L’italiano cede il passo all’inglese sul piano interno e anche internazionale

Di Antonio Zoppetti

Nelle ultime settimane l’itanglese dei giornali ha raggiunto dei picchi notevoli anche grazie a una serie di manifestazioni tutte italiane, tranne che nella lingua.

A Vinitaly, di cui è già pronta la campagna per la prossima edizione, gli amanti del vino sono definiti Wine Lover, c’è il Design Award, e gli appuntamenti internazionali, di cui il sito invita al save the date, sono in inglese: tutto si chiama Around the World, e oltre alle date, anche le città come Belgrado sono tradotte in inglese.

Le motivazioni di queste scelte sono legate a un voler essere “internazionali” puntando sulla lingua inglese rivolta all’esterno e all’itanglese sul piano interno. Eppure, nei ristoranti di lusso dei Paesi anglofoni, da New York a Melbourne, i menù propongono il “vino”, perché questa è la parola italiana che evoca la nostra eccellenza nel mondo, e non Wine.
È bizzarro avere a che fare con i tanti che sono pronti a spiegarci che è giusto e “necessario” introdurre in inglese ciò che arriva dagli Stati Uniti perché è normale che le culture esportino nella propria lingua i settori dove sono forti. Ma questi stessi personaggi, quando si tratta di esportare i nostri punti di forza – dal Made in Italy all’Italian Design – sono pronti a spiegarci anche tutto il contrario, e cioè che è giusto e necessario usare l’inglese, perché è la lingua internazionale. Il risultato è che non c’è che l’inglese in questo curioso import-export basato su due pesi e due misure.

Quale altro Paese storpia il proprio nome in inglese, invece che esportarlo nella propria lingua? La scelta di Vinitaly al posto per esempio di Vinitalia è come chiamare Pirandello Louis invece di Luigi, riscrivere con “Italy’s Brothers” l’inno nazionale, proclamare il Green, il White e il Red i colori della nostra bandiera, magari con la scusa di una standardizzazione internazionale dei Pantone.

Passando dal Wine al Food, che dire della manifestazione Woman in Food, abbreviata in Wif?

Mentre fortissime pressioni sociali, spesso proprio in nome del politically correct, spingono per educare tutti all’inclusione o alla femminilizzazione delle cariche, perché “ogni parola ha le sue conseguenze” e dunque è giusto e normale intervenire sull’uso per cambiare il modo cui ci siamo sempre espressi, in questi stessi ambienti riformatori che introducono la sorellanza accanto alla fratellanza, non c’è invece alcuna attenzione per l’anglicizzazione della nostra lingua, e tra Cook e food stylist, l’inglese viene ostentato come se ci fosse da andarne fieri. Su questo aspetto guai a intervenire! Guai a parlare di politica e pianificazione linguistica, sul fronte dell’itanglese, perché invece che guardare a cosa si fa oggi in Francia in Spagna, in Svizzera e nelle moderne democrazie, i nostri intellettuali sembra che sappiano guardare solo ai tempi del fascismo, quando le parole straniere vennero messe al bando e sono pronti a spiegarci che la lingua non si può di certo imporre dall’alto. Di nuovo si adottano due pesi e due misure, la pianificazione linguistica è perseguita su alcune questioni e negata per altre. E allora abbasso la discriminazione della donna, ma viva la discriminazione dell’italiano, degli italiani e delle italiane!

Mentre a Milano impazza quello che un tempo era il Salone del mobile, la parola d’ordine è una sola: rinominarlo con la Week Design, in attesa forse che anche il Fuorisalone divenga l’OutDesign. Il “renaming” è imposto dall’alto e i giornali sono i cani da guardia di questo revisionismo linguistico che hanno il compito di diffondere: Week, Week e se non basta: Weekend!

Intanto, nella nostra demenza culturale, abbiamo pensato di anglicizzare anche il logo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, per presentarci così, in inglese, a tutto il mondo, senza riflettere sull’impatto, fuori dai Paesi anglofoni, di questa scelta miope, perché siamo convinti che anche tutti gli altri siano – come noi – una provincia degli Usa. Dunque, invece di tradurre e puntare al plurilinguismo nel presentarci in Francia, Spagna, Germania e ovunque, ci presentiamo direttamente in inglese come fossimo un Paese anglofono.

In una recente pubblicità rivolta alla Francia (Histoire d’or à l’italienne) promossa dal nostro Ministero e dall’Italian Trade Agency (nome tipicamente italiota) è successo un bel pasticcio, perché le associazioni francesi si sono inviperite proprio perché il nostro inglese viola le loro leggi.

L’irriducibile Daniel De Poli, che da anni si batte contro l’anglicizzazione del francese – tempo fa mi ha segnalato il caso della condanna all’Aeroporto di Metz-Nancy-Lorraine – mi ha subito scritto facendo presente:

“Le menzioni in inglese Ministry of Foreign Affairs and International Cooperation e Italian Trade Agency sono illegali, perché contravvengono all’articolo 3 della legge del 4 agosto 1994 (legge Toubon) che recita:
Qualsiasi iscrizione o annuncio affisso o fatto sulla pubblica via, in un luogo aperto al pubblico o su un mezzo di trasporto pubblico e destinato all’informazione del pubblico deve essere formulato in francese (art. 3).
Per di più, l’uso dell’inglese negli annunci pubblicitari dovrebbe essere evitato poiché molti francesi non capiscono o fraintendono la lingua inglese. Una menzione in francese ha molto più impatto perché è immediatamente comprensibile. Penso quindi che sarebbe auspicabile attivarsi affinché le prossime menzioni siano scritte in francese in Francia, per esempio traducendo in francese, invece che in inglese: Ministère des Affaires étrangères et de la Coopération internationale e Agence italienne pour le commerce extérieur.
Infine, vorrei sottolineare che questo tipo di reato – l’uso illegale dell’inglese – dà luogo ad azioni legali da parte dell’associazione di difesa della lingua francese Francophonie Avenir, che spesso hanno portato a delle condanne. Lo stesso governo di Emmanuel Macron è stato perseguito in diversi casi (casi 3, 4, 5 e 7), e il 20 ottobre 2022 c’è stata la condanna per un uso illegale del marchio Health Data Hub.”

Naturalmente, Daniel De Poli non ha scritto solo a me, ma si è rivolto alle associazioni per la tutela del francese e anche alle nostre istituzioni diffidandole, per il futuro, di presentarsi in Francia come un Paese anglofono. E la sommessa risposta di cortesia che ha ottenuto è la seguente:

Egregio Sig. De Poli,
la ringraziamo per l’attenzione mostrata verso le attività della nostra Agenzia e per la Sua cortese segnalazione, ricca di spunti informativi.
Siamo a conoscenza dei contenuti e delle prescrizioni della Legge n. 94-665 del 4 agosto 1994, che applichiamo con attenzione nelle nostre attività promozionali volte a sostenere le aziende italiane che desiderano operare sul mercato francese. Le menzioni in inglese cui fa riferimento riguardano in effetti la versione internazionale del logo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale della Repubblica Italiana e il logo stesso dell’Agenzia ICE, oggi Italian Trade Agency.
Alla luce di quanto da lei segnalato, ci riserviamo quindi di approfondire e verificare le modalità più corrette per esporre i loghi ufficiali del Ministero e dell’Agenzia in eventuali futuri annunci destinati al pubblico francese.

Cordiali saluti…”.

Davanti all’ammissione, a mio avviso sconcertante, che la versione “internazionale” del logo non è all’insegna del plurilinguismo ma concepita solo in inglese, non ho molto da aggiungere, a parte vergognarmi e dolermi profondamente della nostra provinciale pochezza che ci sta trasformando in una “colonia” anche dal punto di vista linguistico, oltre che economico, politico, militare e culturale. Voglio però riportare un’altra segnalazione arrivata da Daniele Imperi che mi pare un’ottima conclusione per farci riflettere su dove stiamo andando.

Si tratta di una schermata presa dal profilo Instagram dei nostri Oscar Mondadori. A prima vista sembra un libro in inglese, ma invece è in “italiano”, a partire dal titolo non tradotto, sino alle indicazioni del genere (Contemporary romance), dei contenuti (What’s Inside?), e delle spiegazioni (Doppio PoV, Single mom…). Questo sarebbe il nuovo “italiano”, per certi linguisti che ci spiegano come la nostra lingua sia “vitale” e vispa, o per quelli che ci spiegano che l’anglicizzazione è tutta un’illusione ottica… La realtà è che questo è itanglese, il nuovo modello linguistico della cancel culture diffusa e imposta dall’alto a partire dalle nostre istituzioni, dai nostri mezzi di informazione, e dalla nostra classe dirigente che ha rinunciato all’italiano.

Se l’aeroporto diventa “airport”: la sentenza che in Francia ha condannato l’anglomania

Di Antonio Zoppetti

Un corrispondente dalla Francia da sempre impegnato contro l’anglomania, l’attivissimo Daniel De Poli, mi ha segnalato una notizia che voglio divulgare, visto che i mezzi di informazione difficilmente la racconteranno.

Tutto ha avuto inizio nel 2015, quando l’aeroporto di Metz-Nancy-Lorraine (la cui denominazione ufficiale francese era “aeroport de Metz-Nancy-Lorraine”) ha deciso di anglicizzare quel nome trasformandolo in “Lorraine Airport”, che oltre all’anglicismo ha introdotto anche l’inversione sintattica tipica dell’inglese. La motivazione era la solita, tutto era stato fatto in nome di una presunta “internalizzazione” che presuppone e dà per scontato – senza alcun fondamento – che la lingua internazionale sia l’inglese.

È una posizione che ben conosciamo in Italia, è la stessa logica con cui alcune università – dal Politecnico di Milano all’Università Bocconi – vogliono estromettere l’italiano e insegnare solo in inglese.

Questo disegno viene messo in opera in modo surrettizio, ma sistematico, attraverso piccoli passi apparentemente insignificanti, per esempio le carte d’identità concepite in modo bilingue (lingua nazionale + inglese) anche se l‘inglese non è affatto la lingua dell’Europa, soprattutto dopo l’uscita del Regno Unito.
In nome di questa ideologia linguicista le nostre istituzioni hanno deciso che i progetti di ricerca (dai Fondi per la scienza, i FIS, a quelli culturali, i Prin) debbano essere presentati obbligatoriamente in lingua inglese anche se si tratta di ricerche che riguardano materie italiane, con la paradossale conseguenza che per ottenere un finanziamento “italiano” di ricerca su Dante Alighieri bisogna presentarlo in inglese. Questa dittatura dell’inglese ci è stata imposta in modo ancora più pesante con la riforma Madia dei concorsi della Pubblica Amministrazione: il requisito di conoscere una “seconda lingua” è stato sostituito con la parolina magica “inglese”, che è diventato così un obbligo e un requisito indispensabile indipendentemente dai ruoli e dal fatto che la conoscenza di questa lingua sia davvero necessaria.

Naturalmente far coincidere “internazionale” e “inglese” è una voluta confusione che deriva da un progetto e da una visione politica che punta ad affermare e a imporre a tutti la lingua naturale dei popoli dominanti. In Italia siamo in prima linea nel sostenere e nel diffondere questa visione che fa dell’inglese una lingua superiore, ma in Francia le cose vanno diversamente, e davanti al cambio di nome dell’aeroporto sono divampate da subito le polemiche.

E così, l’associazione per la difesa della lingua Francophonie Avenir, dopo aver chiesto invano alla struttura di rinunciare all’inglese, ha intrapreso la via giudiziaria, visto che in Francia esistono delle ottime leggi a tutela della lingua. E dopo otto anni di battaglie, finalmente il 14 dicembre scorso è arrivata la sentenza che ha sancito la vittoria dell’Associazione: l’aeroporto è stato condannato a ripristinare il vecchio nome francofono e a riutilizzarlo nella denominazione ufficiale, su tutti i documenti, i cartelli e la segnaletica, la pubblicità, la documentazione cartacea e virtuale. Inoltre dovrà pagare le spese processuali, un risarcimento nei confronti dell’associazione e una multa simbolica di un euro per aver violato le leggi francesi (per chi è interessato, ecco il collegamento alla sintesi della vicenda dell’A.FRA.AV e il verbale della sentenza).

In Italia, invece, dove la compagnia di bandiera Alitalia è stata sostituita da ITA Airways, non esistono leggi in proposito, non esistono punti di riferimento e associazioni, e persino la Crusca – al contrario delle accademie di Francia e Spagna – ha un approccio descrittivo verso la lingua e ha rinunciato a essere prescrittiva. Dunque, come ho già denunciato in un altro articolo, di recente è accaduto che, per opera dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Meridionale, sia iniziato il processo di anglificazione dei porti pugliesi con la dicitura Port of Manfredonia, Port of Monopoli, Port of Barletta

Nella speranza che nel 2024 il vento possa cambiare anche da noi, auguro a tutti buone feste con la consueta raccomandazione di evitare, per piacere, la stucchevole consuetudine di inviare stupidi auguri di buon Natale e buon anno in inglese, con la scusa di essere internazionali.

Il price cap e il tetto agli anglicismi

[di Antonio Zoppetti]

Da qualche tempo sui giornali e in tv la nuova parola d’ordine per l’abbandono dell’italiano è “price cap”, come se non si potesse dire “tetto ai prezzi” del gas, come se l’italiano non esistesse, come se il ricorso all’inglese con la sua inversione sintattica avesse qualche senso o aggiungesse qualcosa. Il riferimento al gas è spesso sottinteso, come se “price cap” fosse un tecnicismo che lo include, al contrario degli equivalenti italiani più generici. La presunta “specificità” degli anglicismi che si differenziano dall’italiano si fa strada sempre con le stesse patetiche modalità.

Le attuali frequenze di “price cap”

Se quantifichiamo questo nuovo uso i risultati sono impressionanti. Sul Corriere.it l’espressione ricorreva mediamente 3 volte all’anno, ma nel 2022 la sua frequenza restituisce più di 130 articoli. In agosto le occorrenze erano salite a 13, in settembre sono diventate 47, e nei primi 9 giorni di ottobre se ne contano ben 18 (una media di due articoli al giorno).

Sulle altre testate le cose non son molto diverse.

Internazionalismo o provincialismo?

I giustificazionisti dell’inglese penseranno probabilmente che si tratta di un “internazionalismo” degli economisti che ci arriva da un’Europa che parla inglese, anche se non è affatto la lingua ufficiale della Ue. Ma non è per nulla un internazionalismo, bensì un anglicismo tipico dell’italietta colonizzata. La ricerca di “price cap” su Le Monde, per esempio, restituisce solo 3 articoli in tutto l’archivio del giornale. E sui mezzi di informazione francesi e spagnoli a nessuno o quasi viene in mente di usare l’inglese al posto della propria lingua, con cui i nostri vicini hanno il vezzo di esprimersi.

Il nuovo picco di stereotipia giornalistico sembra destinato ad avere delle conseguenze a lungo termine sulla lingua italiana. Il problema di calmierare i prezzi del gas è appena iniziato e rischia di essere un tormentone che ci accompagnerà per molto tempo, e alla fine, se questa diventa l’unica espressione che i mezzi di informazione diffondono, anche la gente non potrà fare altro che ripeterla solo in inglese.

Come è iniziata

I picchi di stereotipia giornalistici che portano gli anglicismi arrivano a ondate legate a eventi contingenti, e quando non sono più di attualità non è vero che le parole inglesi spariscono, il più delle volte diventano solo meno frequenti, rimangono in un periodo di latenza che spesso si riattiva con un nuovo picco di stereotipia che finisce per radicare le espressioni in modo definitivo. Nel libro Diciamolo in italiano, per esempio, ho analizzato il caso di job o di compound (qui una sintesi) e anche l’attuale “price cap” costituisce un secondo picco di stereotipia, la seconda ondata che sta radicalizzando la parola.

Come si evince dai grafici di Ngram Viewer, la prima volta era arrivata all’inizio degli anni Novanta per salire di frequenza in modo rapido, raggiungere il suo primo picco nel 2003, e poi scendere progressivamente.

Cercando sugli archivi storici dei giornali si può constatare che il tetto ai prezzi espresso in inglese a quei tempi era legato alle liberalizzazioni del mercato telefonico, energetico, delle autostrade o dei treni e alle loro tariffe. E così su La Stampa (22/12/2001, numero 352, pagina 5) si leggeva: “Tremonti blocca i prezzi dei biglietti ferroviari. (…) Poi le Fs hanno dato l’annuncio comunicando che non potranno procedere a rincari sulla base dell’attuale price cap (il sistema che permette l’adeguamento delle tariffe quando si innalzano gli standard di produttività ed efficienza)”.

Tra gli altri articoli dedicati alle bollette dell’acqua c’erano pezzi di questo genere: “La bolletta idrica è destinata a lievitare in futuro. Perché? Colpa del «price cap», cioè di quel meccanismo che nella determinazione delle tariffe tiene conto degli investimenti effettuati dalle aziende del settore per migliorare il servizio.”
E tra quelli sulle tariffe telefoniche: “Telefoni: un tetto ai prezzi. Il price cap concerne le tariffe di Telecom Italia (apparecchi fissi) che sono le uniche tuttora stabilite in via amministrativa. Il nuovo meccanismo avvicina la completa liberalizzazione, perché la tariffa potrà variare da un minimo a un massimo.”

Risolte le vicende delle liberalizzazioni che si sono svolte nell’arco di più di un decennio, anche “price cap” è finito nel dimenticatoio, ma come si vede dal grafico di Google il primo picco di stereotipia ha introdotto l’anglicismo portandolo dalle zero occorrenze a un’alta frequenza, che quando si è abbassata ha lasciato l’espressione inglese circolare nella nostra lingua senza che scomparisse.
La fase uno introduce la parola e crea il precedente. La fase due – che si manifesta anche dopo decenni – di solito la stabilizza nell’uso.

Se i grafici di Ngram Viewer non si fermassero al 2019 oggi vedremmo una nuova impennata di “price cap”, ben più alta della prima. E la differenza più eclatante sta nella sfrontatezza dei giornali. Se a cavallo del nuovo Millennio “price cap” era diventato molto frequente, nessun giornale lo urlava nei titoli, che erano ancora espressi in italiano. Nell’archivio storico de La Stampa l’espressione inglese non compare in nessun titolo, sino ai tempi recenti, ma solo nel corpo delle notizie, dove l’anglicismo era introdotto come un “necessario” tecnicismo degli addetti ai lavori che veniva quasi ogni volta spiegato (come nell’articolo del 1999 in figura).

La radicalizzazione di “price cap”

Nell’attuale secondo picco, al contrario, “price cap” è entrato nei titoli e ha sostituito l’italiano, invece che affiancarlo. In questo modo il suo uso è passato dagli ambiti marginali e di settore al linguaggio comune.

Quando la guerra e la crisi finiranno anche le frequenze si abbasseranno, ma l’espressione rimarrà nella disponibilità e nella lingua di tutti, magari pronta a riattivarsi o a ibridarsi con altri anglicismi e altre contingenze. Se “tetto” diventa “cap”, non mi stupirei vedere nascere futuri obbrobri ibridi che lo utilizzeranno al posto dell’italiano.

Come al solito il problema non è nel “price cap” ma nell’invadenza dell’inglese che attraverso questi meccanismi sta portando migliaia di anglicismi che giorno dopo giorno impoveriscono e uccidono l’italiano. E forse sarebbe ora di mettere un “anglicism cap” alla faccenda, per usare un’espressione più consona a far capire il problema agli anglomani.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

L’anarchismo linguistico italiano e la politica linguistica francese

di Antonio Zoppetti

Mentre la nostra Gazzetta Ufficiale si “arricchisce” di anglicismi istituzionali di giorno in giorno, lo scorso 29 maggio, sulla Gazzetta Ufficiale francese, le alternative a molti anglicismi dell’ambito dei videogiochi e degli audiovisivi sono ufficialmente entrate nella lingua di Moliére.

Il processo di regolamentazione della lingua e la creazione di neologismi autoctoni è coordinato dalla Délégation générale à la langue française et aux langues de France, che coinvolge non solo la Commissione per l’arricchimento della lingua francese dell’Accademia di Francia (che sarebbe il corrispondente della nostra Accademia della Crusca), ma anche il Ministero della Cultura, visto che l’organo si muove all’interno dell’autorità del Presidente del Consiglio dei Ministri.
In questa cornice istituzionale ben coesa, sono state coniate le alternative ufficiali a molti termini. Si tratta di soluzioni codificate, chiare e precise, che permettono di esprimere in francese tutta una serie di concetti che in italiano si esprimono solo in inglese.

Un “cloud gaming” diventa semplicemente un videogioco in nuvola (jeu video en nuage), uno “streamer” un giocatore/animatore in diretta (joueur/animateur en direct) e un “pro-gamer” un giocatore professionista (joueur professionnel).

Questa terminologia non è solo fortemente raccomandata – in altre parole consigliata a chi vuole parlare in francese, prima di tutto i giornali – ma è anche il punto di riferimento ufficiale che i funzionari pubblici devono seguire. Il che non significa che i videogiocatori non possano comunicare tra loro nel proprio gergo, visto che ognuno parla come vuole, significa al contrario che esistono delle parole ufficiali da usare nei registri alti e nella comunicazione istituzionale.


Avere simili punti di riferimento permette di arginare il depauperamento della lingua davanti all’invasione di parole inglesi, un fatto su cui l’Accademia francese e le istituzioni hanno espresso grandi preoccupazioni perché, oltre a impoverire il francese, crea fratture sociali e barriere generazionali che portano all’incomprensione, alla mancanza di chiarezza e trasparenza, e dunque al venir meno della lingua come collante sociale (cfr.”Anglicismi: perché l’Académie française è preoccupata“).

Questo atteggiamento di tutela del proprio idioma in Francia fa parte di una politica linguistica che esiste da decenni e che è volta anche ad arginare gli anglicismi in ogni settore, non solo quello dei videogiochi. La terminologa Maria Teresa Zanola, studiando la reazione al “franglese” supportato dalle iniziative pubbliche e private in ambito tecnologico, ha osservato che questa continua coniazione di neologismi sta rendendo il francese una lingua molto vitale (“Les anglicismes et le français du XXIe siècle : La fin du franglais ?”, Synergies Italie, n. 4,‎ 2008). La nostra lingua, al contrario regredisce proprio a causa dell’inglese, e la metà dei neologismi del nuovo Millennio è in inglese crudo perché l’italiano non sta producendo più nulla, si limita a importare anglicismi che spesso finiscono per soppiantare le nostre parole anche quando già esistono.

La notizia di questo ultimo arricchimento del francese è rimbalzata non solo in Francia, ma persino su The Guardian. In Italia, invece, è uscita su piccole riviste magari di settore, e un giornale come il Corriere della Sera, non l’ha minimamente ripresa.
Sulla pagina principale del Corriere.it di oggi c’è invece un pezzo, alla sezione “videogame”, che parla di “Spiderman Remastered”, perché l’Uomo ragno che leggevo da bambino oggi si dice in inglese, una riedizione diventa “remastered”, mentre i giocatori sono “gamer” e le scarpe da ginnastica sono diventate “sneakers” “super tech”. Nel pezzo accanto si legge del “mermaiding” che da giorni il Corriere promuove come lo sport dell’estate con vari articoli, un orologio subacqueo diventa uno “sport watch da marine”, e non parliamo di diodi luminosi, ma soltanto di “led”.

A parte il numero di parole inglesi abnorme, quello che impressiona è che gli anglicismi diventano “prestiti sterminatori” che uccidono le nostre parole.
“Mermading” non circola sui giornali francesi che parlano di nuoto a sirena (nage sirene) o di tenuta da sirena, ma non si trova nemmeno in quelli spagnoli, siamo solo noi che ci riempiamo la bocca di queste americanate, incapaci di usare la nostra lingua di cui ormai ci vergogniamo.

I pochi articoli italiani che hanno riportato la notizia che arrivava dalla Francia l’hanno presentata come una bizzarria, come qualcosa di assurdo o di anacronistico tipico dello sciovinismo francese, commentando con il solito guazzabuglio di luoghi comuni: tutto ciò ricorda la guerra ai barbarismi di epoca fascista; l’inglese è più corto, è moderno e internazionale; tradurre è ridicolo; non si può imporre alla gente come deve parlare…

Questa sciocchezza dell’inglese più corto e maneggevole dovrebbe davvero finire. Prima dell’avvento del computer, la scrittura avveniva con la “macchina da scrivere”, una locuzione certamente lunga, ma che nessuno ha mai messo in discussione perché mancava una parola “corta”. Al suo apparire, le polemiche iniziali riguardavano il fatto che sarebbe più corretto dire “macchina per scrivere”, ma alla fine i “puristi” hanno dovuto arrendersi davanti all’uso dilagante dell’espressione meno corretta. Eppure nessuno ha mai sentito l’esigenza di abbandonare l’italiano per usare una parola sola, magari in inglese come typewriter. Sarebbe stato inconcepibile e avrebbe suscitato reazioni negative.

Le resistenze davanti ai neologismi sono una costante che deriva anche da secoli di purismo. Ogni nuova parola, inizialmente, ci appare brutta solo perché non siamo abituati a sentirla, come aveva capito Leopardi. Come ha osservato Luca Serianni, questa resistenza alle neologie ha una sua funzione utile alla conservazione della lingua e alla sua coesione. Il fatto grave è che questa ostilità per i neologismi, nella colonia Italia, non è affiancata da un’analoga resistenza di fronte alle parole nuove in inglese, che al contrario ogni volta ci appaiono belle, utili, necessarie, intraducibili, o in grado di evocare qualcosa di diverso dall’equivalente italiano. La combinazione di questi due fattori risulta micidiale (ne ho già parlato in “Orribili neologismi e sedicenti anglicismi: dal purismo all’anglopurismo”), perché mentre l’inglese è sempre accolto tra i plausi, i neologismi italiani e le traduzioni ci schifano. Le conseguenze sono il collasso degli ambiti, la perdita dell’identità dell’italiano, l’itanglese che diventa la lingua della modernità e l’italiano che perde il suo suono storico e muore senza sapersi rinnovare.

La questione della guerra ai barbarismi non c’entra nulla con l’evoluzione e l’arricchimento del francese. Il problema non sono i forestierismi, da condannare per motivi di principio, sono gli anglicismi, e solo quelli, che per il loro numero e la loro invadenza stanno snaturando e colonizzando le lingue locali.
E non è vero che le alternative raccomandate in Francia sono coercizioni che impediscono alla gente di parlare come vuole. Se le alternative vengono coniate, esistono, e vengono promosse, ricorrere all’inglese diventa una scelta sociolinguistica, non una necessità, come in Italia. In Francia, al contrario, sono liberi di scegliere! A proposito di “libertà”, dovremmo renderci conto che da noi avviene tutto il contrario: la gente finisce per parlare come ci impongono i giornali e il linguaggio istituzionale. Quando i politici legiferano attraverso il jobs act, i caregiver, il cashback… quando si introducono il lockdown, il green pass, le dosi booster… quando i giornali annunciano il marmaiding, il gaslighting o il body shaming, non stanno utilizzando il linguaggio “della gente” stanno educando gli italiani a parlare in itanglese. E quando le multinazionali americane ci impongono il loro linguaggio fatto di snippet, widget, follower… e tutta una serie di termini che noi accettiamo con servilismo senza tradurre e adattare, la lingua non è più fatta dai nativi italiani.

L’idea che la lingua italiana sia un processo naturale, nato dal basso e dall’uso popolare è una convinzione falsa e antistorica. La lingua è un fatto politico; e non solo si può orientare, si orienta e si è sempre orientata dall’alto, ma è necessario orientarla per mantenere l’identità linguistica e la coesione sociale. L’italiano è una lingua letteraria nata dall’alto, orientata per secoli prima dall’Accademia della Crusca e poi dagli interventi amministrativi, politici e istituzionali. E soprattutto, l’unificazione dell’italiano è avvenuta solo nel Novecento proprio grazie alla lingua dei mezzi di informazione, che oggi la stanno al contrario distruggendo e trasformando in itanglese.

Non si può negare la storia e far credere che non sia così e che in Francia siano matti. I malati siamo noi! Il liberismo linguistico per cui una lingua va studiata, non va difesa, si sta trasformando in un anarchismo linguistico dove, con la scusa di essere descrittivi e non prescrittivi, in assenza di regole finiamo schiacciati dalla lingua dominante e cannibale che ci fagocita.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Il gaslighting e l’arte della manipolazione dell’italiano

di Antonio Zoppetti

Lo scorso 12 maggio il gregge dei giornalisti ha colpito ancora. Tutti compatti – dalle testate locali a quelle nazionali, sia conservatrici sia progressiste – hanno dato vita a un nuovo momentaneo picco di stereotipia destinato a diffondere l’ennesimo anglicismo. Parola d’ordine: gaslighting!

Il termine è sempre stato di bassa frequenza sui giornali, circolava prevalentemente negli ambienti degli psicanalisti, ma all’improvviso la stampa deve aver pensato bene che è arrivato il momento di rompere gli argini e di procedere con lo tsunami anglicus.

Il Corriere ha persino utilizzato la locandina del film (in lingua originale) per far arrivare il messaggio e per educare il lettore al nuovo termine anche emotivamente.

Che cosa sarebbe il gaslighting

Letteralmente significa solo “illuminazione a gas”, nessun neologismo tecnico, dunque, è solo un’espressione metaforica che deriva dal titolo di un vecchio film, Gaslight (George Cukor, 1944, a sua volta un rifacimento che nasce da un pezzo teatrale del 1938 di Patrick Hamilton). A quei tempi non eravamo ancora stati colonizzati dalle pressioni di Hollywood che impongono in tutto il pianeta i titoli originali, e in Italia è noto come Angoscia.
Si tratta di un bellissimo film che ha valso un Oscar a Ingrid Bergman, la protagonista vittima delle manipolazioni psicologiche del marito che la isola in casa e approfitta di un suo stato di debolezza nel tentativo di farla impazzire, distorcendone i ricordi e la percezione in modo sistematico fino a farla dubitare di sé.
L’episodio simbolo è appunto quello delle lanterne a gas. L’uomo ne affievolisce di nascosto l’intensità, facendo credere alla moglie che quella mancanza di luce sia solo nella sua testa, in un’alterazione della realtà fatta di negazioni dell’evidenza che la inducono a concludere di essere in preda a uno stato allucinatorio privo di riscontri oggettivi.
Stando alla Treccani, negli Stati Uniti, il termine gaslighting si è cominciato a diffondere con questo significato di plagio psicologico a partire dagli anni Settanta, quando il noto criminale Charles Manson penetrava nelle case vuote spostando le cose senza rubare nulla, per generare nelle vittime lo sgomento e l’angoscia. Ma è solo nel 2012 che la parola si è diffusa in senso tecnico tra gli analisti, quando l’ordine degli psicologi l’ha inserita nelle linee guida per la valutazione dei danni psichici che questa violenza mentale comportava.

Il reato di manipolazione psicologica e plagio mentale: italiano, ciao ciao!

Nel nostro ordinamento giuridico la questione della punizione del plagio psicologico e della manipolazione mentale è problematica. Il Codice Penale prevedeva la reclusione da cinque a quindici anni per chi soggiogava una persona al proprio potere riducendola in un grave stato di soggezione (art. 603), ma nel 1981 la Corte Costituzionale ha dichiarato questo articolo illegittimo perché i suoi contorni non erano definibili in modo netto. Nel diritto penale, infatti, solo ciò che è specificato in modo chiaro e oggettivo, cioè “determinato” invece che soggetto a interpretazioni, può essere soggetto a norma incriminatrice. Esiste il reato di circonvenzione di incapace (art 643) che è punito con la reclusione da due a sei anni e con multa da euro 206 a euro 2.065, ma tutela i minori e chi si trova in uno stato di infermità o deficienza psichica e viene indotto a compiere qualcosa di dannoso per sé o per gli altri. È dunque un concetto più ampio e po’ diverso, e solo in parte sovrapponibile. Sulla questione del reato di manipolazione mentale o psicologica, come si dice in italiano, rimane perciò un vuoto legislativo che in più occasioni ha portato a dibattiti e proposte di legge per esempio davanti al fenomeno delle sette che condizionano le persone con tecniche collaudate.

Questo è il nostro quadro concettuale, e questo è il dibattito in corso da noi da svariati anni.
E allora da dove nasce che una testata come QuiComo parli di “denuncia per gaslighting” invece che di maltrattamenti, lesioni e gli altri capi d’accusa possibili in Italia?

Le tecniche di plagio dell’italiano e il reato di manipolazione della lingua

Si tratta del solito meccanismo di riconcettualizzazione alimentato dai tecnici “non-è-propristi”.

Al vertice c’è il globalese, l’inglese internazionale che punta a essere legittimato come la lingua unica della scienza, della formazione, del lavoro e di sempre più ambiti. Ma formarsi e studiare in inglese non è un particolare neutrale e innocente, induce a pensare in inglese; non si è rivelato un processo aggiuntivo, ma sottrattivo: porta a un bilinguismo squilibrato che in buona sostanza fa regredire le lingue locali sia dal punto di vista dell’elaborazione dei concetti e dei pensieri complessi, sia dal punto di vista lessicale. Le parole inglesi in questi casi non sono affatto un arricchimento, che qualcuno chiama “doni”, si trasfomano al contrario in “prestiti sterminatori” che fanno piazza pulita delle parole italiane e costituiscono un depauperamento linguistico e concettuale.
Quando l’Oms, che pensa e parla inglese, introduce nella lista delle malattie riconosciute il burnout, favorisce l’inglese al posto della sindrome dell’esaurimento professionale, così come quando la pratica indiana della piena consapevolezza viene ridefinita in inglese attraverso la mindfulness in italiano c’è solo quest’ultima, visto che non abbiamo una Reale Accademia di Medicina come quella spagnola, né banche dati terminologiche che, come quelle francesi, fissano e istituzionalizzano le alternative locali di piena coscienza (ne avevo già parlato qui). Noi abbiamo solo una classe dirigente anglomane che ripete a pappagallo in inglese tutto ciò che arriva in questa lingua e cultura considerata superiore.
Basta leggere qualche articolo in Rete degli psicanalisti italiani che parlano di gaslighting per rendersi conto che stanno introducendo un concetto in inglese attribuendogli un significato tecnico e peculiare che non riconoscono alla nostra lingua, e non perché non lo possiede, ma perché viene da loro negato con tecniche appunto di gaslighting, e cioè di manipolazione della realtà, di annullamento psicologico, di rimozione dei significati, di sostituzioni e distorsioni che portano a concludere che la parola inglese “non è proprio come le nostre”, e dunque è “necessaria”.
Questo subdolo metodo di condizionamento linguistico si basa su tecniche ben precise.

Il primo assunto è di considerare una parola italiana solo nel suo significato storico, e non come qualcosa di elastico che può ampliare i suoi significati, visto che il lessico delle lingue vive si evolve insieme al mondo. Questo atteggiamento, che ho chiamato “anglopurismo”, prevede che, se non esiste già una parola, ciò che è nuovo si debba esprimere in inglese. È una sorta di “purismo” rivolto contro le neologie a base italiana che cristallizza il nostro lessico solo al passato. Ma se i significati sono solo quelli di un volta e non si possono estendere, una lingua non si può evolvere, e finisce con il morire. Invece, se prima della pandemia “tamponare” indicava un incidente stradale, oggi si usa anche per il fare i tamponi clinici, così come dopo l’avvento di Internet “navigare” significa andare in Rete oltre che solcare i mari. Se davanti all’inglese neghiamo alle nostre parole questa possibilità di risemantizzazione, per cui badante non può diventare caregiver, autoscatto non è come selfie… succede ciò che è successo a calcolatore: la nostra parola autoctona è stata relegata al vecchio e alle macchine di una volta, mentre i nuovi dispositivi sono solo i computer. Il che non si è verificato in inglese, francese, tedesco… dove gli equivalenti si sono ampliati per indicare anche i modelli portatili e di ultima generazione senza alcun bisogno di usare nuove parole.

Il secondo passo è quello di concentrarsi sulle diverse sfumature che l’inglese veicolerebbe, per differenziarlo dalle nostre parole e dai nostri significati. La tesi è sempre la stessa: l’italiano non avrebbe parole altrettanto precise o capaci di rendere tutte le sfumature che vengono attribuite all’anglicismo. E così si afferma che il gaslighting non è proprio come il plagio psicologico o la manipolazione mentale, sarebbe qualcosa di più specifico: una “forma” di manipolazione che implicherebbe la negazione della realtà o di aver fatto e detto delle cose con lo scopo di minare la percezione della vittima e soggiogarla.

Se la manipolazione psicologica dovrebbe essere un reato, anche la manipolazione psicologica dell’italiano dovrebbe essere trattata alla stessa stregua.
Anche perché, se proprio non si vuole allargare il significato delle nostre parole in senso moderno o nuovo, non dovremmo dimenticare le altre strategie che le lingue vive possiedono per evolversi, oltre a importare dall’inglese, e cioè adattare, tradurre o inventare parole nuove. Anche la rimozione di queste possibilità storiche fa parte dell’attuale gaslighting linguistico.

Fare dell’anglosfera il solo modello culturale universalizzante

Affermare che il gaslighting è una tecnica di distorsione della realtà che si differenzia dal plagio o dalla manipolazione è una definizione che viene inventata, introdotta e imposta, è un battezzare e un riconcettualizzare qualcosa che già abbiamo attraverso l’inglese.

Nei titoli di giornale, però, gaslighting non viene affatto usato in questo supposto senso differente (che la metafora inglese non possiede), e si legge: “Finti furti, dispetti e maltrattamenti fino a fare impazzire la compagna” (QuiComo); “Furti simulati e gomma bucata, una trappola psicologica” (Corriere); “Violenze psicologiche sulla compagna con finti furti e vandalismi” (La Repubblica)… Ma tutto ciò è affiancato alla parola gaslighting, per educarci a usarla al posto di manipolazione mentale o plagio psicologico, facendo credere che esista addirittura un (inesistente) “reato di gaslighting“. E inducendo a pensare che tutto ciò sia qualcosa di “nuovo” che proviene dalle sublimi analisi dell’anglosfera (dunque si esprime nella loro lingua), quando un decennio prima prima che gli psicologici d’oltreoceano istituzionalizzassero questo fenomeno, Amélie Poulin (ne Il favoloso mondo di Amelie, J.P. Jeunet 2001) faceva le stesse cose (con un diverso intento): rovesciava le maniglie delle porte o scambiava i tubetti di creme e dentifrici alla sua vittima che voleva allo stesso tempo punire ed educare. Ma forse anche rubare i nanetti da giardino sarà presto etichettato dai giornali come gaslighting.

Dietro l’inglese planetario non c’è solo l’aspetto linguistico, il progetto del globalese è funzionale anche a rendere tutta la letteratura e la cultura in lingua inglese un capitale condiviso dall’umanità che diviene in questo modo il principale punto di riferimento a cui guardare, come se ogni altra cultura non esistesse o non fosse altrettanto importante. Ed ecco che da un film di Hollywood si estrapola una metafora da esportare in tutto il mondo, come se quella pellicola fosse un bene comune dell’umanità, e non un prodotto culturale di un Paese e di una cultura come tutte le altre. Come se il pianeta intero dovesse conoscere il particolare delle lanterne a gas di una trama utilizzata istintivamente dagli psicologi statunitensi solo perché fa parte della loro cultura.

Il gaslighting in Francia e Spagna

Sulla Wikipedia in italiano la voce gasligthing riporta l’alternativa “manipolazione psicologica maligna”, ma su quella in spagnolo si viene indirizzati alla voce “luz de gas“, perché gli spagnoli hanno fatto la cosa più semplice che si possa fare: invece di importare una metafora direttamente in inglese – pensate un po’! – l’hanno tradotta e dicono “luce del gas” come nella lingua originale (incredibile!). Alla voce “luce” del Dizionario della Reale Accademia Spagnola si legge: “Gettare luce del gas su qualcuno (hacer luz de gas a alguien) significa cercare di fargli dubitare della sua ragione o del suo giudizio con uno sforzo prolungato per screditare le sue percezioni e i suoi ricordi.”

E su un giornale come El País si trovano articoli che usano questa espressione normalmente!

Nel dizionario della lingua francese del Quebec, invece, usano l’espressione “deviazione cognitiva” (détournement cognitif) e dunque hanno impiegato risorse francesi già esistenti per formulare in modo ben più comprensibile lo stesso concetto che i nostri giornali vogliono diffondere in inglese, buttando alle ortiche le espressioni che abbiamo sempre utilizzato. Perché la nostra classe dirigente e i nostri intellettuali sono piccoli uomini (e piccole donne, per carità!) che si limitano a ripetere in modo acritico, come scolaretti, il pensiero dell’anglosfera nella stessa lingua, con la stessa terminologia, incapaci non solo di tradurre una metafora, ma più in generale di elaborare una propria visione del mondo e una propria cultura a livello sia concettuale sia linguistico.

Una previsione

Ho già parlato più volte dei picchi di stereotipia giornalistici che ci hanno imposto la lingua del lockdown, del green pass e delle fake news. Di solito sono caratterizzati da cicli che per un certo periodo martellano in modo ossessivo con una stessa parola fino a quando cessa di essere l’argomento in primo piano. Il risultato sulle frequenze, quando si tratta di anglicismi, è che dopo un primo picco si abbassano, ma rimangono mediamente più alte di prima: è la prima fase in cui una parola inglese è così introdotta, magari con le virgolette e le spiegazioni.
A distanza anche di anni arriva spesso un altro picco e questa volta la parola già introdotta perde le virgolette o non è più affiancata dalle spiegazioni, si dà per scontata. E in questo modo la frequenza sale ulteriormente e si radica.

Gaslighting si sta facendo strada da anni, e ha tutte le caratteristiche per affermarsi (lo tenevo d’occhio da tempo, ma ora l’ho dovuto per forza aggiungere sul Dizionario AAA).

Con il nuovo picco mediatico del 2022 il dibattito già esistente sull’introduzione del reato di manipolazione psicologica rischia di trasformarsi presto in una legge sul gaslighting, magari sull’onda di qualche campagna internazionale legata ai diritti delle donne che ne può orientare il significato su alcuni aspetti più ristretti.
Dal linguaggio mediatico l’anglicismo rischia di finire in quello politico e delle sentenze, come è già avvenuto nel caso dello stalking (persecuzione), del mobbing (le vessazioni che sono un itanglismo non in uso in inglese) del bossing (vessazioni dei superiori) o dello straining (soprusi).

Se dall’espressione iniziale del film Gaslight si è passati alla desinenza in -ing che porta dalla lanterna a gas all’attività di fare luce, si affermerà anche il gaslighter, di cui si intravedono le prime occorrenze, invece di manipolatore, così come si parla ormai di stalker, al posto di persecutore.

Non ho la sfera di cristallo, ma accetto scommesse sul fatto che la luce di questo tipo di lampade finirà, come al solito, per oscurare l’italiano.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

La grammatica dell’itanglese

di Antonio Zoppetti

Chi non conosce il fenomeno dell’exploring nell’innamoramento?
È un concetto che in italiano potremmo tradurre con “fase iniziale di esplorazione conoscitiva nella formazione di una coppia”. La durata di questo periodo può variare, ma si tratta di un processo delicato e determinante per il successivo consolidarsi del legame di coppia.

Non lo avevate mai sentito?
Ci siete cascati?

L’exploring l’ho inventato io in questo momento e non esiste, come non esiste il libro in figura. Ma il punto è un altro. È vero che la fase iniziale della conoscenza è importante. E anche se battezzare tutto ciò con “exploring” è un falso, suonerebbe serio, plausibile e anche suadente, nella bocca del sedicente esperto.

Perché?
Perché nella “fase iniziale della formazione” di una parola-concetto, basta che suoni inglese per apparire fondamentale; e anche perché la suffissazione in “-ing” è diventata così frequente da essere non solo normale, ma foriera di infinite possibili neo-coniazioni ibride.
È arduo quantificare tutte le forme in “-ing” che ci tocca ing-oiare, ma basta fare zapping sui dizionari e sui giornali per fare un po’ di “chiaring” sull’attuale restyling dell’italiano.

I suoni in “-ing”

Nel mondo del lavoro, dopo l’epoca dei meeting, le riunioni creative sono spacciate per brainstorming, una prenotazione è booking, la pianificazione il planning, la tempistica il timing, l’esternalizzare è outsourcing, la pubblicità advertising, le confezioni packaging; si parla come fosse normale di branding e briefing, di merchandising e di franchising, e tra parole come platforming, engineering, manufacturing e tante altre, nell’era del marketing questa è la lingua che si impiega per indurre allo shopping.
Vanno di moda il counseling e il coaching, nell’editoria le revisioni sono diventate l’editing, lo scrivere è il writing, e c’è anche il ghostwriting, oltre allo stoytelling. Mentre le letture diventano reading e la scelta del carattere è il lettering, l’inglese è ormai overbooking.

Nel linguaggio informatico, per essere multitasking, si impone lo “switching“alla terminologia inglese: lo scrollare le pagine è lo scrolling, i grafici utilizzano il morphing, bisogna stare attenti allo spamming e al phishing, e poi c’è il debugging, l’hosting e l’housing, lo streaming, il podcasting e il webcasting. Sul cellulare c’è il roaming, e le piattaforme di dating ci permettono di cercare partner nella speranza di fare almeno un po’ di petting.

Le parole in “-ing” spopolano nel linguaggio economico (trading o dumping), persino in quello della giurisprudenza che dovrebbe stare un po’ più al sicuro (dai contratti leasing allo stalking e al mobbing) e in ogni ambito. Nel casting degli anglicismi ci sono i fenomeni di costume come fare outing, c’è il bookcrossing, il caravanning, la cucina è cooking e richiede il catering, l’assistenza infermieristica è il nursing, la pesca incontrollata è l’overfishing, nelle “beauty farm” si offre il peeling, nelle palestre si fa bodybuilding… Nello sport, dopo il dribbling e il pressing, oggi va forte il curling, ma c’è anche il trekking, il surfing e il windsurfing, il canyoning e il rafting, lo spinning, l’acquaspinning e l’aquaplaning e poi il Nordic Walking, il footing, il jogging e il running.


L’italiano si sta facendo proprio un bel lifting. Tutto chiaro o devo fare lo spelling?

Lo pseudo-anglicisming

Queste sono solo le parole più popolari, ma se ne potrebbero aggiungere molte altre, meno frequenti o più tecniche. E un fenomeno come questo non si può spiegare con la favola dei prestiti linguistici. Non stiamo importando parole isolate, stiamo trapiantando un preciso suono e una precisa suffissazione che si trasforma in una grammatica inconscia e in una regola formativa.

Tra queste parole, infatti, ce ne sono molte che sono pseudoanglicismi assenti nell’inglese. Si tratta di veri e propri itanglismi, apparentemente inglesi, costruiti su quel modello linguistico, invece che sui nostri suoni.
In inglese il lifting non è un ritocchino, ma un “sollevare”e un campeggio non è un camping. Camping è l’atto di dormire in tenda o all’aperto, mentre il luogo dove ciò avviene si chiama camping site o campsite. Lo stesso si può dire di parking, che è il parcheggiare e non il parcheggio (car park cioè parco auto).
Anche il mobbing che in italiano indica i comportamenti vessatori sul lavoro, in inglese indica invece un “assalto di gruppo” e l’accezione italiana è incomprensibile per un anglofono. Eppure su questo modello si sono poi sviluppate parole come straining (forma di mobbing leggero o attenuato: sentenza della Corte di Cassazione n. 3977 del 19 febbraio 2018) o bossing (soprusi del capoufficio o dei superiori).

La suffissazione istintiva: petaloso, footing ed escalering

Stando alla Treccani, la parola “petaloso” era comparsa in un articolo di Michele Serra nel 1991. Ma la storia di questa “non-parola” deve la sua fortuna alla stessa suffissazione apposta a petalo da parte di un bambino delle elementari che l’ha impiegata nel 2016. Se avesse avuto un’altra maestra il suo tema sarebbe forse finito in un libro di “errori” come E io speriamo che me la cavo che raccoglieva gli strafalcioni di 60 temi. Ma l’insegnante di turno rimase invece colpita dalla creatività dell’alunno – il sentimento fu espresso in itanglese con un bell’OK – e la segnalò alla Crusca. I cruscanti, gentilmente, risposero che il neologismo era ben formato, ma che non era in uso. La verità è che certe suffissazioni in “-oso” sono diffuse da decenni nelle pubblicità (morbidoso, comodoso, scattoso) e proprio in quegli anni spopolava l’inzupposo del Mulino Bianco in bocca ad Antonio Banderas. Che cos’hanno in comune uno straniero e un bambino? Entrambi costruiscono la loro grammatica per analogia, senza sapere che certe parole non esistono, e non sono in uso, anche se ben congegnate. Perché la loro padronanza del lessico è scarsa.
Ecco, la stessa cosa si può applicare a molti degli pseudanglicismi all’italiana. E dopo petaloso, il prossimo neologismo da rotocalco potrebbe essere per esempio petalosity, invece di petalosità, visto che l’inglese è il nuovo modello formativo a orecchio e istintivo per ogni neologia.

I meccanismi sottostanti ai neologismi a base inglese non coinvolgono solo l’italiano; nell’attuale “tsunami anglicus” globalizzato si ritrovano (in maniera ridotta) anche altrove. La traduttrice Anna Ravano mi ha girato un articolo spagnolo che segnala proprio l’invenzione di “escalering” per indicare la pratica sportiva del salir le scale.

E, passando al francese, molto probabilmente è da lì che abbiamo importato lo pseudoanglicismo footing (cfr. “All’origine degli pseudoanglicismi: footing e autostop”), uno dei più antichi, che risale alla fine dell’Ottocento ed è stato ricavato arbitrariamente dalla radice foot (piede).
Se in francese e in spagnolo questi fenomeni sono ben più sporadici, in italiano sono oramai inarginabili, e non accadono solo per i suoni in “-ing”. Stiamo assistendo a un numero sempre più ampio di radici inglesi che si ibridano, si ricombinano tra loro, si espandono nel nostro lessico e si trasformano così in qualcosa che è più ampio del “prestito lessicale”: diventano regole formative costruite sull’imprinting dell’inglese.

Suffissazioni in “-er”

Nel 1966, nel finale del film di Sergio Leone Il buono, il brutto, il cattivo, c’era la scena del triello, il duello a tre che è diventato il titolo della colonna sonora di Ennio Morricone. La parola è stata poi annoverata nei dizionari ed è persino diventata una popolare fase di gioco del programma L’eredità su Rai 1, attualmente condotto da Flavio Insinna.

Nella puntata del 9 marzo scorso, lanciando il gioco, il conduttore ha parlato scherzosamente di “triellers” per indicare i triellanti, come si potrebbe costruire per analogia sul modello di duellanti. Ma la cosa che mi ha colpito è che #triellers è davvero un’etichetta usata su Twitter dai fanatici del programma che si cimentano in diretta nell’indovinare le soluzioni (traduzione dell’ultimo periodo un po’ difficile e da “boomer”: l’hashtag dei tweet dei fan per i contest online in real time).

Perché accadono queste cose? Perché ci vien da dire triellers invece di triellanti?

Perché i ciclisti e motociclisti diventano biker, i ciclofattorini sono detti rider, gli autisti driver, gli scrittori writer, i creativi pubblicitari copywriter e i parolieri song writer, i giocatori e anche i protagonisti della scena sono player, i diretti interessati sono stakeholder, gli influenti sono infuencer, gli odiatori hater, gli spacciatori pusher, gli artisti perfomer, gli inviati reporter e i fotografi fotoreporter, gli allibratori bookmaker, gli agenti di cambio broker, i padroni o i timonieri di un’imbarcazione skipper, i persecutori stalker, gli allenatori trainer, i transessuali transgender, gli addetti ai lavori insider e i vincitori inaspettati outsider, i controllori controller, gli escursionisti trekker, i corridori runner, i disegnatori industriali designer, gli annunciatori speaker, i navigatori surfer, i guerrieri fighter… E così tra bomber, stopper, hipster, hacker, youtuber… accade che chi fa spam non sia uno spammatore ma uno spammer, così come un rocchettaro è un rocker, un bloggatore un blogger… in attesa che i lavoratori diventino forse jobber, i saltatori jumper, i pattinatori roller, e gli acquirenti shopper… e già si vedono le prime tracce anche di questi usi.

L’italiano evolve quasi solo anglicizzandosi, ed ecco perché poi spuntano, seppur scherzosamente i triellers, perché abbiamo abbandonato il suono dell’italiano per fare nostro quello inglese, e ci stiamo dirigendo forse verso l’assimilazione delle “s” per indicare i plurali che prendono piede sempre di più anche sui giornali e in altri linguaggi di settore (soft skills, stakeholders…).

C’è un caso davvero emblematico che ben rappresenta lo stato della nostra lingua nella sua transizione verso l’italiano newstandard, quello degli umarells.

Anglicizziamo anche i dialetti: l’itangletto degli umarells

Da qualche tempo si è diffusa una voce di origine dialettale per indicare quei pensionati che guardano con le mani dietro la schiena gli scavi nei cantieri, controllando lo stato dei lavori, disapprovando le modalità di intervento o erogando consigli su come si dovrebbe intervenire nel giusto modo. La parola umarell (con due elle), registrata dallo Zingarelli nel 2007, nasce dal dialetto bolognese umarèl, cioè un dispregiativo di “uomo” che corrisponderebbe in italiano a ometto, omiciattolo o omarello, volendo adattarlo. Si tratta di una voce recente, visto che non è contemplata dai dizionari dialettali ottocenteschi che riportano invece termini come umêtt, umarêtt, umein, umarein e uminein (cfr. Marco Brando, “Umarèll, la parola in cantiere“, Treccani, 10/1/22). La voce si è poi diffusa un po’ in tutta Italia ed è diventata un internazionalismo annoverato addirittura nella Wikipedia in inglese.

A scatenare la fortuna della parola è stato Danilo Masotti, un simpatico personaggio che nel 2015 ha preso “umarel” e gli ha attribuito il nuovo significato da macchietta in articolo del suo blog Spettro della bolognesità per poi aprire un sito dedicato all’argomento che si chiamava “umarells”, con la geniale pensata di raddoppiare la “l” finale e di appiccicare alla voce bolognese la “s” del plurale all’inglese che dava al tutto una patina di moderna pseudointernazionalità. Ne è scaturito anche un libro intitolato Umarells forever (dove la dicitura “per sempre” seguiva il titolo in inglese come una didascalia, anche se nell’ultima edizione è stata anticipata). Questo episodio non è isolato. Con il pretesto di essere spiritosi spuntano i triellers e gli umarells, ma ci sono anche gli youtuber vibonesi che si chiamano “Terrons” come ci sono gli “italians” di Beppe Severgnini. Forse sarebbe ora di cominciare a parlare anche di bolognesity, invece che di bolognesità, e di usare un più moderno ghost, al posto di un arcaico spettro.

Tutto ciò per ora è un vezzo comico estemporaneo e occasionale – si potrebbe forse dire one shot che tende a rimpiazzare una tantum nell’attuale sostituzione del latinorum con l’inglesorum – ma ridendo e scherzando è anche la spia di un processo psicolinguistico ben più profondo.

Che cosa si agita nella testa di chi ricorre a queste commistioni?
Lo stesso processo mentale che senza alcuna ironia ci fa dire writing invece di scrivere, reading invece di declamare, blogger invece di bloggatore, hater invece di odiatore, economy invece di economia, green invece di verde, smart invece di intelligente… in una catena di espressioni che travalicano il concetto ingenuo del “prestito”.
Io non ce l’ho con Masotti o i triellers, sia chiaro, ma una mente linguisticamente “sana” – o “decolonizzata” per usare l’espressione di Ngũgĩ wa Thiong’o – partorirebbe triellanti e omarelli, o lascerebbe una voce dialettale senza anglicizzarla con la “s” e gli accostamenti a forever.

Il problema dell’italiano 2.0 sta tutto qui: i nostri suoni non ci vengono più spontanei, non ci piacciono più, li dobbiamo abbandonare o mescolare a quelli inglesi creando di continuo nuovi itanglismi.

È una nevrosi compulsiva irrefrenabile in ogni ambito. Per questo ogni titolo di manifestazione culturale o gastronomica si esprime ormai in inglese – come nei titoli dei film – o con giochi di parole che ammiccano all’inglese; per questo Alitalia è diventata ITA Airwais (con la “s” del plurale), per questo il portale per celebrare e raccontare il patrimonio culturale italiano in tutte le sue forme tranne la lingua si chiama ITsART, per questo l’italiano sta morendo e si sta trasformando in una lingua creola.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

Anglicismi: perché l’Académie française è preoccupata

di Antonio Zoppetti

Nel gennaio del 2020 l’Académie française ha dato vita a una commissione incaricata di esaminare la comunicazione istituzionale francese, e l’ultimo rapporto appena uscito (15 febbraio 2022), ha denunciato la “sensibile e preoccupante” anglicizzazione e le sue conseguenze.

Voglio diffondere i risultati di questo studio con qualche riflessione e comparazione con ciò che accade in Italia, dove il fenomeno è ben più ampio e profondo.

Il Rapporto sulla comunicazione istituzionale francese

Il Rapporto parte con una notevole raccolta di esempi. Sono tutti documenti copia-incollati da siti ministeriali, di amministrazioni locali, organismi territoriali, scuole, enti di formazione, musei, manifestazioni culturali, grandi gruppi pubblici e privati.

POSTE
Uno dei casi che si presta maggiormente a una comparazione con ciò che avviene in Italia è forse quello delle Poste. In Francia viene denunciato l’uso di “Pickup”, la denominazione di una gamma di servizi per le spedizioni che si declina in locuzioni come “Pickup Logistics”, destinata alla logistica urbana, o “Pickup Station” invece di punto di spedizione.
Tutto il mondo è paese? Non esattamente. In Italia le cose sono molto più gravi.

Proprio un anno fa avevo pubblicato l’elenco sterminato di anglicismi che si trovano sul sito delle Poste italiane, e più di recente anche il Gruppo Incipit dell’Accademia della Crusca (Comunicato n. 17) è intervenuto per ricordare che quelli che poco tempo fa erano contraddistinti dalle diciture “pacco ordinario”, “pacco celere” e via dicendo oggi si chiamano “Delivery Express, Delivery standard, Delivery Globe, Delivery Europe, Delivery international Express, Delivery web, con un ordine dei componenti dei sintagmi che non pare rispettare sempre alla perfezione quello reale della lingua inglese.”

AIR FRANCE/ALITALIA/ITA AIRWAYS
Il confronto Francia/Italia appare impietoso anche nel caso delle compagnie aeree di bandiera. Bisogna specificare che nella locuzione “Air France” la parola ”air” è francese e non inglese, dunque si pronuncia pressappoco “er frans” e non “air” all’inglese come capita di sentir dire in Italia. L’Académie denuncia che lo slogan storico “Rendere il cielo il posto più bello della terra” è stato sostituito da “Air France, France is in the air” dove l’accento sui valori tricolori francesi è in inglese. Da noi, invece, il “restyling” non ha coinvolto il motto, bensì la stessa denominazione di Alitalia che è diventata direttamente ITA Airways, una svolta che si è aggiudicata il primo premio come peggior cambio di marchio del 2021 a livello mondiale.

ALTRI ESEMPI
Tra i tantissimi anglicismi presi in considerazione dall’Accademia francese ce ne sono molti che circolano anche in Italia, e sono la conseguenza dell’espansione delle multinazionali d’oltreoceano (e della loro lingua) in tutto il mondo, per esempio food (il programma “Act For Food” di Carrefour), hub e team (“Hub de la compagnie nationale Air France et principal hub européen de l’alliance Sky Team”). Questa pressione esterna fortissima è alimentata anche dalla diffusione dell’inglese interazionale delle pubblicità o delle realtà lavorative, e si riflette poi sulle scelte di Canal+ di introdurre espressioni come “My Canal” e di parlare di canali “en live et en replay”, oppure nell’anglicizzazione di eventi e manifestazioni pubbliche.
Ma, ancora una volta, gli esempi riportati ci fanno sorridere davanti a Rai Movie, Rai News, Ray Play…, alle trasmissioni dove persino l’italianità è espressa in inglese (Italia’s got talent) o ai progetti come quello annunciato l’anno scorso da Dario Franceschini di una piattaforma per “celebrare e raccontare il patrimonio culturale italiano in tutte le sue forme e offrirlo al pubblico di tutto il mondo” che però si chiama ITsART, come se la lingua italiana non facesse parte del patrimonio culturale.

Osservazioni e riflessioni dell’Académie française

Nelle osservazioni sugli esempi raccolti, l’Académie française spiega che l’interferenza dell’inglese riguarda molteplici aspetti del lessico che vanno oltre i singoli termini per trasformarsi in “scelte ripetute” e “tic linguistici” che finiscono col produrre una vastità di terminazioni in -ing (es. coworking) che porta all’affermarsi di una suffissazione che ha la meglio su quella francese (tracking, invece di traçage, upcycling invece di surcyclage). Sono gli stessi meccanismi che ho rilevato in italiano (cfr. “Anglomania compulsiva: dai singoli ‘prestiti’ alle regole dell’itanglese”): “Se c’è il working e il co-working ci sono poi i worker e i co-worker, come ci sono i rocker e i rapper (non i rocchetari e i rappatori), i blogger (non i bloggatori), i rider…”.

OLTRE IL “PRESTITO” E IL LESSICO
Questi fenomeni finiscono così per stravolgere la morfologia di una lingua, soprattutto davanti alle “forme ibride” che l’Accademia francese bolla come vere e proprie “chimere lessicali” che “non appartengono più né al francese né all’inglese”: i verbi e i nomi derivati (brainstormingbrainstormer, start-upstartupper). Tutto ciò esiste da tempo anche da noi, ma mi pare di un ordine grandezza superiore (ho provato a classificare e quantificare le nostre ibridazioni nell’articolo sulla Treccani “L’inglese nell’italiano: espansione per ibridazione“). L’interferenza dell’inglese, inoltre, per gli studiosi francesi esce ormai dalla sfera del lessico per coinvolgere anche la “struttura della lingua” (cioè la sintassi) sia per l’inversione dell’ordine delle parole (un business model, un QR code) sia per gli accostamenti dove tendono a cadere le preposizioni e gli articoli, per esempio in espressioni come “le Manager Travaux” invece del “lavoro del manager” o “un coach produit” invece del “prodotto di un coach”, un fenomeno che anche noi ben conosciamo.

Il Rapporto spiega che tutti questi e anche altri fenomeni incidono molto sulla stesura dei testi francesi. E benché analoghi processi di interferenza linguistica, in passato, con il tempo siano spariti e si siano fusi in un adattamento che li ha resi francesi dal punto di vista grafico e fonologico, attualmente il numero sempre più crescente di anglicismi rende difficile l’assimilazione e la francesizzazione. L’inglese, al contrario, sta producendo “effetti sulla struttura stessa della frase: la sintassi è sconvolta, il che costituisce un vero e proprio attacco alla lingua, in quanto è colpita la logica stessa del pensiero, e la struttura analitica della frase francese è soppiantata dalla struttura sintetica dell’inglese.”

RIFLESSIONI
Le riflessioni che concludono il rapporto parlano dunque di “un’evoluzione preoccupante”, perché “l’entrata quasi immediata nella vita pubblica di parole inglesi o presunte tali, attraverso i mass media, senza adattamento alle caratteristiche morfologiche e sintattiche del francese, porta alla saturazione, soprattutto perché molti anglicismi sono usati al posto di parole o espressioni francesi esistenti, con l’inevitabile conseguenza che gli equivalenti francesi sono gradualmente cancellati.”

Mentre in Italia c’è chi considera gli anglicismi solo come un “arricchimento”, dovremmo invece riflettere maggiormente sul fatto che possono costituire un depauperamento pericoloso, che scalza le parole italiane e le fa morire sostituite da quelle inglesi (i “prestiti sterminatori“), e impedisce alla nostra lingua di evolvere per via endogena e creare neologismi italiani. E anche se alcuni linguisti negano il fenomeno dell’itanglese e la validità delle mie analisi, nel rapporto dell’Accademia francese, in sintesi, trovo ciò che da tempo denuncio e sostengo nel caso dell’italiano, ma da noi tutto sembra essere ben più pesante.
Sul sito Campagna per difendere l’italiano è in atto da qualche tempo un’osservazione dei giornali italiani, francesi, spagnoli e tedeschi. Il numero degli anglicismi che compaiono da noi non è paragonabile a ciò che si registra sulle testate straniere. Nell’immagine si può vedere l’ultimo grafico inerente al periodo gennaio-febbraio:

UN DIVERSO TESSUTO SOCIALE E ISTITUZIONALE
Nel confronto con il francese, però, non c’è da tenere conto solo di questo divario numerico, ma anche del ben diverso contesto sociale, visto che lì esistono da tempo delle leggi e una politica linguistica che da noi non solo sono sconosciute, ma appaiono persino un tabù, perché evocano il fascismo.

La politica linguistica francese è poi intrecciata con l’opera sociale e culturale di innumerevoli istituzioni che promuovono e arricchiscono la lingua. E infatti il Rapporto ricorda che per molti degli anglicismi in circolazione esistono – e sono raccomandati nel linguaggio istituzionale – equivalenti francesi ufficiali fissati dalla Commissione per l’Arricchimento della Lingua Francese (CELF) ministeriale, che sono pubblicati sulla Gazzetta ufficiale con la consulenza dell’Académie française. E non solo, nel caso dei tecnicismi, gli equivalenti sono anche disponibili nella banca dati “FranceTerme“, messa a disposizione del pubblico dalla Delegazione generale per la lingua francese e le lingue di Francia (DGLFLF), “un servizio interministeriale collegato al Ministero della Cultura e incaricato di dirigere e coordinare la politica linguistica dello Stato, orientandola in una direzione favorevole al mantenimento della coesione sociale”.

In Italia nulla di tutto ciò esiste, e la nostra Gazzetta ufficiale ratifica gli anglicismi introdotti dai nostri politici o che arrivano dagli ambiti tecnologici. Privi di reti di protezione istituzionali e di una politica linguistica, siamo in balia di un liberismo linguistico che si trasforma in un anarchismo linguistico. E in questa situazione, dove i linguisti partono di solito dal presupposto di essere solo descrittivi, perché la lingua non va difesa, ma va studiata, il nostro ecosistema linguistico è schiacciato e rischia la frantumazione e la perdita della propria identità, perché si impone la lingua del più forte, l’inglese internazionale delle multinazionali e delle culture egemoni e dominanti.
Una terminologa seria come Maria Teresa Zanola ha notato come la reazione al “franglese” supportato dalle iniziative pubbliche e private ha favorito la coniazione di neologismi e che l’evoluzione della lingua francese è in questo modo piuttosto vitale (“Les anglicismes et le français du XXIe siècle : La fin du franglais ?”, Synergies Italie, n. 4,‎ 2008, p. 90). Ricorrere all’inglese, in Francia, diventa perciò una scelta sociolinguistica culturale o politica, tutto il contrario della situazione italiana dove la metà dei neologismi del nuovo Millennio è in inglese crudo, gli anglicismi, da mouse a computer, sono presentati come “prestiti di necessità” e l’italiano non ha alcuna vitalità, perché ciò che è nuovo coincide sempre più con l’inglese.

Le conclusioni: perdita d’identità, nessuna trasparenza e fratture sociali

Unde malum? Che male c’è nell’usare gli anglicismi? Qual è il problema? Quali sono i rischi dell’interferenza denunciati dal Rapporto?
Il fenomeno è mondiale – scrive l’Accademia francese – e uno dei rischi è quello di una riduzione di tutte le lingue sotto un denominatore comune uniforme, artificiale e robotizzato.

“Mentre l’aggiunta di parole straniere per riempire le lacune evidenti nel lessico francese è benvenuta e a volte anche necessaria, è ormai chiaro che il loro afflusso massiccio, instabile e incontrollato sta danneggiando l’identità e forse il futuro della nostra lingua, come quella della maggior parte delle altre lingue.”

Il problema (lo ripeto anch’io da tempo) non sono i singoli anglicismi, ma la “propagazione massiccia e continua” di un vocabolario anglo-americano che produce un impoverimento del lessico francese, ma anche una discriminazione crescente tra la popolazione. Il lessico anglicizzato è spesso considerato a torto “universale” e comprensibile al grande pubblico, ma al contrario non è affatto accessibile a tutti né trasparente. Ciò porta al rischio di una frattura linguistica che è doppia: da una parte è sociale, perché esclude una parte della popolazione, e dall’altra parte è generazionale, perché “i più giovani sono particolarmente permeabili agli usi digitali e meglio in grado di assimilarli, ma tanto più esposti al rischio di essere confinati in un vocabolario limitato e approssimativo e di avere solo una scarsa padronanza della lingua” madre.

La conclusione del Rapporto è che “sembra esserci un rischio reale, non solo di una ridotta comprensione dei messaggi della comunicazione istituzionale da parte del pubblico a cui sono destinati, ma anche di una perdita di punti di riferimento linguistici. (…) Non si tratta di opporsi all’evoluzione del francese e al suo arricchimento attraverso il contatto con altre lingue. Spetta a tutti coloro che lo utilizzano prendere coscienza di questa proliferazione” di parole inglesi. Il fenomeno deve essere perciò oggetto di studi e di ricerca, e al di là delle mode, bisogna riflettere sulla reale efficacia del linguaggio istituzionale e agire “attraverso un’azione determinata, continua e diffusa, trasmessa spontaneamente da una molteplicità di agenti diversi per riconoscere, avvertire convertire.”

E in Italia? Una chiacchierata con Massimo Arcangeli

Peter Doubt è un traduttore madrelingua inglese che vive in Spagna, e gestisce il sito Campagna per Salvare l’italiano e l’osservatorio che confronta gli anglicismi sui giornali italiani con quelli degli altri Paesi. Qualche giorno fa mi ha invitato a una chiacchierata insieme al linguista Massimo Arcangeli, professore di linguistica all’Università di Cagliari, di recente sulle cronache di tutti i giornali per la sua petizione contro lo scevà.

A proposito dell’interferenza dell’inglese Arcangeli ha posto soprattutto il problema della trasparenza nella comunicazione, ha riconosciuto che il fenomeno non ha precedenti nella sua attuale dimensione, e ha lamentato una storica mancanza di una politica linguistica nel nostro Paese, soprattutto in una visione in grado di proiettarsi sul piano internazionale. Sulle sorti dell’italiano di fronte all’inglese sembra molto meno preoccupato di me, ed è più colpito dall’impoverimento del lessico delle nuove generazioni dove molte parole storiche che usiamo da secoli sembrano non solo essere usate sempre meno, ma persino sempre meno comprese, e dunque rischiamo di perderle insieme a un’ampia gamma di sinonimi che l’italiano ha a disposizione per descrivere uno stesso concetto con diverse sfumature.
Credo che il lessico dell’inglese attecchisca molto facilmente su un simile terreno.
Il dialogo tra il linguista, il traduttore e il “filosofo” (ma solo per il mio titolo di studi e per pormi nei confronti della questione della lingua con un approccio diverso da quello dei linguisti) si è poi allargato ad altri temi come quello della definizione dell’identità linguistica, del nostro tutelare la gastronomia ma non la lingua, dello scevà, dell’inglese internazionale…

Lo si può seguire a questo indirizzo.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]

La frequenza degli anglicismi: comparazioni con spagnolo, francese e tedesco

Di Antonio Zoppetti

Come nelle barzellette, ci sono un inglese, un francese, un tedesco, uno spagnolo e un italiano.
Indovinello: chi usa più spesso l’espressione “fake news”?
L’inglese? No, sbagliato, l’italiano!

Questa non è un barzelletta, è quello che si evince dal confronto sulle frequenze registrate dall’algoritmo di Ngram Viewer di Google libri nei rispettivi corpus.

Quando la frequenza di un “prestito”, nella lingua che lo riceve, è superiore a quella della lingua “prestante”, c’è qualcosa che non va nella “prestanza” lessicale… Gli italiani, sempre più figli di Nando Mericoni, vogliono fare gli americani più degli stessi anglofoni, a quanto pare, e questo vale soprattutto per i giornalisti.

Ho già accennato allo splendido monitoraggio di Peter Doubt che analizza gli anglicismi crudi presenti sulla pagina principale delle edizioni digitali de La Repubblica, El Mundo, Le Monde e (Die) Welt (ma nell’ultimo articolo ha analizzato anche altri quotidiani). Il loro numero, in Italia, non è comparabile con quello che si riscontra nelle lingue sane.

Voglio riportare il grafico del primo mese di indagini e, come si vede, le parole inglesi in italiano sono 10 volte di più di quelle che circolano in Francia o in Spagna, e sono anche più del doppio di quelle che ci sono in Germania, un Paese dalla lingua molto anglicizzata, ma non certo come la nostra. I forestierismi in generale, di cui gli italianismi sono solo una piccola parte, su The Guardian sono invece irrilevanti.

Grafico tratto dal sito Campagna per salvare l’italiano.

L’autore della ricerca sta anche analizzando i dati sugli archivi de La Repubblica lavorando sulle singole parole, in modo analogo a quanto ho fatto anch’io più volte – ma in modo meno sistematico – con il Corriere.it. Quello che emerge, ovunque, è la crescita esponenziale della frequenza di molti anglicismi negli ultimi anni, oltre al loro prevalere sulle alternative italiane.

Questi fatti, ben poco contestabili, sono in linea anche con quanto si può estrapolare dai dati di Google libri, dove i raffronti con gli altri Paesi mostrano chiaramente come l’anglicizzazione della lingua italiana non è paragonabile a quella dei nostri vicini.

Di seguito riporto qualche esempio.
Delivery è un’espressione recente e fino al 2019 la usavamo già molto di più degli altri:

Nel 2020, però, la sua frequenza è impazzita, e oggi questa parola è ripetuta ossessivamente sui giornali, nella pubblicità e dagli addetti ai lavori – le Poste “Italiane” l’hanno persino ufficializzata nella denominazione dei loro servizi, come ha lamentato anche la Crusca – per cui è diventata ancora più comune, di grande popolarità, e sta soppiantando le alternative italiane (consegne a domicilio) e il modo in cui abbiamo sempre parlato. Negli archivi del Corriere.it, nel biennio 2018-2019 ricorreva 80 volte all’anno (la data a cui arriva il grafico di Ngram Viewer), ma nel 2020-2021 le sue frequenze si sono attestate sulle 450 volte all’anno, e cioè sono più che quintuplicate.

Se questi dati recenti fossero integrati nei grafici di Google libri, vedremmo un picco di frequenza presumibilmente 5 volte superiore, nell’ultimo periodo. Su un giornale come El País, invece, delivery ricorre 548 volte in tutto l’archivio storico, dunque il risultato comprende tutte le occorrenze di sempre.

Questo divario è molto generalizzato e vale un po’ per tutti gli ambiti, a cominciare da quello informatico che coinvolge parole come tweet, che da noi ha pur sempre un equivalente secondario come cinguettio:

Lo stesso si può dire di molti altri termini che non abbiamo voluto tradurre come account

oppure password (ma vale anche per follower, computer, mouse…)

Uscendo dal disastro della terminologia informatica, sono molti gli anglicismi tipicamente italiani che all’estero si usano poco, per esempio il gossip che ha soppiantato il pettegolezzo e la cronaca rosa, rivelandosi un vero e proprio prestito sterminatore.

Simili divari si registrano anche con parole come target,

fast food,

default,

o background:

In linea di massima le frequenze delle parole inglesi sono da noi maggiori anche quando si sono diffuse con un certo successo anche altrove, come nel caso di green,

leadership,

screenening:

Le tendenze, con non molte eccezioni, sono queste. E se questi dati si sommano alle analisi dei giornali e a quelle dei dizionari, il grado di anglicizzazione della nostra lingua non ha paragoni in Francia, Spagna e Germania. E chi continua a negarlo è in malafede.

PS 2023
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Francia, Germania, Spagna e Portogallo difendono la propria lingua, nel mondo e nell’UE. E l’Italia?

Di Antonio Zoppetti

Sembra che il 2022 sarà l’anno della riscossa del francese nell’Unione Europea. Ciò avverrà durante il semestre (gennaio-giugno) in cui la presidenza del Consiglio spetterà alla Francia, come anticipa il Politico (“France plots an EU presidency en français, s’il vous plaît”, Maïa de La Baume, 7 giugno 2021): Ben “sette mesi prima di assumere la presidenza di turno del Consiglio dell’UE, il governo francese sta studiando dei piani per rilanciare l’uso e la visibilità in declino della lingua di Molière”.

L’ultima volta che questo ruolo è spettato all’Italia era il 2014, quando il presidente di turno era Matteo Renzi, l’uomo che – tra slide e flexicuritybattezzò la riforma del lavoro jobs act aprendo la strada a una tendenza più generale a chiamare le leggi act, dal family act alle infinite variazioni che oggi pullulano sui giornali (Digital Services Act, Cloud Act…).

Questo impietoso raffronto mostra bene l’abisso culturale che c’è tra la Francia e l’Italia, a proposito della propria lingua.

Dal 2014 a oggi la situazione è precipitata. Non solo non abbiamo fatto nulla per promuovere l’italiano nell’UE, ma sul piano interno lo abbiamo anglicizzato con una buona serie di anglicismi istituzionali che in Francia a nessun politico verrebbe in mente di impiegare, e che comunque sarebbero vietati dalla legge!
Il 2021 è l’anno di Dante, e ci sono state tante celebrazioni retoriche volte al passato più che al presente e al futuro, con l’istituzione di un Dantedì che può anche trasformarsi in una ricorrenza come la festa della donna nel suo risvolto più folcloristico, dove un giorno all’anno serve a ricordare la questione dei diritti, spesso calpestati negli altri 364. È questa la via per promuovere la nostra lingua?

Proprio accanto a noi, in Svizzera, almeno dal 2014 il Consiglio Federale sta promuovendo l’italiano – più debole del francese e del tedesco – con ingenti fondi che prevedono il rafforzamento della presenza della lingua e della cultura italiana nell’insegnamento, nella formazione bilingue e con una serie di manifestazioni culturali anche attraverso concorsi e incontri su tutto il territorio, e non certo con la creazione di un museo. E mentre lì si sono emanate linee guida e raccomandazioni per evitare l’abuso degli anglicismi, da noi vengono introdotti proprio dalle istituzioni (il navigator e il cashback sono tra gli ultimi regali più eclatanti dei governi Conte), oppure si annuncia una nuova piattaforma digitale per “celebrare e raccontare il patrimonio culturale italiano in tutte le sue forme e offrirlo al pubblico di tutto il mondo”, ma lo si chiama in inglese: ITsART, ennesima testimonianza di come il nostro patrimonio linguistico non venga considerato parte di quello culturale.

In quasi 300 abbiamo scritto una lettera di protesta contro questa denominazione al ministro Dario Franceschini. Nessuna risposta è pervenuta, e pochi giorni fa il sito ha visto la luce.

L’anno scorso, in più di 4.000 abbiamo rivolto una petizione al presidente Sergio Mattarella chiedendo di intervenire almeno in modo simbolico per evitare l’abuso dell’inglese nel linguaggio istituzionale, e anche in questo caso siamo ancora in attesa di una risposta.

In più di 1.300 stiamo oggi chiedendo ai parlamentari di discutere la nostra proposta di legge per l’italiano, assegnata alla Camera e al Senato, ma per il momento regna il più assoluto disinteresse, e tra le poche risposte pervenute ricorre una strana giustificazione: non è questo il momento.
Non è questo il momento? Se non ora, quando?

In questo clima dove queste iniziative concrete sono ignorate, il Dantedì rischia di divenire tristemente simile al giorno dei morti, roba appunto da museo, più che qualcosa di vivo che dovrebbe essere rilanciato con uno sguardo al futuro.

I nostri politici e la nostra classe dirigente dovrebbero imparare dai francesi, e non solo da loro.

Il 2022, l’anno del francese

Il paragrafo 10 della nostra petizione di legge chiede una cosa molto semplice e naturale, che dovrebbe essere condivisa da tutti e appartenere al buon senso di tutti: adoperarsi perché l’italiano ritorni a essere lingua di lavoro in Europa, come lo era un tempo e come oggi lo sono anche il francese e il tedesco, oltre all’inglese. Anche se ai nostri politici sembra non importare nulla di tutto ciò, è una richiesta che è nell’interesse del nostro Paese e di tutti i cittadini. In Francia lo capiscono benissimo. Non è un caso che la notizia delle nostre petizioni sia stata ignorata dai mezzi di informazione italiaoti, ma non da France culture (e più in generale è stata riportata su Corsica Oggi, su un giornale spagnolo come El Confidencial, su una rivista Svizzera, sulla rivista irlandese scritta in gaelico Nós, su una rivista austriaca…).

Il piano di rilancio del francese nella UE è stato oggetto di un articolo de il Post (“La Francia vorrebbe che l’Unione Europea usasse di più il francese”, 07/06/2021) che spiega come già dal 2018 “il presidente francese Emmanuel Macron sta lavorando per promuovere la lingua francese nel mondo, sostenendo progetti francofoni in Africa, per esempio. E con un’elezione dietro l’angolo nel 2022, Macron sta anche respingendo una rivale presidenziale di estrema destra, Marine Le Pen, che si propone come preservatrice dello stile di vita francese.” Questa attenzione per la lingua non mi pare una “scelta reazionaria” come la definisce il giornalista, ma al contrario un segnale da leggere in un altro senso, e cioè che la questione della lingua non è affatto un tema che riguarda la destra, ma qualcosa che riguarda tutti, e la sinistra italiana che ha la testa solo ai modelli angloamericani pare che non lo capisca, e che lasci alla destra una questione che invece sta a cuore a una gran parte del suo potenziale bacino di elettori.
Il diverso sentimento che c’è in Francia sulla lingua è trasversale alle ideologie, e proprio l’occasione della presidenza dell’UE rappresenta un momento per attuarlo, perché dopo l’uscita del Regno Unito il problema dell’inglese nell’Europa è stato sollevato in molti Paesi – dalla Francia alla Germania – visto che è la lingua madre dell’1,5% degli europei (in pratica irlandesi e maltesi che però hanno scelto come lingua ufficiale rispettivamente il maltese e il gaelico). E così, durante la presidenza francese, i diplomatici hanno annunciato che tutte le riunioni chiave del Consiglio della UE saranno condotte in francese con le traduzioni disponibili. Anche le note e i verbali saranno in francese, così come le riunioni preparatorie. “Se una lettera arriverà dalla Commissione europea in inglese, resterà senza risposta” riporta il diplomatico citato dal Politico. “Vogliamo che le regole siano rispettate (…). Così, chiederemo sempre alla Commissione di inviarci in francese le lettere che vuole indirizzare alle autorità francesi, e se non lo faranno, aspetteremo la versione francese prima di inviarla.”

Dallo sciovinismo al plurilinguismo

Un tempo era il francese la lingua franca dell’Europa, e la Francia ha un passato coloniale in cui l’esportazione della lingua faceva parte del pacchetto, esattamente come è sempre avvenuto – e avviene tutt’oggi – anche nel caso dell’inglese (e come ha teorizzato lucidamente Churchill). L’Italia, accecata dall’anglomania e da un complesso di inferiorità verso l’anglomondo che rasenta il servilismo, non sembra nemmeno cogliere questi aspetti che altrove sono evidenti; chiunque è in grado di capire che la lingua non è solo un collante sociale e un elemento di identificazione culturale, ma è anche uno strumento di potere.

Dietro il rilancio del francese in Europa non c’è però solo questo residuo di una mentalità colonialista o un certo sciovinismo storico sicuramente caro alla destra; c’è anche un tema ben più moderno e attuale che dovrebbe appartenere alla sinistra, e cioè il plurilinguismo, culturale e linguistico, che è un valore da difendere davanti all’inglese globale, la lingua unica che sta schiacciando tutte le altre.
I funzionari francesi spiegano che il progetto di rilancio del francese “è una questione di sopravvivenza culturale per tutti (…) è un modo per bloccare l’insinuarsi del ‘Globish’” in nome del multilinguismo. Il globalese “restringe il campo dei pensieri, e limita la capacità di esprimersi più di quanto la faciliti.”

“I francesi – scrive il Post – non sono gli unici a spendersi per un maggiore utilizzo del francese. A maggio si sono incontrati per la prima volta i 19 membri di un gruppo informale del Consiglio di cui fanno parte i rappresentanti permanenti che parlano francese. A settembre sarà pubblicato un rapporto a cui stanno lavorando una quindicina di persone, fra cui il parlamentare europeo italiano ma eletto in Francia Sandro Gozi, per promuovere l’utilizzo della lingua francese all’interno delle istituzioni europee.”

Il punto non è quello di passare al francese invece che all’inglese, ma di aprire la via al plurilinguismo inteso come ricchezza e come modello alternativo all’inglese globale. Visto che l’Europa nasce all’insegna del multilinguismo, sarebbe auspicabile che anche altri Paesi promuovessero la propria lingua in Europa, invece che farla sprofondare nella serie B come un dialetto di un’UE che parla inglese, la presunta lingua ufficiale che non è mai stata affatto sancita come tale.

Sarebbe bello che nel 2028, quando di nuovo la presidenza del Consiglio Europeo spetterà all’Italia, anche la nostra classe politica rilanciasse l’italiano in modo concreto, invece che con il Dantedì e con i musei, facendo in modo che ritorni a essere lingua di lavoro.

Spagnolo, portoghese e tedesco

Davanti alla “dittatura” dell’angloamericano, l’italiano si può salvare solo all’interno di un modello culturale diverso che metta al centro il plurilinguismo. È in questa prospettiva che si dovrebbe imparare dai francesi e appoggiare il loro progetto unendosi a loro e affiancando la dignità e l’importanza dell’italiano alle altre lingue. La scienziata Maria Luisa Villa, davanti allo strapotere dell’inglese come lingua unica della scienza, auspica per esempio di ancorarci maggiormente allo spagnolo, una lingua che ha una comunità di parlanti enorme, e che ha una forte intercomprensibilità da parte nostra.

Per citare un articolo del portale sloveno Havný Denník (“Stanco dell’inglese [Vladislav Gulevich]”, Zuzana Perželová, 24 maggio2021”): “Lo spagnolo è la seconda lingua più parlata al mondo, con 471,5 milioni di persone che lo parlano come prima lingua. Sul totale dei parlanti di questa lingua e di quelli per i quali è una seconda lingua (586 milioni in totale), lo spagnolo è al terzo posto nel mondo, insieme all’hindi (600 milioni), dopo l’inglese, che è parlato da 1,4 miliardi di persone in totale, e il cinese (1,2 miliardi).” E anche le alternative agli anglicismi prodotte in Spagna e Francia potrebbero rappresentare una guida da seguire per renderli in italiano, invece di importarli in modo crudo. Inoltre, come ha sottolineato il filosofo argentino Alberto Buela, lo spagnolo e il portoghese sono lingue correlate tra loro comprensibili, dunque, aggiungendo ai Paesi ispanofoni anche quelli che parlano portoghese (260 milioni) otteniamo un totale di oltre 800 milioni di parlanti distribuiti in una trentina di Paesi diversi, che costituiscono un’area linguistica enorme e in aumento. Havný Denník riporta che il 6 maggio 2021, gli ambasciatori di Portogallo, Angola, Mozambico e Brasile hanno inaugurato il Centro di lingua portoghese presso l’Università di Nairobi in Kenya, un Paese anglofono. E secondo gli esperti, entro il 2050 il numero di persone che parlano portoghese aumenterà del 30% e nel 2050 raggiungerà i 500 milioni. Questa tendenza alla crescita si registra anche per lo spagnolo, e molti prevedono che nei prossimi anni sarà questa la lingua più forte destinata a scontrarsi con il predominio dell’inglese.

Anche in Germania la questione dell’inglese è aperta, sul fronte dell’interferenza con il tedesco ma anche come una lingua che potrebbe estromettere il tedesco in ambiti come l’università o il lavoro. Ogni anno si pubblica il cosiddetto “Indice degli Anglicismi” (Anglizismen-Index) che circolano nelle aree dove si parla il tedesco, con le corrispondenze tedesche introdotte da una commissione composta di esperti della Verein Deutsche Sprache (di Dortmund), della Verein Muttersprache (Vienna) e del Sprachkreis Deutsch (Berna). E Wolfgang Münchau, direttore dell’Euro Intelligence tedesca, per ridurre l’influenza della lingua inglese in Europa, “propone la creazione di reti sociali in altre lingue europee. Twitter, WhatsApp e Facebook in lingua inglese sono assolutamente dominati da giornalisti, esperti e analisti americani e britannici che impongono la loro visione del mondo agli utenti europei. Il secondo passo è quello di creare un programma di qualità per i traduttori che operano in Rete senza usare l’inglese” (“Stanco dell’inglese [Vladislav Gulevich]”, Zuzana Perželová, 24 maggio 2021”).

In sintesi, in Francia, Spagna, Portogallo e Germania sono sempre più coloro che intendono battersi per far crescere la propria lingua a livello internazionale e che non approvano il predominio diffuso dell’angloamericano.

Invece di guardare solo all’anglosfera come l’unico modello possibile di internazionalismo, l’Italia dovrebbe togliersi i paraocchi e vedere cosa accade nei Paesi vicini. Dare per scontato che il globalese sia la lingua internazionale è solo un punto di vista e un progetto politico che si vuole perseguire, ma che non ci conviene. E questo vale non solo nel mondo, ma a maggior ragione in Europa.

La Corte di giustizia europea difende il plurilinguismo

Nella UE, accanto alla presidenza del Consiglio a rotazione – organo degli Stati membri – e al Parlamento Europeo eletto dai cittadini, esiste anche un altro organo istituzionale di fondamentale importanza: la Corte di giustizia che fa rispettare il diritto europeo e che si è più volte espressa contro la discriminazione delle altre lingue davanti all’inglese. E attraverso i ricorsi a questa istituzione sono state vinte varie battaglie legali contro l’imposizione di un sola lingua dominante. Attualmente sono in atto alcune controversie che riguardano la carta d’identità bilingue a base inglese (ma in Austria e Germania è trilingue) o il passaporto vaccinale bilingue che presuppone – in modo illecito – che l’inglese sia la lingua dell’Europa e che i documenti con validità europea debbano essere bilingui, nell’idioma locale (concepito come un dialetto) e in inglese (concepito come “la” lingua internazionale). Questo modello dell’Europa, però, non è mai stato scritto, ci viene imposto in silenzio, a piccoli passi, in modo surrettizio e c’è chi lo respinge.

L’ultimo esempio di imposizione dell’inglese come lingua unica da parte della Commissione europea è di poche settimane fa. Come mi ha segnalato Jean-Luc Laffineur da Bruxelles, si tratta della Decisione di esecuzione (UE) 2021/858 della Commissione del 27 maggio 2021 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’UE il 28 maggio) che riguarda gli allarmi generati da gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero e il tracciamento dei contatti dei passeggeri. Il primo comma stabilisce che i casi di covid individuati all’arrivo di una persona nel territorio di uno Stato membro dovrebbero essere immediatamente condivisi con le autorità sanitarie dei Paesi in cui ha soggiornato attraverso un sistema (l’ECDC) che “fornisce supporto in inglese” per tutti i servizi della piattaforma tramite telefono, posta elettronica o portale web. Anche questa decisione costituisce un precedente che impone ufficialmente l’inglese come unica lingua nell’UE. La sua legalità è però molto discutibile in quanto viola i principi di proporzionalità e sussidiarietà stabiliti dalla Corte di giustizia.

I governi degli stati membri hanno tempo fino al 27 luglio per decidere se presentare un ricorso per l’annullamento di questo paragrafo. Ma chi lo farà?
Speriamo che lo facciano in Francia, o in Germania, o che intervengano le associazioni come la GEM+ di Bruxelles che davanti a queste decisioni minaccia cause legali che hanno ottime possibilità di successo. Perché in Italia neanche se ne parla, e il passaporto vaccinale viene chiamato green pass oppure covid pass! Dovremmo inveceunirci a quei francesi, tedeschi, spagnoli e portoghesi che tutelano la propria lingua non perché sono reazionari, ma perché hanno capito che il plurilinguismo è un valore da difendere e che l’inglese globale, è una soluzione alla comunicazione internazionale che costituisce allo stesso tempo una minaccia per le lingue e le culture locali.

PS 2023
[Questo articolo è stato ricostruito dopo un attacco informatico che lo aveva cancellato. I collegamenti e i commenti originali sono perduti.]