistica e con una rivoluzione culturale che possa far cambiare questa “moda-strategia” io vedo un futuro fatto di colonializzazione lessicale dell’inglese e basta, non vedo alcun segnale di mode passeggere. Un saluto.

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  4. Trovo molto utili i tuoi studi statistici, e non c’è dubbio che il fenomeno esista, nelle modalità e dimensioni che evidenzi. Però sono anche convinta che questo itanglese ovunque compaia denoti scarsa qualità e che non siano in pochi ad accorgersene. Forse la rivoluzione culturale che auspichi è già in corso, altrimenti non saremmo qua a commentare 🙂 e il dizionario AAA non sarebbe così ben fornito anche grazie alle segnalazioni degli utenti (mi aiuta spesso !). Cari saluti!

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  5. Io resto dell’idea che la Crusca potrebbe giocare un ruolo fondamentale nell’indirizzare media, politici e persone comuni verso l’utilizzo di parole italiane. Invece registra la “colonizzazione” degli anglicismi, spesso promuovendone addirittura l’utilizzo. In questo caso, giusto per citare un esempio, si suggerisce di utilizzare “database” insieme a “banca dati” per essere chiari nella comunicazione. http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/database-questione-cos-semplice-cos-complica

    Se pure la Crusca mi “esce l’anglicismo”, come dici tu, occorre una rivoluzione culturale, un movimento formato da parlanti che si oppongano a questa tendenza apparentemente inarrestabile.

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