I perché di una petizione a Mattarella (e le prime 2.500 firme)

La petizione #litalianoviva (che ha raggiunto le 2.500 firme) arriva cinque anni dopo quella, fortunatissima, lanciata da Annamaria Testa (#dilloinitaliano). Le quasi 70.000 firme di allora ebbero una risonanza senza precedenti e una rassegna stampa fitta e internazionale. Proprio in seguito a questo straordinario successo, l’Accademia della Crusca. a cui era rivolta, decise di dare vita al Gruppo Incipit, che aveva lo scopo “di monitorare i neologismi e forestierismi incipienti, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana e prima che prendano piede.” Dunque: “monitorare” più che “arginare”, anche se nei comunicati sono sempre stati indicati dei sostitutivi italiani.

A cinque anni da questo evento, ho tentato di fare un bilancio di cosa sia accaduto e di che cosa sia cambiato. Purtroppo la risposta è che, nel concreto, non è accaduto nulla. Anzi, da allora le cose sono decisamente peggiorate. Ecco perché ho provato a immaginare un’iniziativa simile ma con altri interlocutori e altre richieste.

L’attuale ruolo della Crusca

Mi pare che l’importanza della petizione di Annamaria Testa si possa riassumere nella presa di coscienza del fastidio verso l’abuso dell’inglese di una grande fetta degli italiani. La svolta che ha segnato è stata proprio l’emergere di questo nuovo modo di sentire nell’opinione pubblica, un cambio di paradigma storico molto importante: per la prima volta, parlare di tutela dell’italiano non veniva più associato alla politica linguistica del fascismo, alla guerra ai barbarismi, e neanche alle prese di posizione “puriste” o “neopuriste” che avevano caratterizzato la denuncia del “morbus anglicus” di Arrigo Castellani negli anni Ottanta.

accademia della cruscaNon è un fatto da poco. Bisogna tenere presente che Francesco Sabatini, quando era il presidente della Crusca, fondò nel 2001 il Clic (Centro di consulenza sulla lingua italiana contemporanea), che si interruppe presto anche per le reazioni ostili dei mezzi di informazione davanti alla “difesa della lingua”, un argomento ancora tabù. Con la costituzione del Gruppo Incipit, l’Accademia si aspettava analoghi attacchi e resistenze culturali, ma la cosa più sorprendente fu che non ce ne furono affatto. Il vento era cambiato, la petizione #dilloinitaliano fu come una gigantesca manifestazione di piazza, seppur virtuale, che lanciò questo importantissimo segnale.

Eppure la timidezza della Crusca nello schierarsi a favore della difesa della lingua è rimasta.
Anche se nella percezione della gente l’Accademia è ancora associata alle attività del passato, quando questa antichissima e prestigiosa istituzione pubblicava il vocabolario della lingua italiana e aveva un atteggiamento prescrittivo nei confronti della lingua, oggi non è più così. Fu proprio durante il fascismo che l’attività lessicografica della Crusca fu soppressa, con il Regio Decreto del ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile nel 1923, e fu invece la Reale Accademia d’Italia (Rai) a essere in seguito incaricata di compilare il dizionario della lingua italiana del regime, che si interruppe (alla lettera C) con la caduta del fascismo. Negli anni Sessanta, quando il presidente della Crusca era Giacomo Devoto si delineò molto chiaramente il nuovo spirito dell’Accademia di rinunciare agli intenti normativi e prescrittivi in favore del descrittivismo, cioè di esaminare l’evoluzione dell’italiano senza intervenire, perché la lingua non va difesa, va studiata, per citare Giancarlo Oli. Questa prospettiva è quella dominante anche oggi, e poco si concilia con il volere arginare gli anglicismi.

Il Gruppo Incipit

Nel contrastare le parole inglesi, il Gruppo Incipit ha giocato un ruolo simbolico ma non ha raggiunto obiettivi concreti. A parte qualche presa di posizione dei suoi membri in occasioni pubbliche o interviste, si è limitato a diramare 13 comunicati che complessivamente hanno indicato le alternative a qualche manciata di parole, a fronte delle centinaia che si sono affermate. Non sono al corrente del loro lavoro di “monitoraggio” (studi quantitativi o altre analisi organiche), ma stando ai comunicati si evince che il problema è stato affrontato a sprazzi, e non certo in modo sistematico. Alla fine del 2016 sono entrate prepotentemente nel linguaggio comune fake news, grazie ai giornali che hanno virgolettato senza tradurre un’espressione di Trump (per far cadere le virgolette il giorno dopo e introdurre nella nostra lingua l’inglese crudo invece che “notizie false” o “bufale”). Nel 2017 è esploso il black friday, grazie al trapianto di una consuetudine statunitense nel nostro Paese. E di anno in anno, anglicismo dopo anglicismo, si può arrivare alla pandemia del 2020 che ci ha regalato il lockdown (insieme a droplet e tantissimi altri che ho ricostruito in un articolo Treccani). Dunque stupisce la mancata presa di posizione davanti a questi esempi eclatanti che hanno stravolto il nostro modo di parlare.

L’attività della Crusca non è insomma minimamente paragonabile a quella delle accademie di Spagna e Francia, che non hanno paura di essere prescrittive o di proporre alternative, anzi, ciò rientra nei loro compiti e nella loro missione. L’Académie française, inoltre, non è composta solo da linguisti, e tra i 40 cosiddetti “immortali” ci sono illustri rappresentanti della letteratura, della scienza o del mondo politico. Perché la lingua è di tutti, non si può lasciare solo nelle mani dei linguisti.

A parte queste diverse prospettive, bisogna anche riconoscere che i comunicati del Gruppo Incipit, benché esigui, non hanno sortito alcun effetto tangibile.

I limiti di Incipit e della Crusca

Incipit parte dal presupposto che quando un anglicismo si afferma è poi molto difficile da sradicare. Ciò è vero soltanto in Italia, bisogna precisarlo, perché in Francia molti sostitutivi introdotti in seguito alla legge Toubon hanno fatto regredire l’inglese. Ma questo approccio, che se non è supportato da una politica linguistica risulta poco efficace, ha anche un altro forte elemento di debolezza. Lo aveva sollevato sin dall’inizio Tullio De Mauro. Davanti alle proposte sostitutive per esempio di analisi on desk, benchmark, tool, distance learning o peer review (comunicato n. 6), “se l’obiettivo dell’Accademia è ottenere gli applausi della stampa, l’obiettivo è in gran parte raggiunto”. Altrimenti queste parole non erano affatto incipienti, visto che erano registrate dai dizionari già da decenni, per cui “se c’è (e c’è) abuso di anglismi nella comunicazione universitaria, l’imputato chiamato alla sbarra da Incipit, l’aziendalese, va assolto: non è lui che ha commesso il fatto” ( → “È irresistibile l’ascesa degli anglicismi?”).

Insomma, se i linguaggi di settore vengono colonizzati sempre più dall’inglese, poi è inevitabile che da lì straripino nella lingua comune. E allora l’argine a ciò che è in fase incipiente dovrebbe semmai essere doppio. Bisognerebbe operare scelte terminologiche traduttive innanzitutto quando gli anglicismi entrano nei linguaggi specialistici, ma è un po’ difficile visto che la scienza, la tecnologia, l’informatica, il lavoro, l’economia e quasi ogni ambito culturale si studiano sempre più in inglese con il risultato di trapiantare i tecnicismi in modo crudo invece di saperli interpretare autonomamente. Il secondo argine dovrebbe essere eretto quando queste parole, magari dopo molti anni, si riversano nella lingua comune. Ma siamo sicuri che questo sistema funzioni?

Direi di no. Nella realtà, giornalisti e politici se ne fregano dei sostitutivi promossi dalla Crusca, ammesso che li conoscano, e puntano ad attingere al linguaggio specialistico invece che al lessico della divulgazione. “Smart working”, per esempio, era uno pseudoanglicismo presente già prima della pandemia del coronavirus, anche se la sua frequenza era bassa e la sua circolazione era ristretta al mondo lavorativo degli addetti ai lavori. Incipit, nel 2016, ha promosso l’alternativa in circolazione nel linguaggio contrattuale di “lavoro agile” (comunicato n. 3) quando ancora la parola non era così comune. Ciononostante, da qualche mese l’espressione ha fatto il salto di specie: i giornali, i politici e i tecnici hanno usato l’inglese ripetuto in modo ossessivo fino a farlo diventare la parola più gettonata, che ha scalzato non solo l’equivalente tecnico di lavoro agile, ma anche quelli possibili nella lingua comune, cioè il lavoro da casa, da remoto, a distanza o il telelavoro. Lo stesso si può dire di caregiver, che circolava come tecnicismo già ben prima del 2018 quando è entrato nella legge di bilancio e quando Incipit lo ha affiancato a “familiare assistente”, “prestatore di cure o “assistente domestico” (comunicato n. 9).

Vale la pena di ricordare che caregiver è diventato un tecnicismo solo in italiano, in inglese non ha questa specificità, e la parola non si trova né in spagnolo – si parla di “curatore”, cuidador (familiar) – né in francese – “aiutante”, aidant familial o informal, proche aidant –. Lo stesso vale per per smart working, che non esiste in francese, in spagnolo né in inglese (remote working).

E allora la strada per fermare l’anglicizzazione è forse un’altra rispetto a quella prospettata da Incipit, e implica l’essere meno provinciali, tradurre o inventare neologismi italiani (qualora le parole ci mancassero) invece che importare parole inglesi crude (se va bene, altrimenti si inventano pseudoanglicismi). Insomma, davanti alle migliaia di parole inglesi il punto non è quello di sostituirle nella fase incipiente, ma agire alla base: è necessario creare un nuova cultura, spezzare l’anglomania da colonizzati che porta a preferire i suoni inglesi a prescindere dalle singole parole, riappropriarci con orgoglio della nostra lingua e della capacità di generare neologismi su base endogena. Dobbiamo superare il nostro senso di inferiorità che ci fa vedere l’inglese come una cultura e una lingua superiori, dobbiamo smettere di confondere l’inglese con l’essere moderni o internazionali. Per essere moderni dovremmo fare evolvere l’italiano, e per essere internazionali dovremmo fare come si fa all’estero, dove si usa maggiormente la propria lingua.

E soprattutto, dovremmo cessare di aver paura di essere prescrittivi. Come fanno le accademie francese e spagnole.

Un po’ di sano prescrittivismo

Se la strada di Incipit non è stata produttiva, non è all’Accademia della Crusca che ci si deve rivolgere per cambiare le cose. Forse l’Accademia andrebbe rifondata, e investita di un po’ di sano prescrittivismo proprio dalla politica che un tempo le ha sottratto questo ruolo. Davanti all’espansione dell’inglese globale che minaccia molte lingue, il liberismo linguistico rischia di trasformarsi in un anarchismo nel senso più negativo, uno stato di natura selvaggio e senza regole che coincide con la sopraffazione del più debole (homo homini wolf).
La difesa della lingua, un tempo invocata per purismo o per motivi di principio esterofobi, è oggi da rivedere da un altro punto di vista basato sui numeri. Qui si tratta di proteggere il nostro patrimonio culturale esattamente come si difendono i panda e le balene che rischiano l’estinzione.

Andrea Camilleri protezione lingua italianaQualche anno fa, Andrea Camilleri ha sintetizzato tutto ciò in modo meraviglioso in un brevissimo video, che vi invito a vedere, in cui sviscerava il tema-tabù della “protezione della lingua” davanti all’inglese. Spiega che da quando la lingua dell’Europa, per le leggi e il lavoro, ha cessato di essere tradotta in italiano e riporta i documenti solo in inglese, francese e tedesco, la nostra lingua è regredita. I nostri politici avrebbero dovuto opporsi, ma non l’hanno fatto. Per Camilleri, se dalla terminologia tecnica (sempre più in inglese crudo) le parole entrano poi nella lingua comune è per “provincialismo assoluto”, e sfoggiare questo lessico inglese non è cultura. Il rischio lucidamente intravisto era che l’italiano diventasse una lingua morta, che ha la sua tradizione storica congelata nella letteratura del passato, ma senza sapere evolversi. Per lo scrittore, la soluzione non è certo l’autarchia come ai tempi del fascismo, ma una “giusta difesa della lingua andrebbe fatta”, smettendo di essere provinciali e recuperando “le bellissime parole della nostra lingua”.

Come si può non essere d’accordo? Come possono i linguisti italiani non comprendere che tra l’autarchia linguistica e l’essere normativi nel modo più rigido e antistorico ci sono delle vie di mezzo necessarie e sane, come hanno capito in Francia, in Spagna o in Svizzera?

Per tutelare l’italiano, l’attuale atteggiamento descrittivo della Crusca non basta. Visto che i linguisti non si fanno problemi a prescrivere le giuste parole nel caso del linguaggio non discriminante per le cariche femminili e sono intervenuti nello schierarsi a favore di parole come ministra o sindaca modificando l’uso – come stanno facendo anche davanti a quisquilie come scrivere “sé stesso” invece di “se stesso” senza accento che si era affermato nell’editoria del Novecento – perché non dovrebbero avere lo stesso atteggiamento davanti agli anglicismi in nome delle pari opportunità dell’italiano, oltre che delle donne?

Per contrastare l’abuso dell’inglese basterebbe agire con coerenza e nello stesso modo, invece di usare due pesi e due misure. Proprio dalla politica, e dalle raccomandazioni delle amministrazioni supportate dalla consulenza Crusca sono arrivate le direttive del linguaggio non discriminante. La promozione di questo lessico e la campagna culturale che c’è stata in proposito hanno dato i loro frutti, e hanno portato i giornali a utilizzare le nuove parole e i dizionari ad accoglierle e a registrarle.

vivalitaliano 300 x 145Queste sono le due vie proposte dalla petizione per promuovere l’italiano e spezzare l’abuso dell’inglese. L’eliminazione degli anglicismi nel linguaggio istituzionale e l’avvio di una campagna di sensibilizzazione.
L’interlocutore non può che essere la politica…

 

Continua.

La politica linguistica del fascismo e la guerra ai barbarismi [PARTE II]


Continuazione
: qui la prima parte.

 

Le censure del Minculpop e le liste della Reale Accademia d’Italia (RAI)

minculpopCon la proclamazione dell’autarchia e la preparazione alla guerra di Etiopia, parlare l’idioma del nemico era considerato una sorta di alto tradimento. Nel 1937 il ministero della Stampa e della propaganda fu rifondato come ministero della Cultura popolare, più noto successivamente con l’abbreviazione dispregiativa di Minculpop, che nei confronti della stampa ebbe un’influenza decisamente più impositiva. Nello stesso anno, la tassa sulle insegne del 1923 divenne di ben 25 volte superiore, obbligando tutti ad adeguarsi. Così, nel 1938 il Touring Club Italiano diventò la Consociazione Turistica Italiana e i magazzini Standard la Standa, mentre la squadra di calcio milanese Internazionale, oggi Inter, già dal 1928 aveva cambiato il nome in Ambrosiana, in parte per le riforme del calcio del 1926 che prevedevano varie fusioni societarie, e in parte perché un nome del genere non era gradito al regime.

Tutto si irrigidì con lo scoppio della Seconda guerra mondiale. La legge del 23 dicembre 1940 (n. 2042) vietò l’uso delle parole straniere nei documenti ufficiali, nelle affissioni pubblicitarie e nelle insegne dei negozi, pena un’ammenda fino a 5.000 lire e l’arresto fino a 6 mesi. Intanto la Reale Accademia d’Italia aveva inglobato l’Accademia dei Lincei, e fu incaricata di sorvegliare gli esotismi e di redigere un vocabolario della lingua italiana (affidato a Giulio Bertoni), visto che nel 1923 il ministro Gentile aveva sottratto questo ruolo storico all’Accademia della Crusca. Il primo volume (A-C) uscì nel 1941, ma fu anche l’ultimo, perché l’opera si interruppe con la caduta del fascismo. La commissione “per l’italianità della lingua” della Reale Accademia che si occupava di stilare le liste di parole vietate con l’indicazione dei traducenti fu invece attiva tra il 1940 e il 1942 con vari bollettini. La maggior parte dei termini erano francesi: hôtel fu rimpiazzato da albergo, grand hôtel da albergo imperiale, garage diventava autorimessa e hangar aviorimessa, il papillon farfallino o cravattino. Alla fine si contavano circa 1.500 parole sostituite da quelle italiane e, venendo agli anglicismi, bar fu sostituito con mescita o anche qui si beve, dancing con sala danze, danzatoio o balleria e tra le altre parole bandite c’erano alcol (alcole), boy scout (giovane esploratore), cyclostile (ciclostilo), extra-strong (di uso cartario, extra-forte), film (pellicola), gangster (malfattore), pullman (torpedone, corriera, autocorriera), pullover (maglione), sandwich (tramezzino), smoking (giacca da sera), toast (pane tostato e pantosto). Tra i forestierismi ammessi c’erano invece parole usate anche negli scritti di regime come film (fino agli anni Trenta al femminile, “la film”), sport o camion, e anche nel dizionario della Reale Accademia si trovano alcuni forestierismi, per esempio clown, seppure distinto dal corsivo e affiancato dall’italiano pagliaccio.

Alcune corrispondenze che circolavano in quegli anni oggi ci appaiono davvero ridicole, come il volere ribattezzare l’insalata russa, patriotticamente, insalata tricolore, oppure la proposta di tradurre cachemir con casimiro, ma casi come quest’ultimo non sono giudizi oggettivi, dipendono solo dall’abitudine e dal senno di poi (se fosse entrato nell’uso ci apparirebbe normale: Leopardi ce lo ha insegnato). Tra le italianizzazioni esasperate ci furono anche alcuni tentativi di tradurre i nomi propri. Uno dei casi più citati è quello di Guglielmo Scuotilancia al posto di William Shakespeare,  ma l’occorrenza di questo adattamento non si trova in letteratura, se non in contesti scherzosi e successivi. Quanto a Luigi Braccioforte (Louis Armstrong) o Beniamino Buonuomo (Benny Goodman), anche se esistevano prescrizioni di adattamento dell’inglese per esempio nelle trasmissioni radiofoniche,  furono più che altro espedienti per aggirare i divieti che riguardavano la musica jazz, visto che nel 1941, in seguito alla guerra con gli Stati Uniti, furono vietati i nomi e i titoli anglo-americani. Per cui si suonava il jazz, ma lo si dichiarava mazurca, e per sfuggire ai sequestri discografici si trovavano le traduzioni di canzoni come Le tristezze di San Luigi (St. Louis Blues) che venivano dichiarate così anche nei bollettini dei diritti d’autore (cfr. Mike Zwerin, Musica degenerata. Il jazz sotto il nazismo, Edt, 1993, p. 186).
Sfogliando i giornali d’epoca non si trovano gli adattamenti dei nomi, e tutto sommato il proibizionismo funzionò solo fino a un certo punto. Molti divieti e sostituti vivevano nella teoria più che nella pratica.
Maurizio Barbi, in uno studio approfonditissimo sulla storia dello Zingarelli, confrontando l’edizione del 1942 con gli elenchi della Reale Accademia ha notato come nel dizionario fossero riportati molti forestierismi “palesemente vietati” e in teoria soggetti ad ammende e sanzioni.

[Barbi, N. Maurizio, “Neologismi e neosemie nel vocabolario Zingarelli: un confronto sincronico tra la Decima edizione (1970) e la ristampa della Dodicesima edizione (2015)”, tesi di dottorato, Università di Belgrado, Facoltà di Filologia, 2018, p. 186].

Secondo Claudio Marazzini anche l’imposizione del voi al posto del lei funzionò poco (Breve storia della lingua italiana, il Mulino, 2004, p. 209), e va ricordato che Benedetto Croce (l’intellettuale che il fascismo non censurò facendone il simbolo della sua presunta “tolleranza”) finì per passare al lei proprio in polemica con il regime.

 

Cosa è rimasto della politica linguistica del fascismo?

Caduto il fascismo, nel doppiaggio cinematografico è rimasto in molti casi il voi anche negli anni Cinquanta (per es. in Vacanze romane di Roman Holiday, 1953: Audrey Hepburn e Gregory Peck non si danno del lei), per poi scomparire definitivamente (tranne in alcune varietà regionali del sud dove già era diffuso in precedenza). Ma la scuola della dizione si è sviluppata partendo dalle impostazioni nate con l’Eiar, improntate al fiorentino emendato dal romano, anche se il Prontuario di pronunzia e di ortografia del 1939 (di G. Bertoni e F.A. Ugolini) è stato sostituito dal più ampio e riveduto DOP (Dizionario di Ortografia e Pronunzia) di Bruno Migliorini, Carlo Tagliavini e Piero Fiorelli (Rai-Eri 1969).

Anche la scarsa considerazione dei dialetti, visti come un segno di ignoranza dell’italiano, si è protratta ben oltre il regime. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta in città come Milano o Torino, coinvolte anche dai fenomeni della migrazione, per la prima volta si è rotta la tradizione del dialetto parlato in famiglia: alle nuove generazioni si è cominciato a parlare in italiano. Così alcuni dialetti si sono persi, e solo in tempi recenti sono stati rivalutati e in alcuni casi recuperati come segno di cultura e di conservazione del nostro storico bilinguismo.

Sciuscià di vittorio de sica
Sciuscià, adattamento alla napoletana di shoeshine (lustrascarpe), Vittorio De Sica, 1946.

Quanto ai forestierismi, con la Liberazione si è aperto un nuovo portone, quello degli anglo-americanismi, che si erano affacciati già nel ventennio fascista:

“per poi prendere il sopravvento su ogni altra [lingua] dopo la Seconda guerra mondiale; e procedere da tutti i punti dell’orizzonte”.

[Migliorini-Baldelli, Breve storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze 1984, p. 342].

Con il crollo del regime, insieme all’arrivo dei soldati americani sono arrivate in Italia anche la loro lingua e la loro cultura che, proprio per reazione al fascismo, nei decenni successivi si sono identificate con la libertà e il sogno americano.

 

La guerra ai forestierismi ha funzionato?

In molti hanno provato a chiedersi se la politica contro gli esotismi abbia funzionato e abbia prodotto dei risultati. Ma forse le risposte, e anche la domanda, hanno poco senso. Nel complesso non pare possibile affermare che abbia funzionato, come vorrebbe qualche nostalgico, ma non si può nemmeno dire che nulla abbia attecchito.

Di sicuro alcune proposte hanno avuto successo, e durante il fascismo si sono stabilizzate alcune parole come regista o autista, o gran parte della terminologia sportiva che a quei tempi era prevalentemente inglese, a cominciare da calcio (football), calcio di rigore (penalty), rete (goal italianizzato anche in gol), fuorigioco (offside) o angolo (corner), ma anche pallacanestro al posto di basket, benché oggi l’italiano stia di nuovo regredendo nell’ambito sportivo.

basket pallacanestro
Le frequenze di basket (pseudoanglicismo: in inglese è basketball) e pallacanestro.

Alcuni adattamenti come blu per bleu o bidè per bidet sono ancora presenti.

blu e bleu
Bleu fu più frequente di blu (adattamento ottocentesco) anche durante il regime, e si impose sul francesismo solo in seguito.

Altri traducenti non hanno scalzato gli equivalenti inglesi, ma coesistono ancora oggi come sinonimie magari dalla frequenza più bassa, per esempio scarto (dribbling) o scatto (sprint). In molti altri casi i sostitutivi non hanno affatto funzionato, a volte non si sono imposti nemmeno durante il regime come mescita per bar, pallacorda o giuoco della racchetta (tennis), fiorellare (flirtare, neologismo di Panzini) o balleria o danzatoio (dancing). Altre volte hanno funzionato in epoca fascista per poi regredire successivamente (palla ovale/rugby).

rugby palla ovale
Palla ovale non ha mai scalzato rugby, nemmeno durante il regime.

Le risposte sono complesse anche perché nel frattempo la lingua è evoluta e i significati sono mutati: il tramezzino di D’Annunzio come alternativa a sandwinch è diventato un ben preciso stuzzichino fatto con il pane in cassetta, e il sandwich è diventato un panino imbottito, così come il toast non è più un crostino ma designa le due classiche fette di pane tostato ripiene di prosciutto e formaggio. Bonne e nurse, condannati da Monelli al posto di bambinaia, sono scomparsi, ma successivamente hanno lasciato il posto a baby sitter [cfr. “La maledizione della baby sitter (e i composti di baby)].
In altri casi, come pompelmo al posto di grape-fruit, va precisato che dall’analisi della frequenza di queste parole che si ricava dalle statistiche di Ngram Viewer, i forestierismi esistevano ma non si erano mai affermati, per cui sarebbero forse regrediti da soli senza alcuna proibizione. Oppure si sono imposte parole italiane diverse da quelle proposte, come nel caso di dubbing, che all’epoca della nascita del cinema sonoro era in competizione con doppiaggio, ma che Monelli, per esempio, proponeva invece di cambiare con “travestimento” (delle parole) o “doppiato”.

[Dalle frequenze di Ngram Viewer si evince che dubbing era apparso alla nascita del sonoro, tra il 1929 e il 1930, in competizione con doppiaggio, e che è scomparso intorno al 1937].
panfilo yacht
Panfilo, durante il fascismo, si è imposto e ha convissuto con yacht per poi rimanere come alternativa secondaria anche successivamente.

 

In sintesi, non c’è un criterio per stabilire se ciò che è accaduto è la conseguenza diretta della politica fascista o meno, e anche stilare gli elenchi dei sostitutivi per poi conteggiare ciò che è rimasto e ciò che è svanito non porterebbe a nulla. Molte alternative circolavano anche prima del fascismo, e secondo Riccardo Tesi soprattutto queste hanno poi avuto un seguito (Tesi, R., Storia dell’italiano, Zanichelli, 2005).

Di sicuro ha fallito il proibizionismo, come metodo. E la politica contro il barbaro dominio fatta con la repressione e la censura è oggi l’eredita più pesante del fascismo, dal punto di vista linguistico. Per reazione ha successivamente spalancato le porte ad accogliere le parole straniere forse con eccessiva indulgenza. E il risultato è che parlare di tutela dell’italiano è diventato un tabù. Nessuno ha da obiettare sulla difesa delle nostre eccellenze culturali, storiche, artistiche o gastronomiche, ma se lo stesso metro si applica alla lingua subito riemergono i fantasmi del passato e le resistenze. Come se l’unica politica linguistica possibile fosse quella del fascismo (un sentimento diffuso infatti anche in Germania dove, dopo Hitler, i discorsi che fanno appello all’identità nazionale, anche linguistica, richiamano un periodo da rimuovere).

Eppure, davanti all’anglicizzazione della nostra lingua è più che mai necessario tornare a parlare di politica linguistica e di tutela dell’italiano, lasciandoci alle spalle i proibizionismi, le purghe e i modelli repressivi. Dovremmo guardare a ciò che si fa in Francia, in Spagna, ma anche in Svizzera e in quasi tutti gli altri Paesi, dove si lavora per la promozione della lingua e per la circolazione delle alternative, esistenti o create dagli organi preposti, con uno spirito diverso. In questi paesi non ci sono liste di parole “vietate”, ma si promuovono elenchi di sostitutivi possibili, ed è la comunità dei parlanti a receperirli o meno, a seconda dei casi. Se ai tempi del fascismo la guerra ai barbarismi aveva una motivazione politica nazionalistica e di principio (non esisteva numericamente alcun pericolo di imbarbarimento linguisitico), oggi la moltiplicazione incontrollata delle parole inglesi sta snaturando il nostro lessico, e creare sostitutivi italiani sarebbe sano e auspicabile.

Opporsi al nuovo colonialismo culturale e linguistico che assomiglia sempre più alla “dittatura dell’inglese” non è da nostalgici né da “sovranisti”, è al contrario un atto di Resistenza, è la difesa del locale che rischia di soccombere davanti alla globalizzazione. Non è né di destra né di sinistra: dovrebbe essere un valore che appartiene a tutti.

La politica linguistica del fascismo e la guerra ai barbarismi [PARTE I]

Nei primi del Novecento le masse si esprimevano fondamentalmente in dialetto e i ceti popolari avevano una scarsa dimestichezza con la lingua nazionale dei giornali o dei libri. Durante la Prima guerra mondiale si registrarono oggettivi problemi di incomprensione tra le truppe; spesso i soldati che provenivano dalle regioni meridionali faticavano a decifrare gli ordini degli ufficiali perlopiù piemontesi. In un programma televisivo degli anni Settanta venne persino ricostruito un episodio in cui un plotone di lombardi e uno di siciliani rischiarono un conflitto a fuoco tra di loro perché entrambi pensavano che l’idioma di chi avevano di fronte fosse il tedesco.

[Cfr. Parlare, leggere, scrivere. Storia dell’Italia unita tra lingua e dialetti, 1969-73, con T. De Mauro e U. Eco, regia di Piero Nelli].
la grande guerra monicelli
La grande guerra (Mario Monicelli, 1959).

L’unificazione dell’italiano parlato è avvenuta in seguito, soprattutto con la radio, il cinema e poi la televisione. L’avvento del sonoro è arrivato in Italia durante il regime fascista, che lo ha cavalcato, governato e indirizzato all’interno di una più ampia politica linguistica totalitaria volta a imporre la lingua nazionale.

La lingua come strumento di coesione del popolo e l’ostilità per i dialetti

Il fascismo considerava la lingua come uno strumento fondamentale per la coesione del popolo e per la difesa del nazionalismo e tentò di controllarne e di regolamentarne esplicitamente l’uso. Così, insieme all’abolizione della stretta di mano sostituita con l’obbligo del saluto fascista, il regime impose l’utilizzo del voi al posto del lei, considerato un residuo del servilismo italiano nei confronti dell’invasore straniero.
Per questo, nonostante il diverso significato della parola, la rivista Lei si trasformò in Annabella, visto che il lei era stato abolito, ma per fortuna si poteva parlare ancora di Galileo Galilei e non di Galileo Galivoi, per riportare una battuta di Totò che gli valse una denuncia poi archiviata.

Libro cultura militare
Un libro sulla cultura militare per le scuole medie inferiori degli anni Trenta.

I provvedimenti per l’unificazione dell’italiano si concretizzarono anche attraverso la lotta ai dialetti, a cominciare dalla scuola.

La riforma scolastica di Giovanni Gentile, nel 1923, non era ostile al dialetto che era spesso la lingua dei maestri oltre che degli scolari. Persino i libri di testo delle elementari, gli Almanacchi, avevano le loro versioni regionali, ed erano affiancati dai libri che educavano alla traduzione dal dialetto in italiano.

Dal 1925 l’approccio cambiò completamente, il dialetto fu considerato sempre più come un ostacolo all’affermarsi della lingua nazionale, e fu estromesso dall’insegnamento, anche se in molti casi ciò venne disatteso per il semplice fatto che gli stessi maestri non padroneggiavano la lingua sovraregionale.

La nascita del sonoro e l’unificazione della dizione

Nel 1924 fu inaugurata la radio, che si diffuse con enorme popolarità contribuendo ad aumentare l’industria musicale dei 78 giri che veicolava, tra le altre cose, anche le canzoni in italiano. Nel biennio 1937-38 l’installato degli apparecchi radiofonici superò il milione, un numero molto significativo visto che, per la carta stampata, la rivista più diffusa era la Domenica del Corriere, con tirature di 600 mila copie, mentre La Stampa (e Stampa Sera) aveva toccato il suo massimo storico di 1 milione e 300 mila copie solo con l’annuncio della proclamazione dell’Impero da parte di Mussolini nell’edizione del 10 maggio 1936.
Dopo l’uscita del primo film sonoro, nel 1926, anche l’industria cinematografica si riorganizzò e mentre i grandi divi del muto si avviavano sul viale del tramonto, il linguaggio espressivo del cinema in pochi anni passò da quello sovranazionale e muto delle immagini che incantavano il pubblico dagli Stati Uniti sino all’Unione sovietica, a quello dell’audiovisivo, che richiedeva la comprensione dei dialoghi e il doppiaggio nelle varie lingue di ogni Paese.

Il fascismo, in un primo tempo attento solo al controllo della stampa, con l’avvio dell’Istituto Luce si attrezzò per il controllo anche di cinema e cinegiornali, gli antenati degli attuali telegiornali che venivano proiettati prima delle pellicole.

EIAR
L’EIAR era l’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche.

Per la prima volta si poneva così il problema della pronuncia e della dizione, che doveva essere uguale per tutti e in qualche modo uniformata. Il governo intervenne anche su questo aspetto e a Roma – dove c’era la prima stazione radiofonica emittente e dove negli anni Trenta nacque Cinecittà – si formò la prima scuola di dizione. Attraverso il caratteristico stile pomposo e retorico dell’EIAR, l’ente radiofonico di Stato, e la tipica cadenza “eroica” dell’epoca “traboccante di romano orgoglio”, si impose perciò una pronuncia basata non più sulle regole del toscano, ma prevalentemente sul romano, che, in caso di difformità dettava legge, per precise disposizioni del regime (Roma caput mundi). Nel 1938 ci fu anche un programma radiofonico in proposito, La lingua d’Italia, in cui si divulgavano le scelte fonologiche (per esempio non lèttera e velóce, alla toscana come indicato oggi nei dizionari, ma léttera e velòce, alla romana) e si rispondeva alle domande degli ascoltatori sui dubbi di dizione (rubrìca e non rùbrica). Dal successo della trasmissione, condotta da linguisti come Alfredo Panzini e Giulio Bertoni, nacque anche un Prontuario di pronunzia e di ortografia (di Bertoni-Ugolini, Eiar 1939, ristampato fino al 1949).

La più grande battaglia della politica linguistica fascista fu però la campagna contro i forestierismi.

La guerra ai barbarismi

Il protezionismo e la messa al bando di ogni parola straniera cominciarono nel 1923 con una tassa sulle insegne commerciali che, nel caso contenessero esotismi, veniva quadruplicata. Non era una novità, già nel 1874 era stata varata una legge simile, rimasta in vigore fino al 1910, ma l’intento di allora era quello di far cassa, non quello linguistico, come si capisce bene dalla proposta di legge discussa all’epoca in parlamento. L’annuncio dell’onorevole Boselli di raddoppiare l’importo della tassa nel caso di insegne in lingua straniera generò rumori tra i parlamentari. E la giustificazione fu: non per

“intimare guerra a quelle care e splendide lingue straniere nelle quali abbiamo ammirato tante opere letterarie e dalle quali abbiamo anche ricevuti conforti politici e ammaestramenti civili (…) ma perchè [sic] le insegne scritte in lingua straniera rappresentano un commercio più avviato, più esteso e generalmente indicano una vendita di oggetti di lusso (Sussurro a sinistra)”.

[Tratto dalle trascrizioni delle sedute parlamentari del portale storico della Camera dei Deputati, 2° Tornata del 13 maggio 1874, pp.3628-3629].

Il decreto fascista dell’11 febbraio 1293 era invece il segnale di un nuova e precisa svolta politica, che si appoggiava a una precedente diffusa ostilità verso il “barbaro dominio”, non solo linguistico, di matrice ottocentesca e risorgimentale. La propaganda incentrata sull’orgoglio nazionale e la mobilitazione dei glottologi o degli intellettuali del regime in nome dell’italianità e del patriottismo linguistico furono forse più potenti delle leggi, e il dibattito coinvolse molte riviste e molti letterati, con modalità che spesso erano intrise di xenofobia. Già dal 1926 apparvero sulla Nuova Antologia alcuni articoli in difesa della lingua nazionale che esortavano alla “bonifica linguistica”.

Paolo monelli Barbaro dominio
Paolo Monelli, Barbaro dominio. Processo a 500 parole esotiche, Ulrico Hoepli Editore, Milano 1933, ampliato poi in una seconda edizione del 1943, Seicentocinquanta esotismi esaminati, combattuti e banditi dalla lingua e in una terza del 1957.

Nel 1931, la Scena illustrata di Firenze diede vita alla rubrica “Difendiamo la lingua italiana”; nel 1932, il giornale romano La Tribuna bandì un concorso a premi per scegliere il miglior modo di sostituire una cinquantina di termini stranieri con termini autarchici, e Paolo Monelli inaugurò la rubrica intitolata “Una parola al giorno” sul quotidiano torinese la Gazzetta del Popolo, culminata nel libro Barbaro dominio (1933), che si apriva con il motto: “A ognuno puzza questo barbaro dominio” preso da un’espressione di Machiavelli. Nella pubblicazione, che si inseriva nel filone delle simili opere ottocentesche, l’intento era quello di “ripulire il linguaggio dagli esotismi”.
La maggior parte delle parole condannate erano francesismi, semplicemente perché erano molto più diffusi, mentre tra le parole inglesi Monelli ammetteva solo alcuni termini come bar (e barista), perché entrato da più di una generazione, e poi sport, jazz, pic-nic, snob, knock-out, gimcana, sex-appeal e girl ma solo per designare le ballerine del varietà. Combatteva invece film indicando pellicola (ammettendo però filmo e filmi, alla peggio) e respingeva termini come meeting e leader. Tra le parole condannate c’erano thrill invece di brivido, clown per pagliaccio, match per incontro, partita o combattimento a seconda dei contesti, nurse per bambinaia o governante, e ancora football (calcio), stock (provvista, quantità, rimanenza o deposito), budget (bilancio), star (stella del cinema), toast (crostino), club (circolo), detective (investigatore), detector (rilevatore), game (giuoco), set (partita), bookmaker (allibratore), yacht (panfilo).

In questo clima Gabriele D’Annunzio, inventore di vari neologismi e di motti mussoliniani, intorno al 1936 creò la parola tramezzino come alternativa a sandwich, mentre il linguista Bruno Migliorini, fondatore nel 1939 della rivista Lingua nostra, propose con successo regista al posto del francese regisseur e autista per chaffeur e fu in prima linea nella guerra ai forestierismi appoggiando il regime:

“Negli ultimi anni si è reagito a questa invasione con spirito fascista, e così un gran numero d’intrusi sono stati eliminati o almeno assimilati. Così invece di record si dice primato; non si dice più regisseur ma regista. Nelle trattorie e negli alberghi i menus si chiamano liste, e nessuno si vergogna a chiamare bambinaia quella che si chiamava bonne. Il Touring Club italiano ha cambiato il proprio nome in Consociazione turistica italiana. Il Duce ha dato l’esempio, quando, visitando nel 1931 una mostra d’arte che si stava per inaugurare ha chiamato vernice, quella che prima si indicava con il vocabolo francese vernissage”.

[Bruno Migliorini, La lingua nazionale, Le Monnier, Firenze 1941, p. 410].
regista e autista
La comparsa e la diffusione di autista e regista nelle occorrenze di Google libri.

Consultando i giornali dell’epoca, tuttavia, i forestierismi non erano assenti, e questo tipo di epurazioni furono un fenomeno più di facciata in un primo tempo, anche se le cose cambiarono a partire dal 1936.

CONTINUA

Cosa è successo con la proclamazione dell’autarchia?
La politica linguistica fascista ha funzionato?
E cosa è rimasto oggi?

Questi gli argomenti della seconda parte.