Le 3000 firme della petizione a Mattarella

Continuo le mie riflessioni sui perché della petizione a Mattarella, #litalianoviva, che conta ormai 3.000 firme. Provo anche a rispondere ad alcune delle critiche basate sulle sciocchezze e sui luoghi comuni di chi non ha studiato e compreso il problema, né tanto meno lo spirito dell’iniziativa.

La nuova questione della lingua

Non se ne può più di sentir dire che è normale che le lingue evolvano o che il francese e tantissimi altri idiomi hanno influenzato l’italiano sin dai tempi di Dante. Queste sono banalità che non si possono che dare per scontate; bisognerebbe essere un po’ più seri e studiare come la nostra lingua si sta evolvendo.

È semplicemente una questione di numeri: dal secondo dopoguerra a oggi – nell’arco di una sola generazione – gli anglicismi sono almeno quintuplicati. Hanno colonizzato i centri di irradiazione della lingua (il lavoro, la scienza, la stampa, l’informatica, l’economia…), si riversano nel linguaggio comune, aumentano di frequenza, penetrano nel lessico di base e, soprattutto, tutto ciò che è nuovo viene sempre più introdotto in inglese crudo, con il risultato che il 50% dei neologismi del nuovo Millennio è costituito da anglicismi. Il punto non è gridare alla morte dell’italiano per becero allarmismo, è constatare che di fatto è già morto, nel senso che ha cessato di evolvere per via endogena, e che registra una regressione davanti all’inglese anche quando esistono parole italiane che finiscono per essere dimenticate o diventare obsolete davanti ai “prestiti sterminatori”. Gli anglicismi non sono perciò una ricchezza, ma al contrario segnano l’impoverimento e la morte del nostro lessico. La loro penetrazione avviene in modo crudo, senza adattamenti, e dunque sta snaturando la nostra identità linguistica, che non è un concetto filosofico e astratto, ma una cosa molto semplice e concreta: nella maggior parte dei casi gli anglicismi costituiscono dei “corpi estranei” che violano le regole dell’ortografia e della pronuncia dell’italiano. Non c’è alcun problema ad accogliere forestierismi non adattati, se sono contenuti in una percentuale fisiologia, è un fenomeno normale che si riscontra in ogni lingua. Ma quando questa percentuale cresce a dismisura, supera nel giro di 70 anni quella di una lingua come il francese che ha una storia di substrati plurisecolari, quando la somma di tutti i forestierismi di ogni lingua del mondo non arriva alla metà degli anglicismi che abbiamo importato in un lasso di tempo così breve, e che usiamo così spesso, c’è un problema oggettivo. Non siamo più di fronte a un fenomeno normale, ma a una creolizzazione lessicale che stravolge la nostra lingua storica. Questi sono fatti. Ogni critica ne deve tenere conto.

Allora la questione, e il terreno del dibattito, è un altra. Dobbiamo chiederci quale italiano vogliamo. Crediamo che la modernità si esprima con l’inglese e vogliamo che la percentuale di anglicismi della nostra lingua diventi in ogni ambito quella del linguaggio del lavoro o dell’informatica?

Bene lo si dica chiaramente, invece di giocare a fare i negazionisti.

Questa idea dell’italiano, però, per me coincide con l’itanglese, e mi vede dall’altra parte della barricata a combattere quello che considero non un segno di modernità, ma il depauramento del nostro patrimonio culturale. Ciò è tutto il contrario del purismo, ostile da sempre ai neologismi. Viceversa, c’è da auspicare un italiano che si sappia evolvere per via endogena, creando le proprie parole e i propri neologismi, invece che importarli dall’inglese.

Chi ha un’altra idea dell’italiano getti la maschera, si schieri dall’altra parte, e difenda l’itanglese senza fare l’ipocrita. I nuovi puristi del Duemila, quelli che vogliono ingessare l’italiano nella sua forma storica senza farlo evolvere perché tutto ciò che è nuovo si dice in inglese, sono gli anglomani. Sono loro – li chiamo anglopuristi – che vogliono trasformare l’italiano nella “lingua dei morti”.

Questa è la nuova “questione della lingua”. Sarebbe ora di dirlo chiaramente.

Non si tratta di fare la guerra ai singoli anglicismi, si tratta di prendere posizione, e di spezzare la strategia comunicativa che spinge a importare l’inglese crudo senza alternative. Il problema non è linguistico, è culturale. Gli anglicismi non sono “prestiti”, con queste sciocche categorie obsolete non si può rendere conto dell’attuale fenomeno dell’interferenza dell’inglese. Quando il confinamento diventa lockdown, il lavoro da casa smart working, quando si coniano all’inglese espressioni come covid hospital, invece che ospedali covid, e si parla di covid pass, covid free, covid manager, covid like, covid test… il problema non è in questi trapianti e in queste ricombinazioni ridicole prese singolarmente; il punto è che abbiamo perso la volontà di parlare in italiano e siamo passati a una strategia compulsiva (la strategia degli Etruschi) che consiste nella scelta di parlare in itanglese.

Una questione politica, non linguistica

Oggi la nostra classe dirigente – dai mezzi di informazione alla politica, dalla scienza al mondo del lavoro – ha scelto l’itanglese, e in questo modo lo diffonde e lo impone a tutti. Per spezzare questa strategia occorre una rivoluzione culturale e politica. Nello scorso articolo ho mostrato perché non è certo alla Crusca che ci si può rivolgere per cambiare le cose. L’Accademia non ha né il potere né la missione di regolamentare la nostra lingua. Solo la politica potrebbe forse investirla di questo mandato, come avviene per le accademie spagnole e francesi. Lì si creano alternative agli anglicismi e la popolazione è libera di scegliere come parlare. Alcune proposte sono accolte ed entrano nell’uso, altre non vengono invece recepite, ma il risultato è che l’anglicizzazione di queste lingue non è minimamente paragonabile alla nostra. Ognuno è libero di usare il lessico che preferisce, ma la libertà sta nello scegliere, se mancano le alternative cade la scelta, e l’inglese diventa un automatismo senza altre possibilità, diventa la tirannia della minoranza che controlla i centri di irradiazione della lingua e che la impone a tutti.

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Le “reti sociali” o i “fondi di recupero” su Correre, El País e Le monde. Da noi sono anglicismi (i “gruppi tech” in spagnolo sono “grandes tecnologicas”, e persino gli Usa sono detti secondo l’ordine della loro lingua: EEUU).

La petizione per eliminare gli anglicismi almeno dal linguaggio istituzionale – una cosa che in Francia è espressamente vietata dalla legge, ma che non verrebbe nemmeno in mente ad alcun politico, come del resto in Spagna – va rivolta alla nostra classe politica. Ma rivolgersi al parlamento avrebbe senso?

Non mi pare.

Non dimentichiamo che i nostri politici son proprio coloro che contribuiscono a uccidere la nostra lingua storica. Se il politichese, sino a tutto il Novecento, era caratterizzato da formule ampollose, astruse o burocratiche, nel nuovo Millennio è diventato itanglese. Dal jobs act al navigator, il lavoro è job, le tasse sono tax, le leggi act, l’economia è economy, i fondi per la ripresa sono introdotti in inglese, recovery fund, e qualcuno parla di un recovery plan per la pandemia. Gli anglicismi politici registrano un aumento preoccupante: quantitative easing, voluntary disclousure, caregiver, stepchild adoption, spending review, spoils system, devolution e deregulation, election day e family day… E in questo linguaggio fatto di establishment, governance, leadership, impeachment, question time, moral suasion, premiership… ci sono anche figure istituzionali come il garante della privacy, o il ministro del welfare, alla faccia della salute del nostro lessico. I giornali rilanciano e amplificano questo vocabolario politicamente scrorrect, mentre si parla sempre più di premier al posto di presidente del consiglio come è scritto nella nostra Costituzione, o di governatori invece che presidenti delle regioni perché si vuol fare gli americani, anche se il nostro sistema non è federalista.

In questo contesto appare poco proficua una petizione rivolta ai politici. Senza scadere nel qualunquismo, bisogna ricordare che negli ultimi anni sono state presentate innumerevoli proposte di legge o di istituzione di un Csli (Consiglio Superiore della Lingua Italiana) che sono sempre rimaste nei cassetti, per riemergere ciclicamente senza che nulla di concreto sia mai stato fatto.

Nel 2012, una petizione dell’Era propose di dire in italiano “question time” e ricevette consensi da ogni parte politica, ma l’iniziativa lodata da tanti solo a parole, non ebbe nei fatti alcun seguito (in Svizzera si dice invece l’ora delle domande, in parlamento e sui giornali).

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“L’ora delle domande” sul Corriere del Ticino.

Nel 2018, Giulia Bongiorno, ministra della pubblica amministrazione del Governo Conte, scriveva:

“Nei primi giorni da Ministro mi sono stati sottoposti alcuni fascicoli – definiti dossier – dai quali emergeva che i problemi più urgenti da affrontare erano:
1) il blocco del turnover;
2) l’inadeguata valutazione della performance dei dirigenti;
3) il digital divide;
4) la scarsa applicazione (…) dello smart working;
4) l’uso improprio del badge per entrare nel luogo di lavoro.
Per affrontarli avrei dovuto partecipare a numerosi meeting; inoltre, mi si rendeva noto che il budget a mia disposizione era – purtroppo – limitato.
Amo l’inglese (…) Eppure credo sia sbagliato, e fuorviante, accettare questa sostituzione della lingua italiana; parlo di sostituzione perché l’uso reiterato delle parole inglesi fa sì che a volte il corrispettivo italiano si perda. Dunque dico basta, con forza, a questo ibrido che forse vorrebbe far sembrare l’italiano più moderno, ma in realtà lo sta svilendo.”

(Lettera aperta del 19 dicembre 2018 per denunciare l’abuso dell’inglese nel linguaggio amministrativo).

Che cosa è accaduto, da allora, è sotto gli occhi di tutti.

Anche le iniziative come Europarole del Dipartimento delle politiche europee, avviata nel 2018, che doveva tradurre gli anglicismi che circolano nell’ambito dell’Unione Europea si è rivelato un progetto vuoto, e da allora ha raccolto solo 37 parole!
Visto che le istituzioni non lo fanno – da quelle politiche alla Crusca – il più grande repertorio esistente nel nostro Paese è il Dizionario delle Alternative Agli Anglicismi (AAA), che ne ha raccolti ormai 3.700, e nasce da un’iniziativa privata senza alcun finanziamento.

Da queste considerazioni è nata la decisione di rivolgere la petizione non alla politica, ma al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la massima carica dello Stato.

C’è chi ha storto il naso davanti all’opportunità di rivolgersi a lui in questo frangente in cui l’Italia versa in ben altri e più gravi problemi. Eppure il lievitare degli anglicismi ha raggiunto picchi inediti proprio durante la pandemia e, soprattutto, le nostre richieste sono davvero facili, e non costano nulla. Non abbiamo invocato leggi come quelle che ci sono in Francia, né domandato di attuare ciò che la politica ha più volte presentato senza che mai si sia realizzato.
Le richieste consistono, semplicemente, in una supplica, perché il capo dello Stato attui un simbolico richiamo alla politica di non utilizzare anglicismi almeno nel linguaggio istituzionale, per il rispetto, oltre che per la trasparenza, che le istituzioni dovrebbero avere nei confronti dei cittadini italiani e del nostro patrimonio linguistico (non dimentichiamocene, quando saremo chiamati alle urne!).
La seconda richiesta è di favorire una campagna di sensibilizzazione contro l’abuso dell’inglese. Anche questa preghiera non ci pare gravosa, e soprattutto non comporta alcuna spesa, visto che gli spazi delle pubblicità progresso sono già previsti. E come si fanno e si sono fatte contro il bullismo o contro la violenza delle donne, potrebbero farsi anche per promuovere la nostra lingua, di cui non è il caso di vergognarsi.

Crediamo che questa petizione chieda qualcosa che dovrebbe essere dato per scontato, qualcosa che nasce semplicemente dal buon senso e che dovrebbe appartenere a tutti. E facciamo fatica a comprendere come si possa non condividere questo appello.

Eppure, se la petizione #dilloinitaliano di cinque anni fa fu ripresa da tutta la stampa, oggi invece non c’è un solo giornale a tiratura nazionale che ne abbia accennato nemmeno con una sola riga. Le 3.000 firme raccolte nascono solo dal passaparola in Rete e tra la gente, mentre i mezzi di informazione e le istituzioni che dovrebbero occuparsi della nostra lingua in modo ufficiale lo hanno ignorato. Al contrario di quanto hanno fatto invece persone di primo piano della cultura nazionale e internazionale.

 

I firmatari e gli amici dell’italiano

Sin dai primi giorni, la notizia della petizione #litalianoviva è stata ripresa e diffusa dall’Istituto Italiano di Cultura di Lima, che l’ha rilanciata dalle sue pagine Facebook, oppure dal sito Corsica Oggi. In Svizzera è stata segnalata dal Forum per l’italiano in Svizzera, e dalla Rivista.ch. E così la notizia si è sparsa per il mondo, tra i firmatari ci sono italofoni tedeschi, dall’università di Barcellona ha firmato un’importantissima profesora emerita di Filologia Italiana, dall’Australia ha firmato la traduttrice Barbara McGilvray, vincitrice di una medaglia dell’Ordine d’Australia dell’Australia Day, per i suoi meriti nel tradurre in italiano. Voglio riportare qualche battuta tratta da un’intervista che rilasciò in quell’occasione:

Barbara McGilvray
Barbara McGilvray.

– Hai notato delle differenze nell’evoluzione della lingua italiana da quegli anni ’60 in cui eri a Roma all’italiano che si parla oggi? Magari il fatto che oggi sia infarcito di parole inglesi? Una volta non era così…
Io cerco di evitare e parole inglesi in italiano anzi sono iscritta a due o tre gruppi di traduttori in Italia, gruppi virtuali, sull’Internet e lottiamo tutti per evitare di usare neologismi inglesi, preferisco evitarli. (…) Spending review mi fa una rabbia (RIDE), ci sono espressioni perfettamente adeguate in italiano, perché usare quelle inglesi? Non lo so…

– O il jobs act…
Jobs act… un altro, no, no… non ne parliamo…

– La nostra rubrica si chiama La lingua più bella del mondo, sei d’accordo con il nome che abbiamo dato a questo segmento?
Assolutamente! Come no?

Se volte sentire queste parole dal suo delizioso accento anglofono, lo potete fare qui (al min, 4,30 circa).

Tra i tanti che hanno firmato e che mi hanno scritto dall’estero ci sono italofoni dall’Argentina, dal Canada, dalla Francia, e anche dal Regno Unito e dagli Stati Uniti.

Possibile che all’estero ci sia un’attenzione per l’italiano superiore alla nostra?

Evidentemente sì.

Ma non è del tutto esatto. Non bisogna confondere il silenzio stampa e delle istituzioni che si registra in Italia con il sentimento degli italiani. L’indifferenza mediatica non corrisponde alla sensibilità di tante persone di ogni fascia sociale (infermieri, medici, farmacisti, parrucchieri, avvocati, imprenditori, formatori, studenti, insegnanti, mamme, agenti immobiliari… c’è anche un suora). E tra i firmatari ci sono poi diversi politici che appartengono a ogni schieramento: da Potere al popolo e Sinistra alternativa passando per il Pd, i 5 stelle, la Lega, sino a Forza Italia, Fratelli d’Italia e alla destra. Ma soprattutto mi ha colpito la presenza di molti personaggi di spicco della cultura del nostro Paese. Non sempre mi è stato possibile verificare se certi nomi sono davvero illustri o se si tratta di omonimi, e non so se Elena Ferrante è veramente lei o se Paolo Repetti è davvero il fondatore e il direttore della collana Stile Libero di Einaudi. So però di certo che hanno firmato professori universitari o accademici come lo psicologo Fulvio Scaparro, il filosofo Fulvio Papi, scrittori come Elisabetta Bucciarelli (vincitrice del premio Scerbanenco) o come la docente Laura Margherita Volante, traduttori di primo piano come la poetessa Claudia Azzola direttrice della rivista TraduzioneTradizione, giornalisti come Alberto Giovanni Biuso, intellettuali che gravitano intorno alla rivista Odissea diretta da Angelo Gaccione, come il medico Teodosio De Bonis (“Ho deciso di iscrivermi ad un corso di lingua straniera: mi è stato consigliato l’Italiano”), lo scrittore Oliviero Arzuffi, i poeti Antonella Doria, Gabriella Galzio e Nicolino Longo… e una lunga lista di donne e uomini che fanno comprendere che esiste un’altra idea di lingua e di cultura, oltre a quella dominante. E che a opporsi all’insensato ricorso all’abuso dell’inglese siamo in tanti.

Per aiutarci a diffondere la nostra iniziativa, visto che i giornali non lo fanno, passa parola, per favore!

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I perché di una petizione a Mattarella (e le prime 2.500 firme)

La petizione #litalianoviva (che ha raggiunto le 2.500 firme) arriva cinque anni dopo quella, fortunatissima, lanciata da Annamaria Testa (#dilloinitaliano). Le quasi 70.000 firme di allora ebbero una risonanza senza precedenti e una rassegna stampa fitta e internazionale. Proprio in seguito a questo straordinario successo, l’Accademia della Crusca. a cui era rivolta, decise di dare vita al Gruppo Incipit, che aveva lo scopo “di monitorare i neologismi e forestierismi incipienti, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana e prima che prendano piede.” Dunque: “monitorare” più che “arginare”, anche se nei comunicati sono sempre stati indicati dei sostitutivi italiani.

A cinque anni da questo evento, ho tentato di fare un bilancio di cosa sia accaduto e di che cosa sia cambiato. Purtroppo la risposta è che, nel concreto, non è accaduto nulla. Anzi, da allora le cose sono decisamente peggiorate. Ecco perché ho provato a immaginare un’iniziativa simile ma con altri interlocutori e altre richieste.

L’attuale ruolo della Crusca

Mi pare che l’importanza della petizione di Annamaria Testa si possa riassumere nella presa di coscienza del fastidio verso l’abuso dell’inglese di una grande fetta degli italiani. La svolta che ha segnato è stata proprio l’emergere di questo nuovo modo di sentire nell’opinione pubblica, un cambio di paradigma storico molto importante: per la prima volta, parlare di tutela dell’italiano non veniva più associato alla politica linguistica del fascismo, alla guerra ai barbarismi, e neanche alle prese di posizione “puriste” o “neopuriste” che avevano caratterizzato la denuncia del “morbus anglicus” di Arrigo Castellani negli anni Ottanta.

accademia della cruscaNon è un fatto da poco. Bisogna tenere presente che Francesco Sabatini, quando era il presidente della Crusca, fondò nel 2001 il Clic (Centro di consulenza sulla lingua italiana contemporanea), che si interruppe presto anche per le reazioni ostili dei mezzi di informazione davanti alla “difesa della lingua”, un argomento ancora tabù. Con la costituzione del Gruppo Incipit, l’Accademia si aspettava analoghi attacchi e resistenze culturali, ma la cosa più sorprendente fu che non ce ne furono affatto. Il vento era cambiato, la petizione #dilloinitaliano fu come una gigantesca manifestazione di piazza, seppur virtuale, che lanciò questo importantissimo segnale.

Eppure la timidezza della Crusca nello schierarsi a favore della difesa della lingua è rimasta.
Anche se nella percezione della gente l’Accademia è ancora associata alle attività del passato, quando questa antichissima e prestigiosa istituzione pubblicava il vocabolario della lingua italiana e aveva un atteggiamento prescrittivo nei confronti della lingua, oggi non è più così. Fu proprio durante il fascismo che l’attività lessicografica della Crusca fu soppressa, con il Regio Decreto del ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile nel 1923, e fu invece la Reale Accademia d’Italia (Rai) a essere in seguito incaricata di compilare il dizionario della lingua italiana del regime, che si interruppe (alla lettera C) con la caduta del fascismo. Negli anni Sessanta, quando il presidente della Crusca era Giacomo Devoto si delineò molto chiaramente il nuovo spirito dell’Accademia di rinunciare agli intenti normativi e prescrittivi in favore del descrittivismo, cioè di esaminare l’evoluzione dell’italiano senza intervenire, perché la lingua non va difesa, va studiata, per citare Giancarlo Oli. Questa prospettiva è quella dominante anche oggi, e poco si concilia con il volere arginare gli anglicismi.

Il Gruppo Incipit

Nel contrastare le parole inglesi, il Gruppo Incipit ha giocato un ruolo simbolico ma non ha raggiunto obiettivi concreti. A parte qualche presa di posizione dei suoi membri in occasioni pubbliche o interviste, si è limitato a diramare 13 comunicati che complessivamente hanno indicato le alternative a qualche manciata di parole, a fronte delle centinaia che si sono affermate. Non sono al corrente del loro lavoro di “monitoraggio” (studi quantitativi o altre analisi organiche), ma stando ai comunicati si evince che il problema è stato affrontato a sprazzi, e non certo in modo sistematico. Alla fine del 2016 sono entrate prepotentemente nel linguaggio comune fake news, grazie ai giornali che hanno virgolettato senza tradurre un’espressione di Trump (per far cadere le virgolette il giorno dopo e introdurre nella nostra lingua l’inglese crudo invece che “notizie false” o “bufale”). Nel 2017 è esploso il black friday, grazie al trapianto di una consuetudine statunitense nel nostro Paese. E di anno in anno, anglicismo dopo anglicismo, si può arrivare alla pandemia del 2020 che ci ha regalato il lockdown (insieme a droplet e tantissimi altri che ho ricostruito in un articolo Treccani). Dunque stupisce la mancata presa di posizione davanti a questi esempi eclatanti che hanno stravolto il nostro modo di parlare.

L’attività della Crusca non è insomma minimamente paragonabile a quella delle accademie di Spagna e Francia, che non hanno paura di essere prescrittive o di proporre alternative, anzi, ciò rientra nei loro compiti e nella loro missione. L’Académie française, inoltre, non è composta solo da linguisti, e tra i 40 cosiddetti “immortali” ci sono illustri rappresentanti della letteratura, della scienza o del mondo politico. Perché la lingua è di tutti, non si può lasciare solo nelle mani dei linguisti.

A parte queste diverse prospettive, bisogna anche riconoscere che i comunicati del Gruppo Incipit, benché esigui, non hanno sortito alcun effetto tangibile.

I limiti di Incipit e della Crusca

Incipit parte dal presupposto che quando un anglicismo si afferma è poi molto difficile da sradicare. Ciò è vero soltanto in Italia, bisogna precisarlo, perché in Francia molti sostitutivi introdotti in seguito alla legge Toubon hanno fatto regredire l’inglese. Ma questo approccio, che se non è supportato da una politica linguistica risulta poco efficace, ha anche un altro forte elemento di debolezza. Lo aveva sollevato sin dall’inizio Tullio De Mauro. Davanti alle proposte sostitutive per esempio di analisi on desk, benchmark, tool, distance learning o peer review (comunicato n. 6), “se l’obiettivo dell’Accademia è ottenere gli applausi della stampa, l’obiettivo è in gran parte raggiunto”. Altrimenti queste parole non erano affatto incipienti, visto che erano registrate dai dizionari già da decenni, per cui “se c’è (e c’è) abuso di anglismi nella comunicazione universitaria, l’imputato chiamato alla sbarra da Incipit, l’aziendalese, va assolto: non è lui che ha commesso il fatto” ( → “È irresistibile l’ascesa degli anglicismi?”).

Insomma, se i linguaggi di settore vengono colonizzati sempre più dall’inglese, poi è inevitabile che da lì straripino nella lingua comune. E allora l’argine a ciò che è in fase incipiente dovrebbe semmai essere doppio. Bisognerebbe operare scelte terminologiche traduttive innanzitutto quando gli anglicismi entrano nei linguaggi specialistici, ma è un po’ difficile visto che la scienza, la tecnologia, l’informatica, il lavoro, l’economia e quasi ogni ambito culturale si studiano sempre più in inglese con il risultato di trapiantare i tecnicismi in modo crudo invece di saperli interpretare autonomamente. Il secondo argine dovrebbe essere eretto quando queste parole, magari dopo molti anni, si riversano nella lingua comune. Ma siamo sicuri che questo sistema funzioni?

Direi di no. Nella realtà, giornalisti e politici se ne fregano dei sostitutivi promossi dalla Crusca, ammesso che li conoscano, e puntano ad attingere al linguaggio specialistico invece che al lessico della divulgazione. “Smart working”, per esempio, era uno pseudoanglicismo presente già prima della pandemia del coronavirus, anche se la sua frequenza era bassa e la sua circolazione era ristretta al mondo lavorativo degli addetti ai lavori. Incipit, nel 2016, ha promosso l’alternativa in circolazione nel linguaggio contrattuale di “lavoro agile” (comunicato n. 3) quando ancora la parola non era così comune. Ciononostante, da qualche mese l’espressione ha fatto il salto di specie: i giornali, i politici e i tecnici hanno usato l’inglese ripetuto in modo ossessivo fino a farlo diventare la parola più gettonata, che ha scalzato non solo l’equivalente tecnico di lavoro agile, ma anche quelli possibili nella lingua comune, cioè il lavoro da casa, da remoto, a distanza o il telelavoro. Lo stesso si può dire di caregiver, che circolava come tecnicismo già ben prima del 2018 quando è entrato nella legge di bilancio e quando Incipit lo ha affiancato a “familiare assistente”, “prestatore di cure o “assistente domestico” (comunicato n. 9).

Vale la pena di ricordare che caregiver è diventato un tecnicismo solo in italiano, in inglese non ha questa specificità, e la parola non si trova né in spagnolo – si parla di “curatore”, cuidador (familiar) – né in francese – “aiutante”, aidant familial o informal, proche aidant –. Lo stesso vale per per smart working, che non esiste in francese, in spagnolo né in inglese (remote working).

E allora la strada per fermare l’anglicizzazione è forse un’altra rispetto a quella prospettata da Incipit, e implica l’essere meno provinciali, tradurre o inventare neologismi italiani (qualora le parole ci mancassero) invece che importare parole inglesi crude (se va bene, altrimenti si inventano pseudoanglicismi). Insomma, davanti alle migliaia di parole inglesi il punto non è quello di sostituirle nella fase incipiente, ma agire alla base: è necessario creare un nuova cultura, spezzare l’anglomania da colonizzati che porta a preferire i suoni inglesi a prescindere dalle singole parole, riappropriarci con orgoglio della nostra lingua e della capacità di generare neologismi su base endogena. Dobbiamo superare il nostro senso di inferiorità che ci fa vedere l’inglese come una cultura e una lingua superiori, dobbiamo smettere di confondere l’inglese con l’essere moderni o internazionali. Per essere moderni dovremmo fare evolvere l’italiano, e per essere internazionali dovremmo fare come si fa all’estero, dove si usa maggiormente la propria lingua.

E soprattutto, dovremmo cessare di aver paura di essere prescrittivi. Come fanno le accademie francese e spagnole.

Un po’ di sano prescrittivismo

Se la strada di Incipit non è stata produttiva, non è all’Accademia della Crusca che ci si deve rivolgere per cambiare le cose. Forse l’Accademia andrebbe rifondata, e investita di un po’ di sano prescrittivismo proprio dalla politica che un tempo le ha sottratto questo ruolo. Davanti all’espansione dell’inglese globale che minaccia molte lingue, il liberismo linguistico rischia di trasformarsi in un anarchismo nel senso più negativo, uno stato di natura selvaggio e senza regole che coincide con la sopraffazione del più debole (homo homini wolf).
La difesa della lingua, un tempo invocata per purismo o per motivi di principio esterofobi, è oggi da rivedere da un altro punto di vista basato sui numeri. Qui si tratta di proteggere il nostro patrimonio culturale esattamente come si difendono i panda e le balene che rischiano l’estinzione.

Andrea Camilleri protezione lingua italianaQualche anno fa, Andrea Camilleri ha sintetizzato tutto ciò in modo meraviglioso in un brevissimo video, che vi invito a vedere, in cui sviscerava il tema-tabù della “protezione della lingua” davanti all’inglese. Spiega che da quando la lingua dell’Europa, per le leggi e il lavoro, ha cessato di essere tradotta in italiano e riporta i documenti solo in inglese, francese e tedesco, la nostra lingua è regredita. I nostri politici avrebbero dovuto opporsi, ma non l’hanno fatto. Per Camilleri, se dalla terminologia tecnica (sempre più in inglese crudo) le parole entrano poi nella lingua comune è per “provincialismo assoluto”, e sfoggiare questo lessico inglese non è cultura. Il rischio lucidamente intravisto era che l’italiano diventasse una lingua morta, che ha la sua tradizione storica congelata nella letteratura del passato, ma senza sapere evolversi. Per lo scrittore, la soluzione non è certo l’autarchia come ai tempi del fascismo, ma una “giusta difesa della lingua andrebbe fatta”, smettendo di essere provinciali e recuperando “le bellissime parole della nostra lingua”.

Come si può non essere d’accordo? Come possono i linguisti italiani non comprendere che tra l’autarchia linguistica e l’essere normativi nel modo più rigido e antistorico ci sono delle vie di mezzo necessarie e sane, come hanno capito in Francia, in Spagna o in Svizzera?

Per tutelare l’italiano, l’attuale atteggiamento descrittivo della Crusca non basta. Visto che i linguisti non si fanno problemi a prescrivere le giuste parole nel caso del linguaggio non discriminante per le cariche femminili e sono intervenuti nello schierarsi a favore di parole come ministra o sindaca modificando l’uso – come stanno facendo anche davanti a quisquilie come scrivere “sé stesso” invece di “se stesso” senza accento che si era affermato nell’editoria del Novecento – perché non dovrebbero avere lo stesso atteggiamento davanti agli anglicismi in nome delle pari opportunità dell’italiano, oltre che delle donne?

Per contrastare l’abuso dell’inglese basterebbe agire con coerenza e nello stesso modo, invece di usare due pesi e due misure. Proprio dalla politica, e dalle raccomandazioni delle amministrazioni supportate dalla consulenza Crusca sono arrivate le direttive del linguaggio non discriminante. La promozione di questo lessico e la campagna culturale che c’è stata in proposito hanno dato i loro frutti, e hanno portato i giornali a utilizzare le nuove parole e i dizionari ad accoglierle e a registrarle.

vivalitaliano 300 x 145Queste sono le due vie proposte dalla petizione per promuovere l’italiano e spezzare l’abuso dell’inglese. L’eliminazione degli anglicismi nel linguaggio istituzionale e l’avvio di una campagna di sensibilizzazione.
L’interlocutore non può che essere la politica…

 

Continua.

#litalianoviva: la “spedizione” dei 1.000 firmatari

Voglio ringraziare gli oltre 1.000 cittadini che in soli 3 giorni hanno spedito le loro firme e sottoscritto la petizione al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per chiedere di non usare anglicismi nel linguaggio istituzionale e per avviare una campagna mediatica per la promozione dell’italiano e contro l’abuso dell’inglese.

Mi pare una partenza incoraggiante, e per farci ascoltare dobbiamo continuare così e “salire al firmamento“.

Prego tutti non solo di firmare, ma anche di diffondere l’iniziativa (lo strillo per la Rete è #litalianoviva, clicca qui → per saperne di più e vedere i 12 promotori), per far sapere a tutti della sua esistenza.

Più saremo, e più avremo la forza di farci ascoltare!

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Da anni denuncio e combatto da queste pagine, e non solo da qui, l’anglicizzazione della nostra lingua con ogni mezzo.

Oggi però voglio dare la parola a voi.

Di seguito riporto alcuni dei tanti commenti arrivati insieme alle firme, con le motivazioni e le frasi che mi hanno maggiormente toccato. Ce ne sarebbero anche tante altre, non posso riportarle tutte (chi non si ritrova non me ne vorrà).
Grazie!

 

La parola ai firmatari

Guia Risari (scrittrice)
È bello parlare l’italiano ed è bello parlare l’inglese. Utilizzare un gergo inglese per parlare di quel che la gente dovrebbe capire è un’operazione scorretta e ridicola.

Riccardo Marrone
È vergognoso che politici e giornalisti che dovrebbero farsi capire dalla gente, si riempiano invece la bocca di parole inglesi. È ora di finirla.

Leonardo Ottoboni
Sono un studente del liceo linguistico. Amo follemente le lingue e soprattutto la mia lingua madre. Ogni lingua ha una propria espressività, anima, colorazione, e il fatto che le lingue si influenzino tra loro è bellissimo e utile, ma deve avvenire correttamente, affinché esse non si snaturino. Preserviamo la salute e la bellezza del nostro idioma, affinché possa evolversi verso la modernità mantenendo la sua meravigliosa armoniosità, per cui è apprezzata e studiata nel mondo!

Caterina Zuccaro (Roma)
Gli eccessivi anglicismi sono frutto di pigrizia mentale, provincialismo culturale e crassa ignoranza della lingua italiana. Le cause sono diverse, ma una delle principali è la insufficiente capacità di istruzione e formazione della scuola. È curioso poi che chi li usa e li propina su media e social spesso non conosce abbastanza neanche l’ inglese…

Vincenzo Ciaccio
Mi infastidisce enormemente sentire in televisione, da parte specialmente degli operatori dell’informazione, l’uso di termini inglesi, più o meno decodificabili, seguiti subito dopo dalla traduzione italiana. Le parole italiane per descrivere quel concetto esistono. Allora perché usare l’inglese? Io la risposta ce l’ho: pochezza!

Carlo Fizzotti
Pur amando l’inglese, deploro l’utilizzo di anglicismi nella lingua italiana, stupenda com’è e come deve continuare a essere.

Paola Barberis (Torino)
Sono insegnante e traduttrice, e per me fa parte dell’etica professionale usare la mia lingua ogni volta che posso.

Carlo Fizzotti
Pur amando l’inglese, deploro l’utilizzo di anglicismi nella lingua italiana, stupenda com’è e come deve continuare a essere.

Giacomo Gabriele Bianchi
L’italiano è una lingua eccezionale nel senso stretto della parola, nonché la lingua madre della più vasta letteratura nel mondo. È creativa e piena di note armoniose e forgia delle menti che rispettano queste qualità, che fanno dell’Italia e del suo Popolo la patria dell’Umanesimo e una discriminante dell’arte e della cultura nella storia mondiale. Con tutto questo valore, questo onore e questa responsabilità, quale motivazione può mai spingere ad adottare sempre più termini di una lingua i cui stessi primi utilizzatori elogiano dopo l’Italiano? Solo una cieca attitudine a rinunciare alla propria identità e libertà può muovere una pigra popolazione a siffatta abitudine. Per tale ragione firmo questa petizione: per mostrare amore verso quella vastità di tesori che mi ha arricchito come umano e perché in quanto Italiano, sono tenuto a difendere e supportare umanamente il mio Stato, con tutte le sue componenti. Viva l’Italiano!

Barbara McGilvray (Australia)
I’m signing because as a translator and longtime italophile I’m very concerned about the increasing use (and often misuse) of English words in Italian, including in many instances where a perfectly good Italian term already exists. We must do whatever we can to preserve the beauty of the Italian language. [Firmo perché come traduttrice, e italofila da molto tempo, sono molto preoccupata per l’uso crescente (e spesso l’abuso) di parole inglesi in italiano, compresi i molti casi in cui esistono termini italiani perfettamente utilizzabili. Dobbiamo fare tutto il possibile per preservare la bellezza della lingua italiana.]

Mario Nardi
L’Italia possiede il 70% del patrimonio storico, artistico, musicale rispetto al resto del mondo e questo patrimonio deve essere portato con orgoglio non asservito a mode inutili e dannose.

Thomas Benedikter
L’inflazione di anglicismi è insopportabile. Ciò vale anche per altre lingue come il tedesco, la mia lingua materna. Anzi, è ancora peggio.

Sara Monti
Le lingue straniere vanno studiate ma NON usate a sproposito o in sostituzione della nostra. È ridicolo. Sostengo questa causa!

Alberto Vitale
Parlando 5 lingue dico che quella italiana resta sempre la più melodica e la più invidiata all’estero, così come lo è la nostra cucina. Non a caso la parola più usata al mondo (pizza) è italiana e rappresenta una nostra specialità culinaria. Non lasciamo che il nostro patrimonio linguistico venga snaturato.

Enrico Gaetano Borrello
Non voglio essere colonizzato linguisticamente.

Rossana Ottolini
Non ne possiamo più di non capire coloro che dovrebbero informarci.

Paolo Ziani
Almeno le istituzioni e le leggi dovrebbero usare solo l’italiano

Gianmarco Bellodi
Usano le parole inglesi al posto di quelle della lingua nazionale per compensare il senso di inferiorità generato dall’endemico ritardo nella conoscenza delle lingue straniere, diffuso a livello nazionale. Ma non ottengono altro che rendersi ridicoli.

Chiara Cazzaniga
Ascoltando i politici a volte si fa fatica a capire il significato delle frasi! Un po’ più di trasparenza ci vorrebbe proprio.

Riccardo De Benedetti
L’italiano non è solo la mia lingua e quella di tutti gli italiani, ma è in particolare una lingua nata dalla letteratura. Come tale, esso fa legittimamente parte del nostro patrimonio artistico. Traduciamo gli anglicismi. Oppure, laddove suonassero male, impariamo a creare dei neologismi. Parole nuove, ma dette in italiano, una lingua che offre immense possibilità, in virtù di una grammatica sofisticata, parole musicali e tanti sinonimi e sfumature che s’identificano in un singolo vocabolo. In tal modo, esso tornerà a crescere in modo sommo e significativo.

Vitaliano Angelini
Non è bello sentire chiamare il David di Michelangelo “Devid” e ancor meno la Nike di Samotracia “Naike”.

 

E per concludere (anzi nessuna conclusione, è solo l’inizio!): una nuova trasmissione di Fabio Bernieri (Douglas Mortimer) che ha parlato della petizione sul Tubo.

 

Basta anglicismi nel linguaggio istituzionale! Firma la petizione “Viva l’italiano” #litalianoviva

Se non ne puoi dell’abuso di anglicismi, è arrivato il momento di passare dai lamenti all’azione!

dito nota bene okFirma subito anche tu la petizione per tutelare la lingua italiana contro l’abuso dell’inglese!

 

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Un piccolo gruppo di intellettuali, linguisti, scienziati, professori universitari, attori e cittadini ha deciso di unirsi e attivarsi per il bene dell’italiano e di chiedere al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella di adoperarsi per escludere gli anglicismi dal linguaggio istituzionale e di promuovere una campagna per la promozione del nostro patrimonio linguistico e contro l’abuso dell’inglese.

Troverai la petizione nel collegamento sotto e anche sul sito di suppporto dove ci sono maggiori informazioni.

 

Unisciti a noi!

Firma e invita tutti a firmare e diffondere questa iniziativa ai propri contatti, chiedendo di firmare e di diffondere…
Il cancelletto (hashtag) che servirà da parola d’ordine in Rete è: #litalianoviva.

attenzione 100Se qualcuno dei tuoi contatti non ha accesso a Internet puoi dirgli di spedire una lettera cartacea con scritto: “Aderisco alla petizione Viva l’italiano #litalianoviva!” che dopo essere stata firmata (e integrata da eventuali commenti o motivazioni) si può inviare a:

Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Palazzo del Quirinale, Piazza del Quirinale, 00187 Roma.

 

Istruzioni per firmare
(come salvare l’italiano in 1 minuto e 5 passi)

■ 1) Vai a questa pagina: https://www.change.org/p/sergio-mattarella-basta-anglicismi-nel-linguaggio-istituzionale-viva-l-italiano-litalianoviva
■ 2) Inserisci nel campo a destra: nome, cognome e indirizzo di posta elettronica (email).

Conconsigliosiglio: Per il rispetto della tua privatezza (privacy) puoi spuntare: “No. Non voglio sapere se ci sono novità su questa e altre importanti petizioni.” In questo modo non verrai profilato dalla piattaforma che non ti potrà mandare comunicazioni (a parte la conferma della firma).

Puoi scegliere che il tuo nome (solo quello, non il tuo indirizzo di posta) sia visibile a tutti e puoi lasciare un commento; se preferisci rimanere anonimo puoi spuntare la casella: “Non mostrare il mio nome e il mio commento su questa petizione”.
■ 3) Clicca “Firma” ed evita di lasciare contributi (noi non chiediamo nulla).
■ 4) Vai nella casella di posta e cerca il messaggio di Change.org che dovrai confermare (attenzione: potrebbe arrivare nella cartella “Promozioni”).
■ 5) A questo punto la firma si può attivare. Ti arriverà un ultimo messaggio della piattaforma con il ringraziamento dell’avvenuta firma e l’invito a condividere. Vedi tu.
Se hai spuntato l’opzione di non essere contattato non riceverai altre comunicazioni.

 

I promotori (la pulita dozzina)

Di seguito l’elenco dei promotori (in ordine di adesione) che hanno deciso di “metterci la faccia”.

Antonio Zoppetti: redattore, saggista, insegnante.
“La mia preoccupazione per l’eccessivo aumento dell’inglese
è basata su numeri e statistiche.”

Antonio Zoppetti
Alternative Agli Anglicismi: https://aaa.italofonia.info/
Sito: https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/


Giorgio Cantoni: fondatore del portale Italofonia,
lavora presso una multinazionale informatica californiana (Usa).
“Italiano e inglese: due ingredienti che trovo ottimi separatamente
ma indigesti se mischiati.”

Giorgio Cantoni
Sito: https://italofonia.info


Fabio Bernieri, in arte Douglas Mortimer: divulgatore, consulente, formatore.
“L’italiano è una lingua raffinata ed elegante:
contaminarla con l’abuso di anglicismi ne corrompe la sua nobile natura. Tuteliamola!”

Fabio Bernieri Diuglas Mortimer

Sito: https://www.douglasmortimer.it
Canale YouTube: https://www.youtube.com/user/DouglasMortimer74/
Profilo Instagram: https://www.instagram.com/douglas_mortimer_official/
Pagina Facebook: https://www.facebook.com/douglas.mortimer.ufficiale


Maria Luisa Villa: già professore ordinario di Immunologia, Università degli Studi di Milano, socio corrispondente dell’Accademia della Crusca,
autrice di libri di divulgazione scientifica.
“Conosco altre lingue, ma penso in italiano.”

Maria Luisa Villa


Luigi Quartapelle: professore di Fisica e Dinamica dei Fluidi.
“Se parliamo in italiano, invece che in ‘itanglese’,
rischiamo di capirci – pensate – persino con tutti gli altri.”

Luigi Quartapelle


Gabriele Valle: Saggista, traduttore, docente.
“In spagnolo gli anglicismi non sono così numerosi e frequenti come in italiano.
E se seguissimo l’esempio della nostra lingua sorella?”

Gabriele Valle

Pagina Facebook: https://www.facebook.com/ItalianoUrgente
Sito: http://www.italianourgente.it/


Corrado d’Elia: attore, regista, autore.
“Difendiamo la lingua italiana, il nostro più grande patrimonio!

Corrado d'Elia

Sito: http://corradodelia.it/corrado-d-elia
Pagina Facebook: https://www.facebook.com/corradodelia1
Canale YouTube: https://www.youtube.com/user/cdlibero/videos


Giorgio Comaschi: attore, scrittore, giornalista.
“Di dove sei? E allora parla come sai!”

Giorgio Comaschi

Sito: http://www.giorgiocomaschi.it/
Pagina Facebook; https://www.facebook.com/gcomaschi
Profilo Instagram: giorgiocomaschi6269
Canale YouTube: Giorgio Comaschi


Graziella Tonon: poetessa, già ordinario di Urbanistica.
“Ogni parola che cede il passo all’inglese veicolare è una possibilità in meno che abbiamo: è una parte di noi, della nostra storia e della nostra identità che se ne va.”

Graziella Tonon


Giancarlo Consonni, poeta, prof. emerito di Urbanistica.
“Come scriveva Ludovico di Breme nel 1819,
quanto più una lingua è ‘ricca, gentile, flessuosa, urbana’ tanto più elevato è il suo contenuto di civiltà: è questo legame che va preservato e coltivato.”

Giancarlo Consonni


Piero Bevilacqua: storico, scrittore,
già ordinario di storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma.
“Dobbiamo criticare aspramente l’attuale servilismo da popolo colonizzato
che svaluta la nostra lingua, cultura e civiltà.”

Piero Bevilacqua


Giorgio Kadmo Pagano: artista e teorico dell’arte,
architetto, giornalista ed esperto di Economia linguistica.
“La corruzione linguistica è più dannosa di quella economica, dobbiamo decolonizzare l’Italia.”

Giorgio Pagano

Siti: www.kadmo.eu;
www.era.ong.


Unisciti a noi subito:
basta firmare per fermare (l’inglese) e basta diffondere per difendere (l’italiano)!

Non farai un favore a noi ma alla lingua italiana!

GRAZIE!


Abbiamo aperto un canale YouTube!

Ecco i primi video

Il passero single

L’inferno dell’itanglese di Corrado d’Elia

O darling ciao!

Gli strali di Giorgio Comaschi

Metti la faccia anche tu!
Mandaci un video di massimo trenta secondi in cui spieghi perché hai firmato, perché aderisci o quello che vuoi. I più belli saranno pubblicati sul Tubo!


Questo è il nostro “gagliardino” (banner), il nostro logo con il motto (slogan) e il cancelletto (hashtag) #litalianoviva che invitiamo tutti a copiare, a diffondere, a pubblicare sulle pagine in Rete con il collegamento (link) a questa pagina, al sito di supporto o direttamente a quella della petizione.

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Formato gigante: 879 x 245

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Grande: 600 x 290

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Medio: 300 x 145

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Microscopico: 150 x 72

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La petizione per l’italiano come lingua di lavoro dell’Unione Europea

Lo scorso articolo (“Lingue franche e tirannia della maggioranza: latino, esperanto e inglese”) ha suscitato un certo interesse sulle lingue internazionali. In tanti mi hanno contattato e voglio riprendere brevemente l’argomento spiegando perché ho firmato la petizione “Italiano come lingua di lavoro dell’Unione Europea.


Il complesso di inferiorità verso l’inglese

Il complesso di inferiorità che abbiamo nei confronti dell’inglese sta portando a un’anglicizzazione sempre più ampia della nostra lingua. La battaglia culturale di questo sito vuole innanzitutto denunciare ciò che sta accadendo (visto che per troppo tempo i linguisti hanno negato il fenomeno), e allo stesso tempo rivendicare che l’italiano è una lingua meravigliosa, di cui non dobbiamo vergognarci e di cui ci dovremmo riappropriare con orgoglio. Per questo ho dato vita al dizionario AAA delle Alternative Agli Anglicismi, e per questo ho fondato con gli amici di Italofonia.info il progetto Attivisti dell’italiano: è necessario che la “resistenza” alla sottomissione dell’inglese avvenga innanzitutto sul “fronte interno”, nella comunicazione di tutti i giorni, ma non solo. Dovremmo reagire anche sul “fronte esterno” e, in nome del plurilinguisimo, cessare di considerare l’inglese come l’unica soluzione della comunicazione internazionale in Europa.

Sono sempre più convinto che la nostra lingua dovrebbe essere promossa, valorizzata e tutelata, così come tuteliamo la nostra arte, la nostra cultura, i nostri prodotti gastronomici e tutte le nostre eccellenze. Purtroppo in Italia ciò non avviene, al contrario di ciò che accade normalmente in Francia, in Spagna, in Svizzera e in moltissimi altri Paesi. Da noi, invece, non solo non esiste alcuna politica linguistica, ma, peggio ancora, assistiamo all’introduzione dell’inglese persino nel linguaggio istituzionale e della politica, il che è a mio avviso davvero inaccettabile. Questo atteggiamento contribuisce al declino della nostra lingua e ha anche delle ricadute pesanti che coinvolgono tutti noi come cittadini e riguardano anche questioni pratiche.


L’inglese sta soppiantando l’italiano come lingua di lavoro

Un caso eclatante, denunciato anche da Claudio Marazzini, è la decisione del MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) che il 27 dicembre 2017 ha diffuso il PRIN (Progetti di Rilevante Interesse Nazionale), cioè il bando per il finanziamento dei progetti universitari e di ricerca di interesse nazionale

in cui “si leggeva che la domanda avrebbe dovuto essere scritta soltanto in lingua inglese, con un buffo codicillo, cioè che eventualmente era possibile aggiungere una versione facoltativa in italiano”.

[C. Marazzini, L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua, Rizzoli 2018, p. 75].

Per la cronaca: nel 2012 la domanda doveva essere compilata in italiano e inglese, nel 2015 si lasciava la libertà di usare l’inglese oppure l’italiano, e nel 2017 si è passati al solo inglese (ivi, p. 77).

È possibile che nell’università italiana, e tra italiani, la lingua di lavoro diventi l’inglese? Sì, è precisamente quello che sta già accadendo, sia pure nella disattenzione generale. Ad alcuni docenti (tra i quali chi scrive) è appena capitato di ricevere da un ateneo la richiesta di esaminare e valutare un progetto di ricerca. E fin qui sarebbe tutto normale. Il punto è che l’intera procedura – le mail del rettore che formulava la richiesta, il progetto da valutare, il giudizio espresso dal valutatore – doveva svolgersi unicamente in inglese. Più che di un caso limite, si trattava in realtà di una solerte anticipazione di una linea di condotta ministeriale che va diventando sempre più evidente.”

[“L’inglese lingua di lavoro? Non è la scelta migliore”, Giovanni Belardelli, Corriere della Sera, 6 gennaio 2018].

Perché i progetti di “rilevanza nazionale” dovrebbero essere espressi in lingua inglese? Perché si rinuncia all’italiano, invece di promuoverlo, dando per scontato che l’inglese diventi la lingua ufficiale della ricerca?

Un altro esempio molto noto che va nello stesso senso è quello della decisione del Politecnico di Milano, nel 2011, di rendere obbligatorio a partire dall’anno accademico 2013-2014 l’insegnamento solamente in lingua inglese nei corsi magistrali e dottorali, estromettendo così la lingua italiana dalla formazione superiore di ingegneri e architetti. La decisione sollevò l’indignazione di tanta gente e 126 docenti firmarono una lettera di protesta al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La professoressa di Istituzioni di diritto pubblico del Politecnico Maria Agostina Cabiddu, da poco premiata dall’Accademia della Crusca proprio per questa sua battaglia, è riuscita in questo modo a bloccare l’iniziativa, dichiarata poi illegittima dal Tar della Lombardia che ha sancito che la lingua italiana debba mantenere il “primato in ogni settore dello Stato”.  Nel 2017, tuttavia, la Corte costituzionale si è pronunciata sull’inglese nell’università ritenendo non condivisibile la sentenza del Tar e, pur riconoscendo l’ufficialità e la primazia della lingua italiana, ha ammesso che nella propria autonomia gli atenei possano erogare corsi in lingua straniera secondo un principio di “ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza”. Dopo altre sentenze successive, la questione dell’insegnamento in lingua inglese nelle università è tutt’ora terreno di scontro, e in inglese si insegna attualmente per esempio al MUNER (Motorvehicle University of Emilia-Romagna) o all’Humanitas University di Milano nella facoltà di medicina.

Dietro questa confusione tra la lingua della didattica e la lingua della ricerca (ma va ribadito che l’inglese non è ovunque la lingua della scienza) c’è una visione del mondo che dà per scontato che essere internazionali equivalga a parlare l’inglese. Questa presa di posizione è però a mio parere da combattere con ogni mezzo in nome del plurilinguismo, che è invece un valore da difendere, come fanno maggiormente negli altri Paesi dove in proposito c’è una sensibilità molto diversa che da noi. E così, mentre per valorizzare l’Italia all’estero la RAI annuncia il suo prossimo canale solo in inglese, definito “la lingua del mondo”, la BBC informa in 45 lingue differenti, e in Paesi come la Francia o la Germania si punta alle trasmissioni non solo in inglese, ma anche in francese, tedesco, spagnolo e arabo (cfr. “Canale Rai solo in inglese, ‘la lingua del mondo’. Ma la BBC informa in 45 lingue”).

Davanti alla scelta tra il monolinguismo basato sull’inglese o il plurilinguismo, il nostro complesso di inferiorità che sul fronte interno ci sta portando all’itanglese, sul fronte esterno ci vede preferire la lingua della globalizzazione per relegare l’italiano a una sorta di dialetto interno nella convinzione-confusione che essere internazionali coincida con parlare l’inglese.

E nell’Unione Europea cosa avviene? E qual è la differenza tra italiano, inglese e tedesco?


La petizione per l’italiano come lingua di lavoro dell’Unione Europea

L’Unione europea è attualmente fondata sulla piena autonomia, anche linguistica, di ogni singolo Paese. Sono dunque i parlamentari eletti localmente a dovere comunicare tra loro attraverso le lingue comuni (ma nella pratica usano l’inglese), e non certo i cittadini europei.

Eppure l’Ufficio Europeo di Selezione del Personale (denominato non a caso con la sigla inglese EPSO: European Personnel Selection Office) bandisce concorsi in cui l’italiano è in pratica estromesso e la seconda lingua deve essere l’inglese, il francese o il tedesco. Se nel Regolamento delle Comunità Europee del 1958 (art.1/58) l’italiano era una delle lingue di lavoro (“Le lingue ufficiali e le lingue di lavoro delle istituzioni della Comunità sono – in ordine alfabetico – la lingua francese, la lingua italiana, la lingua olandese e la lingua tedesca”), successivamente è stato discriminato dai governi che si sono succeduti. Nonostante l’imminente uscita del Regno Unito (entrato nella CEE solo nel 1973) e nonostante le norme sancite dai trattati, ultimamente nell’UE si registra la supremazia di fatto del trilinguismo anglo-franco-tedesco, da cui l’italiano è estromesso.

Ecco perché ho firmato l’Appello per l’italiano lingua di lavoro dell’Unione europea rivolto al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio, al Governo e a ciascun parlamentare. Perché tutti si adoperino perché l’italiano diventi anche lingua di lavoro dell’Unione, e non sia solo una lingua ufficiale, e perché ne sia riconosciuto il valore e la sua promozione. Passando dalle questioni di principio a quelle pratiche, ciò permetterebbe anche alle piccole  e medie imprese un accesso rapido e agevole ai finanziamenti europei senza sobbarcarsi i costi delle traduzioni professionali che si aggiungono pesantemente alle difficoltà burocratiche.

Chi volesse firmare la petizione #DilloInItalianoInEuropa lo può fare a questa pagina di Buonacausa.org in modo semplice e in meno di un minuto. Mancano soltanto poche firme per il raggiungimento dell’obiettivo, e mi pare una causa importante e un intento molto lodevole.