Inseguendo gli anglicismi per la Rete capita di imbattersi negli argomenti più disparati. Per esempio: nel 2022 in Italia “Bricoman ha avviato la fase di rebranding (…) con il nuovo marchio Tecnomat”.
La cosa divertente o tragica, a seconda dei punti di vista, è che dietro la denominazione anglicizzata di “Bricoman” c’è un marchio di un’azienda francese che opera anche in Italia, Spagna, Polonia e Brasile, ma non nei Paesi anglofoni.
La denominazione in inglese di marchi e prodotti che non sono affatto inglesi è ormai sempre più frequente, ma a parte questo colpisce soprattutto la terminologia legata al “restyling” aziendale, per usare un itanglese più comune e meno tecnico. Il cambio del nome è anche indicato come un un “processo di remodelling” (ma in inglese si scrive con una “l” sola: “remodeling”), e sul sito dell’azienda è possibile vedere come procede il “renaming”, e cioè il cambio delle insegne, di ogni punto vendita, anzi store.

In questo “restyling” del “look” e del “design“, tra “rebranding”, “renaming” e “remodelling”, il nuovo logotipo mantiene lo stesso carattere, ma per essere tecnici la scelta del “font” – che una volta in tipografia si diceva “fonte” – oggi si chiama “lettering”. Questa terminologia che fa piazza pulita dell’italiano conferisce un’aurea di precisione e di scientificità attraverso i suoni inglesi perché implica l’adozione della lingua e delle categorie concettuali del “marketing”, dove tutto ciò che suona inglese appare più evocativo e più efficiente, e finisce per diventare necessario. L’italiano è invece la lingua dei subalterni e svilisce gli stessi concetti che si possono usare come sinonimie secondarie per il popolino, mentre gli addetti ai lavori ripetono la terminologia che importano direttamente dall’inglese come se fosse la lingua sacra e inviolabile.
Gli anglicismi che terminano in “ing” sono ormai così tanti che travalicano i singoli casi e si trasformano in una regola formativa, per cui se volessi coniare un neologismo in itanglese per indicare tutto ciò potrei forse parlare del fenomeno del “riconcettualing” che suonerebbe abbastanza chiaro, nella sua assurdità.
Naming e renaming
Nella Bibbia (Genesi 2,19), dopo aver creato gli animali Dio li condusse davanti ad Adamo perché desse loro un nome “poiché quel nome che egli avrebbe imposto ad ogni animale vivente quello fosse il suo nome”. Tutto ciò, oggi che l’inglese è diventato la nuova Bibbia, si chiamerebbe “naming”.
L’angloamericano è la lingua modello che dà il nome alle cose, e l’italiano la lingua imitatrice; ma dietro questo fenomeno linguistico c’è qualcosa di ben più profondo, e cioè una cultura-modello che si sta imponendo in ogni ambito – il lavoro, la tecnologia, la scienza, l’informatica, il cinema, la televisione… – che diventa l’unico prototipo da ripetere e imitare in modo acritico, dove i concetti chiave vengono riproposti in inglese perché in questo modo appaiono più evocativi. In questa riconcettualizzazione anglomane non entrano solo i concetti (e gli oggetti) nuovi, ma anche quelli comuni e già esistenti che regrediscono, quando non vengono abbandonati, mentre gli anglicismi sono spacciati per “novità” attraverso un lessico del nuovismo che dà loro una patina di superiorità.
E così le “graphic novel” sono superiori ai banali “fumetti”, il carisma di un “leader” è diverso da quello di una semplice “guida”, un “megastore” è più moderno di un “centro commerciale” o di un “emporio” (parola ormai in declino), uno “spinoff” è più tecnico di una “costola” o di una “derivazione”, il “jobs act” è più innovativo di una “riforma del lavoro”, e così via.
Quando ero ragazzo leggevo i fumetti dell’Uomo ragno, al cinema c’era Guerre stellari, giocavo a Monopoli, collezionavo gli adesivi, e dopo l’estate mi preparavo psicologicamente per il rientro a scuola. I ragazzi di oggi non sanno nemmeno cosa siano gli adesivi, per loro esistono solo gli “stikers”, hanno a che fare con Spiderman, con Star Wars e con il Monopoly – come si legge sulle nuove scatole, mentre quelle tradizionali sono definite in Rete con lo pseudoanglicismo “vintage” – e il primo giorno di scuola è diventato il “back to school” che infesta la Rete, i giornali e le vetrine.

Questi esempi di renaming e “riconcettualing” stanno trasformando la nostra lingua in itanglese, una varietà ibrida di italiano “newstandard” che non è altro che una lingua da colonizzati. È il frutto della combinazione di due fattori che si sovrappongono e danno vita all’attuale tsunami anglicus: dall’esterno c’è la fortissima pressione dell’inglese globale e l’espansione delle multinazionali statunitensi che si porta con sé la propria lingua, e sul fronte interno c’è il nostro complesso di albertosordità che ci fa preferire gli anglicismi a costo di inventarceli. Vogliamo fare come gli americani, per dirla con Renato Carosone, o forse di più, vogliamo “sentirci” ed “essere” americani, per dirla con Alberto Sordi-Nando Mericoni. Ma dietro l’anglicizzazione c’è un meccanismo psicotico di rimozione della realtà – direbbe Freud – che ci fa identificare con gli americani, e andando ancora più a fondo in questo fenomeno sociolinguistico il “renaming” in inglese di sempre più aspetti non coinvolge solo la lingua, le cose e i concetti, ma coinvolge il nostro “io” in un’alienazione del sé di cui il linguaggio è solo la spia dell’inconscio.
L’alienazione del sé
L’anglificazione del sé attraverso il renaming è un processo iniziato nel secondo dopoguerra, trainato dal mito americano indotto dal cinema, dagli esiti della guerra, dal piano Marshall, dalla musica, dalla pubblicità… E così negli anni Sessanta i cantanti hanno cominciato a darsi nomi anglicizzati (Patty Pravo, Little Tony, Bobby Solo, i Pooh), e lo stesso è accaduto per vari attori del cinema (Carlo Pedersoli è diventato Bud Spencer) mentre le pellicole italiane che continuavano l’epopea del far west – come se questa fosse la nostra storia – davano vita agli spaghetti western, e i bambini giocavano agli indiani e cowboy, e non certo a borboni e garibaldini, perché mettevano in scena ciò vedevano al cinema, lo vivevano e interiorizzavano. Con il passare dei decenni questo vezzo ha preso piede in modo sempre più consistente diventando un fenomeno sempre più emulato, sempre più allargato e profondo, che si è ormai trasformato in una mania compulsiva. I miei studenti di “storytelling” scrivono racconti i cui protagonisti hanno nomi inglesi e le automobili sono Cadillac, non Fiat punto, in uno sfondo che più che proiettare la realtà nostrana si ancora alle atmosfere dei film hollywoodiani e le continua, in una sostituzione del mondo reale con quello virtuale del cinema, della televisione, della pubblicità, dei videogiochi (chiamati solo videogame) e della Rete che li ha nutriti, formati e cresciuti. Ma questa alienazione del sé non è un fenomeno confinabile nell’ambiente giovanile o in un fatto generazionale, è la norma soprattutto nelle fasce sociali alte e nella nostra classe dirigente di politici, giornalisti, docenti universitari, tecnici, imprenditori…
E così Alitalia diventa ITA Airways, i canali Rai sono Rai movie, Rai news, Rai Gulp e via dicendo, le pubblicità della Sicilia puntano sul motto See Sicily che implica il rinominare la Trinacria in inglese, mentre non c’è ormai denominazione di un evento o di una mostra che non sia espresso in inglese. Dagli anni Novanta i titoli dei film non vengono tendenzialmente più tradotti e sono esportati in inglese, e lo stesso sta avvenendo per le trasmissioni televisive, che sono quasi esclusivamente formati, chiamati “format”, acquistati dagli Stati Uniti con il loro nome originale, ma anche i format nostrani ricalcano l’inglese, da Report alla rubrica Data Room di Milena Gabanelli; le notizie sono news e le denominazioni di sempre più testate giornalistiche, soprattutto in Rete, si appoggiano a news e a magazine, la cucina diventa Cook, il settore alimentare è quello del food, e persino le nostre eccellenze si esprimono in inglese, per cui l’italian design è strategico per il made in Italy.
In questa cultura coloniale l’anglicizzazione e il renaming sonno più importanti della comprensione, perché si punta a imporre e a educare all’inglese costi quel che costi.

Nella scorsa stagione televisiva ha avuto un grande successo una “candid camera” (“camera nascosta” non viene nemmeno in mente) sul Canale 9 intitolata Deal with it, un’espressione incomprensibile ai più e soprattutto impronunciabile. E quando al termine di ogni gioco il concorrente doveva rivelare alla vittima lo scherzo, nella metà dei casi non riusciva a dire il nome della trasmissione, che storpiava, ricostruiva malamente a orecchio o sostituiva con circonlocuzioni italiane rinunciando all’inglese per evitare figuracce. Questa trasmissione viola tutte le regole del marketing e della comunicazione che prevedono che il naming debba essere orecchiabile e arrivare a tutti, ma l’imposizione della lingua coloniale viene prima persino di queste cose.
Ho scoperto che esiste il verbo “deathnaming”, cioè chiamare qualcuno con un nome che non ha più, usato principalmente nel campo scottante della discussione sul cambio di genere: una volta che Tizio decide di essere donna e vuole essere chiamata Tizia, chiamarlo ancora Tizio è un “deathnaming” e un’offesa gravissima.
Se esistesse ancora l’italiano sarebbe divertente inventare un’eventuale traduzione del verbo, ma temo che verrà usato così com’è. 😛
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Non conoscevo il problema né sapevo che esitesse una parola per indicare questa retronominazione, e mi scuso per l’italianismo. Chissà se dire calcolatore invece di computer è considerato deathmining…
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ah vedi’ “Retronominazione” non mi era venuto in mente, sarebbe un’ottima versione italiana, che ovviamente invece sarà ignorata.
Solamente il computer può farci sapere se considera una retronominazione “computatore”, di questi tempi le offese non sono oggettive: ogni giorno gli interessati ci dicono se sono offesi da qualcosa che il giorno prima non era considerata tale 😀
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solo la cancellazione dell’italiano non è considerata offensiva nella terra dei cachi.
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La trasmissione Deal With It non l’ho mai sentito nominare prima d’ora (per forza, Canale ) non l’ho mai seguito e mai lo seguirò) e comunque questo nome (oltre ad essere brutto) é effettivamente impronunciabile.
Poi a proposito dei nomi dei film e telefilm in inglese aggiungerei alcune curiosità:
-Ci sono alcuni particolari film statunitensi che, quando entrano in Italia, vengono addirittura ribattezzati (da parte dei nostri distributori) con dei nomi pseudo-inglesi; l’esempio più classico è “How To Train Your Dragon”, che in italiano diventa assurdamente “Dragon Trainer”, oppure “Boss Baby” che diventa “Baby Boss;
-Ci sarebbe poi il recente film di Ridley Scott “House of Gucci” che, mentre in Italia ci viene trasmesso col titolo originale non tradotto (nonostante la pellicola sia incentrata sulla famosa azienda Gucci italiana), in Spagna invece viene tradotto con un italianissimo “La Casa Gucci” (guarda che paradosso!!).
-E poi ci sarebbero alcuni film ITALIANI che, assurdamente, vengono battezzati con nomi inglesi o itanglesi (es. “Freak’s Out”, “Reality”, “Comedians”, “Yaya e Lennie – The Walking Liberty”, “Trash – La leggenda della piramide magica”).
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Gli esempi del genere sono uno tsunami. Basta pensare che la serie ucraina che aveva come protagonista Zelensky prima che entrasse in politica, il cui titolo originale era in ucraino, in Italia è stata trasmessa con un titolo in inglese, non si capisce perché: Servant of the People… in Francia naturalmente è stata tradotta in francese (servant du peuple), così come in Spagna (Servidor del pueblo) e negli altri Paesi dove ci si esprime nella propria lingua. In pratica la consuetudine di avere titoli di film in inglese ormai si applica anche ai pochi prodotti che non vengono affatto dagli Stati Uniti. E ci sono esempi di simili titoli anche per film cinesi o giapponesi… siamo alla follia.
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La storia di “Servant of tre People” c’è l’ho presente, perché ne ha parlato pure Giulio Mainardi nelle reti sociali.
Tornando al discorso dei titolo anglofoni vorrei pure discutere su quelli imposti nei confronti delle opere giapponesi, sia manga che anime.
Prendiamo il film “Your Name” di Makoto Shinkai: nell’originale versione giapponese si intitola “Kimi no na wa” (lett. “La tua corda”, riferito al filo rosso dell’amore), mentre il nome “Your Name” è stato invece scelto dai distributori anglofoni “internazionali”; il distributore italiano del film (Dynit) si era limitato (indovina un pó ) a ripetere proprio il titolo anglofono, senza tradurlo. Per quanto riguarda invece i nostri vicini europei, ho notato (con stranezza) che pure in Francia e Germania viene usato il nome “Your Name” ( nella versione tedesca in particolare “Your Name” viene affiancato dal secondo titolo “Gestern, heute und für immer”), mentre in Spagna e Portogallo hanno invece adottato direttamente il titolo originale giapponese “Kimi no na wa”.
Poi ci sarebbe “The Boy and tre Beast” di Mamorou Osoda (titolo originale “Bakemono no ko”)’ che in Francia si chiama “Le Garçon et la Bête”, in Spagnolo “El niño y la bestia”, in tedesco “Der Junge und das Biest”… mentre in Italia viene invece ripetuto il titolo inglese; insomma, in quest’ultimo esempio stavolta siamo noi italioti gli unici a non aver tradotto il titolo.
Per quanto riguarda i manga e le rispettive trasposizioni animate, abbiamo alcune serie famose come “Dragon Ball”, “One Piece” o “Sailor Moon” i cui titoli anglofoni sono giustificati dal fatto che sono stati battezzati così già dagli autori giapponesi stessi, anche se fortunatamente nel paese del Sol levante questi titoli vengono adattati alla fonetica e grammatica nipponica (ovvero “Doragon Boru”, “Wan Pisu” e “Sera Mun”); tuttavia ci sono altri manga famosi in cui il titolo anglofono viene invece scelto non dai giapponesi, bensì dai distributori anglosassoni , come ad esempio “Demon Slayer ” ( che in originale si chiama in realtà “Kimetsu no yaiba”, “Full Metal Alchemist” (in originale “Hagane no renkinjutsushi”) oppure “The Seven Deadly Sins ” (in originale “Nanatsu no taizai”). E indovina un pó, gli odierni editori italioti ripetono proprio il titolo inglese di queste tre opere citate, quindi senza tradurlo.
Insomma, ci mettiamo a far gli “americani” persino quando dobbiamo mostrare le opere d’oriente.
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È piuttosto comune anche con le serie sudcoreane, che spesso ottengono, oltre al titolo originale, uno o persino più titoli in inglese.
Per esempio, Dokkaebi (è il nome di un “folletto” del folclore coreano, che ha liberamente ispirato la storia) è noto in Occidente come Goblin e ha almeno un secondo titolo. Non mi stupirebbe scoprire che il titolo “internazionale” sia scelto direttamente dalla produzione originale per facilitare la diffusione dell’opera, ma su questo non metto la mano sul fuoco 😛
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La Sud Corea è stata occupata dagli Stati Uniti per anni in funzione antisovietica, noi siamo stati occupati culturalmente, a parte il periodo della Seconda guerra mondiale e le basi Nato… ma mi pare un esempio calzante che fa riflettere sull’autonomia dell’Italia.
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Hai sentito come si sono messi a chiamare, all’improvviso, il tetto del prezzo del gas? “Price cap”.
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Sembra il nuovo picco di stereotipia che arriva dall’inglese dell’Europa e che potrebbe esplodere da un giorno all’altro come fake news e lockdown… vedremo se si assesterà o se è passeggero.
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Purtroppo devo specificare una triste cosa relativa alle opere cinematografiche (e di intrattenimento in generale – pardon! entertainment).
A quanto ho capito la Disney ha imposto che i titoli e alcuni moni di personaggi di alcune ‘saghe’ di sua proprietà non vengano adattati, e non ci si può fare nulla. In contesti ufficiali quindi non si può proprio dire “Guerre stellari” ma esclusivamente “Star Wars”; il personaggio di Steve Rogers non può essere chiamato “Capitan America” ma esclusivamente “Captain”, e gli studi di doppiaggio e i traduttori sono costretti a sottostare a questa regola imposta.
Addirittura se non erro in Cina il marchio Star Wars è stato traslitterato anziché tradotto, di modo da avere la stessa pronuncia.
Questo per dire che ovviamente la trovo anch’io una cosa esecrabile, ma purtroppo a volte non è del tutto colpa degli anglomani.
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L’esportazione della lingua delle multinazionali americane è un preciso disegno politico, i titoli dei film e i marchi sono appunto esportati nella loro lingua per volontà e per accordi commerciali previsti dai contratti, e ciò vale anche per le trasmissioni televisive e altre realtà. E’ una nuova forma di colonialismo e di imperialismo linguistico lucidamente pevisto e protetto dalle leggi internazionali. Poi accanto a questa pressione esterna noi facciamo tutto da soli anche dall’interno agevolando questa americanizzazione dall’interno.
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Sai, io apprezzerei un sottotitolo con la traduzione, sarebbe persino istruttivo (anche tradurlo e mettere l’originale come sottotitolo funzionerebbe): quando non conoscevo l’inglese, il titolo True Lies mi faceva uscire matto, non riuscivo a capire cosa volesse dire perché non erano due parole di origine latina o greca XD
La mia salute mentale minata da otto lettere…
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Solo per ammazzare il tempo, oltre al già citato “berretto ai prezzi”, che è una metafora proprio come lo è il nostro “tetto”, segnalo il Tg1 che neanche si scomoda di tradurre la frase finale di un regista di Venezia. Io stesso a malapena ho capito “I did my job” (ho fatto la mia parte, o il mio dovere ecc.) in un menefreghismo che più in generale se ne infischia di far capire qualcosa alla gente. E pensare che la BBC in questi giorni spiega bene anche le fasi di successione del primo ministro…
Spezzo poi una lancia per Bud buonanima e il cinema italiano di una volta (buonanima pure lui). Il fatto dei nomi d’arte inglesi derivava non solo dalla presa sul pubblico italiano, ma dal penetrare il mercato statunitense (e gli altri) con una variante di un genere inventato da loro, girando pure in inglese per vincere l’impermeabilità della cultura dominante. Le “pellicole dell’ovest” italiane non avevano il tono spesso autocelebrativo di quelle “originali” e in questo senso, erano un genere letterario che viveva di vita propria. In fin dei conti, l’ambientazione western era ed è un universo esotico che attira proprio per questo. Se io leggo Montalbano, benché si trovi in Sicilia, a sua volta mi porta in un microcosmo che costituisce un’evasione dalla mia realtà.
Mi scuso per la digressione da cinefilo, che magari non trova tutti d’accordo.
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Ma io non criticavo Bud Spencer e gli spaghetti western, constatavo soloun fenomeno sociale e linguistico che ci h aportati a faregli americani invece cheproseguire il cinema di tradizione itliana. Sui risultati dicamo checi sono cose buone e cose patetiche. Quanto alle mancate traduzioni dei mezzi di informazione itaiana sono una strategia che vuole educare all’inglese e celebrarne la superiorità
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Sul “renaming” si possono fare anche tantissimi esempi di libri, il cui titolo in inglese viene tradotto… in inglese. Tra gli esempi di questi anni, il libro young adult (!!) di Veronica Roth: Chosen Ones, originale, The Ones “tradotto”. Perché evidentemente “I prescelti” non suonava a effetto…
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Grazie, la revisione dei titoli dall’inglese originale a un inglese nostrano in effetti la dice lunga sulla situazione dell’italiano.
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Sui nomi inglesi per i personaggi dei racconti ci sono cascato anche io per i miei primi racconti, effetti sia del cinema sia delle letture.
L’immagine dell’Uomo Ragno e di Monopoli la dice tutta sulla ignobile deriva che sta prendendo l’Italia.
Sui programmi televisivi bisogna calare un velo pietoso – prendiamo anche TG2 Post…
Il problema è che manca la volontà sia da parte dei vari governi, che dovrebbero vietare questo abuso dell’inglese, sia da parte dei cittadini, che a pappagallo ripetono parole inglesi imponendole di fatto nella lingua.
Scrisse Marinetti in un decalogo: “La lingua italiana è la più bella del mondo”. Altri tempi…
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