Lingua, politica e il falso mito dell’evoluzione dell’italiano dal basso

Nel nostro Paese prevale l’idea che le lingue siano processi naturali che si evolvono da soli e non vanno orientate (cfr. “L’anarchismo linguistico italiano e la politica linguistica francese“), un atteggiamento che si ritrova tra i linguisti e più in generale nella nostra intellighenzia, anche politica. Ma questa visione è piuttosto parziale e poco fedele alla storia. Le lingue non sono affatto sistemi ingovernabili dove l’uso fa la norma, sono al contrario processi complessi orientabili e da sempre orientati.


Da un punto di vista letterario, si fa nascere l’italiano con Dante che ha dato vita a un volgare illustre pensato per essere la lingua sovraregionale di tutti proprio con un intento politico e “patriottico”, perché era convinto che senza una lingua comune non sarebbe stata possibile un’unità nazionale.

Ma prima di lui, la poesia nella lingua del sì è nata in Sicilia, alla corte di Federico II; e la scelta di scrivere in volgare e di riprodurre in siciliano gli schemi poetici della lirica provenzale fu una scelta politica. I poeti della scuola siciliana erano i funzionari della sua corte che erano stati scelti appositamente laici e non chierici, e scrissero per la prima volta in volgare siciliano per imporre una lingua diversa da quella della Chiesa, il latino, ma anche dei comuni del Nord dove si poetava soprattutto in provenzale. Il progetto politico federiciano era proprio la rifondazione di un regno feudale moderno, autonomo dalla Chiesa e alternativo all’ascesa dei comuni, che erano i suoi nemici. E la lingua dei primi poeti italiani nasceva da questi intenti.

La fine di Federico II ha rappresentato contemporaneamente la fine della scuola poetica siciliana, esattamente come la crociata contro gli Albigesi e l’annessione della Provenza alla Francia ha imposto la lingua d’oil, cioè il francese, determinando la scomparsa della lingua d’oc.

L’eterna questione della lingua, che ha preceduto di secoli l’unità d’Italia, è stata un lungo processo che non si è realizzato solo perché il toscano delle tre corone fiorentine – Dante, Petrarca Boccaccio – si è imposto sulle altre parlate per motivi di prestigio (continuando in toscano i temi e la scelta linguistica della scuola siciliana), ma anche perché è stato preso come modello prescrittivo da linguisti, grammatici e dall’Accademia della Crusca che lo hanno legittimato, sostenuto e normato. Questo italiano libresco che si scostava dalla lingua viva parlata nei volgari è sopravvissuto per secoli e si è strutturato proprio perché era orientato.

Nel Novecento l’italiano è diventato un patrimonio di tutti perché c’è stata una politica linguistica che lo ha diffuso e istituzionalizzato attraverso la sua introduzione come lingua ufficiale della formazione, dell’amministrazione, del servizio militare, delle leggi, ma anche grazie alla stampa, ai mezzi di informazione e ai prodotti culturali dell’epoca del sonoro, con la nascita dell’industria musicale, della radio, del cinema e della televisione.

L’unità linguistica di un Paese è il risultato di questi interventi e degli altri fattori che educano e uniformano attraverso il sostegno delle istituzioni culturali e politiche. Non è un caso che la nascita degli stati nazionali in Francia o in Spagna abbia portato al consolidarsi del francese e dello spagnolo nazionale secoli prima rispetto all’Italia.

Quello che chiamiamo spagnolo, propriamente è il castigliano, cioè la lingua della Castiglia; e la prima grammatica è stata pubblicata simbolicamente nel 1492, un anno chiave per quel Paese, che non coincide solo con il viaggio di Colombo, ma anche con la Riconquista di Granada e la fine dell’occupazione araba. La tradizione narra che quell’anno Elio Antonio de Nebrija presentò la sua grammatica a Isabella di Castiglia, che gli domandò stupita per quale motivo avrebbe dovuto interessarsi a un libro su una lingua che già conosceva. E la risposta che spiazzò la sovrana fu che la lingua è da sempre stata “compagna di ogni impero”.


Una lingua è portatrice di valori e di cultura, è un elemento che unifica le popolazioni, vive nelle realtà territoriali e nei parlanti con cui è connessa nel modo più intimo, e allo stesso tempo li condiziona e ne viene influenzata e cambiata. Naturalmente l’unità linguistica nazionale avviene spesso a spesa delle lingue minori, e il castigliano si è imposto a scapito del catalano, del basco e delle altre minoranze, così come l’affermazione dell’italiano è avvenuto attraverso la sua supremazia sui dialetti, che in qualche caso sono addirittura scomparsi, perché le lingue possono anche entrare in conflitto tra loro, e quelle minori finiscono con il ritirarsi. Oggi, parlare un dialetto è stato rivalutato come un segno di cultura, come la conoscenza di una seconda lingua, ma prima che l’italiano diventasse di tutti era considerato un segno di ignoranza dell’idioma nazionale che si voleva appunto consolidare. All’inizio del Novecento fu il fascismo a estrometterlo come lingua della scuola in favore l’italiano, in una stigmatizzazione che è durata per vari decenni anche in seguito.

Le lingue nazionali d’Europa hanno tutte questa storia, si sono affermate e imposte proprio perché sorrette da Stati e istituzioni, perché hanno anche una funzione politica, oltre che culturale, sono funzionali alla coesione sociale e sono uno dei principali collanti che formano l’identità dei popoli. E nell’istituzionalizzare quelle nazionali gli Stati dovrebbero allo stesso tempo preservare quelle minori, che altrimenti rischiano di scomparire e di esserne schiacciate.

Gli attuali interventi sull’uso

Davanti al lievitare degli anglicismi, troppo spesso si sente dire che il fenomeno non è regolamentabile, e che la gente in fondo parla come vuole, come se la lingua fosse un processo “democratico” che nasce spontaneo solo dal basso. L’anglicizzazione, al contrario, parte soprattutto dall’alto, dalla lingua dei giornali e della classe dirigente che introduce l’inglese e lo usa senza alternative fino a che la gente non può fare altro che ripetere cashback, lockdown, green pass o jobs act. La lingua non è “fatta dalla gente”, come si vuol far credere, la gente ha per secoli parlato il proprio dialetto, poi è stata indotta a utilizzare l’italiano, e oggi ripete gli anglicismi che passano i mezzi di informazione, le pubblicità, le interfacce informatiche, le amministrazioni, le Poste, le Ferrovie… E intanto si favorisce l’insegnamento in inglese nelle università, si spinge per l’inglese come lingua della Comunità Europea, lo si rende un requisito per l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni, e lo si fa diventare la lingua per presentare i progetti di ricerca italiani, come nel caso dei Prin e dei Fis.

L’inglese diventa di massa perché arriva dagli ambiti della medicina, del lavoro, dello sport… con le stesse dinamiche in cui altri cambiamenti linguistici provengono dalle pressioni esercitate dall’alto. Arriva dall’espansione delle multinazionali, dall’imposizione della loro terminologia, dalla lingua della globalizzazione. In altre parole dalle pressioni politiche e sociali.

Dagli anni Novanta, per esempio, proprio per l’interferenza dell’angloamericano, i traduttori di libri, film e telefilm hanno cominciato a sostituire sistematicamente con “nero” la parola “negro”, che negli Stati Uniti era considerata razzista, anche se in Italia era una parola che storicamente non ha mai avuto questa connotazione: negli anni Sessanta Lola Falana era l’amatissima “Venere negra” e nella canzone “I watussi” Edoardo Vianello cantava gioiosamente degli “altissimi negri” senza alcun intento discriminatorio. Oggi ha dichiarato che non la può cantare più, visto che non è più possibile pronunciare certe espressioni senza la carica di razzismo che hanno nel frattempo assunto in modo orientato dalle fortissime pressioni sociali e mediatiche che sono intervenute sull’uso. Lo stesso avviene attraverso l’ondata di moralismo linguistico che fa parte del “politicamente corretto” e che ha portato negli ultimi decenni a un “revisionismo lessicale” che ha messo al bando espressioni oggi considerate illecite come “mongoloide” sostituito da “Down”, “Terzo mondo” sostituito da “Paesi in via di sviluppo” o “handicappato” che è diventato “diversamente abile” e così via. Sono esempi sotto gli occhi di tutti di come l’evoluzione della lingua sia orientata e orientabile.

Nel caso della femminilizzazione delle cariche lavorative, per fare un altro esempio, le linee guida delle amministrazioni per un linguaggio non sessista hanno portato a coniare e usare femminili un tempo non diffusi come sindaca o ministra, che sono ormai utilizzati dai giornali, inseriti nei vocabolari e sempre più normali.
Il punto è che si usano due pesi e due misure, e la questione, fuori da ogni ipocrisia, è semplicemente politica e sociale: sugli anglicismi non si vuole intervenire – anzi si interviene eccome: introducendoli, divulgandoli e favorendoli – ma su altri aspetti il modo in cui la gente deve parlare si orienta senza alcuna remora. E tra le fila dei più accesi non interventisti nel caso dell’inglese si annoverano curiosamente alcuni dei più fanatici sostenitori del “linguaggio inclusivo” che propongono addirittura una riforma ortografica per introdurre una sorta di desinenza neutra attraverso lo scevà (ə), per cui “tuttə” includerebbe anche il femminile “tutte”, insieme al maschile “tutti” che storicamente lo include.

E allora dietro il mito tutto descrittivista per cui le lingue vanno studiate nella loro evoluzione, si nascondono in realtà approcci prescrittivi molto forti, tutti in favore dell’inglese. Non intervenire per tutelare l’italiano non significa rimanere “neutrali”, significa schierarsi dalla parte del globalese e dell’itanglese che avranno la meglio. Eppure sembra che in Italia nessuno lo comprenda, e al contrario di ciò che accade negli altri Paesi non abbiamo alcuna politica per la tutela del nostro patrimonio linguistico.

23 pensieri su “Lingua, politica e il falso mito dell’evoluzione dell’italiano dal basso

  1. La tutela del nostro patrimonio linguistico manca perché mancano i politici che la attuino. Sono proprio loro fra i primi a usare l’itanglese e sono certe istituzioni che diffondono le oscenità del linguaggio inclusivo.
    A parte un piccolo gruppo di italiani (noi e qualcun altro) che tiene alla propria lingua e alla sua salvaguardia, la maggior parte se ne disinteressa e altri si fanno belli a parlare un falso italiano, quello pieno zeppo di termini inglesi.

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  2. Giorni fa mi è capitato di “dibattere” su Facebook della supposta anglicizzazione della lingua italiana, e a mio sostegno ho pubblicato i dati da lei forniti, i quali a detta di vari anglofili incalliti sarebbero “soggettivi” o “non dati”. Di conseguenza chiedo se si possa condurre un’analisi da parte di un ente terzo e imparziale sul numero effettivo di anglismi presenti nell’Italiano odierno, e se da questa ricerca desumerne il grado di interferenza che l’inglese ha avuto/sta avendo sull’Italiano ? Per ente terzo intendo una commissione ministeriale, la Crusca, l’Enciclopedia Treccani… Ovviemente se tale indagine è stata compiuta sarebbe interessante vedere i rischi di questa anglicizzazione.

    P.s. Non nego assolutamente il lavoro da lei svolto riguardo il numero di anglismi, anzi la ringrazio per l’impresa, tuttavia questi anglomaniaci sfoderano sempre la carta della non veridicità dei dati.

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    • La storia della non veridicità dei dati è una baggianata, anche perché a loro volta questi strani negazionisti non portano dati contrastanti, si limitano a dire: non è vero, non si capisce su quali basi. Nessuno ha falsificato i miei dati che non sono soggettivi ma sono tratti dallo spoglio dei dizionari, sono tra loro coerenti e basati su fonti pubbliche. Dire che i dizionari non rappresentano lo stato della lingua è un po’ bizzarro. Passando dai numeri alla frequenze c’è ben poco da negare anche lì, c’è poco da negare il fenomeno dell’ibridazione, c’è poco da negare la penetrazione dell’inglese nel linguaggio comune e di base, tanto che Tullio De Mauro, il principale osteggiatore dell’allarmismo del Morbus Anglicus di Castellani degli anni ’80, nel 2016 si è dovuto ricredere, ha cambiato idea e ha parlato di tsunami anglicus. L’anglicizzazione delle lingue è un fenomeno mondiale, anche se in Italia è più accentuato che altrove, l’Accademia di Francia ne è preoccupata, ma anche in molti altri Paesi non si può negare. Qual è la tesi di questi signori? Che l’italiano non si è anglicizzato negli ultimi 30 anni? Mi pare una scemenza ridicola priva di riscontri. Vogliamo parlare delle frequenze sui giornali italiani e dei confronti con quelli francesi, spagnoli e tedeschi? Al massimo i negazionisti possono dire che non è grave, opinione diversa dalla mia, ma è una valutazione non misurabile con dati oggettivi, e non c’è bisogno di terze parti per stabilire chi ha ragione. Vogliono sostene che è tutto normale? Che lo sostengano loro, con i dati, visto che l’interferenza del francese, per es. non è paragonabile per numero, per profondità, per velocità, per ibridazione… Vogliamo parlare della tesi che è tutta un’illusione ottica? Che spieghino loro che è tutto normale con argomenti razionali e scientifici, diversi dalla tesi strampalata e indimostrabile per cui tanto la gente parlerebbe italiano mentre i giornali scrivono in itanglese. Visto che i mezzi di informazione sono quelli che hanno contribuito a unificare l’italiano e adesso lo stanno distruggendo. E poi questi stessi personaggi che dicono che la lingua dei giornali non è rappresentativa di come noi parliamo (ma l’italiano è lingua letteraria, storicamente, non parlata) hanno la faccia tosta di sostenere al contrario che i francesi parlerebbero con gli anglicismi al contrario dei giornali dove ce ne sono pochi… E vogliamo parlare della pietosa tiritera per cui le lingue evolvono come si sono sempre evolute ed è normale? Vogliamo discutere di COME la lingua si sta evolvendo, in modo serio, invece di nascondersi dietro queste massime lapalissiane? Vogliamo quantificare i neologismi del nuovo Millennio e vedere che cosa rimane dell’italiano se si toglie l’inglese?
      Io sono pronto al confronto con gli studiosi negazionisti, in modo pubblico. Che mi smentiscano se ne sono capaci, invece di limitarsi e negare e piccarsi pure se li chiamo negazionisti.

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  3. Concordo su tutti i punti da lei elencati. La proposta di un’indagine sugli anglismi nell’italiano da parte di un ente neutro era solo per mostrare loro lo stato dei fatti, e poi da qui trarre tutti i vantaggi e gli svantaggi dell’anglicizzazione, di modo poi da presentarli alle istituzioni, le quali sono le prime ad abusare di anglismi futili. Sono del parere che bisogna rendere partecipe la politica del risultato verso cui stiamo andando seguendo il percorso dell’anglicizzazione, ma dubito che i politici vogliano capire. Un confronto con questi negazionisti è auspicabile, tuttavia non so come si possa organizzare. Comunque tengo a precisare che la mia proposta fosse solo un idea per far comprendere la portate del fenomeno alle persone, e del fatto che non si tratti più di prestito, ma di sostituzione.

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  4. Sono completamente d’accordo con Zoppaz per quanto riguarda il termine “negro” che in italiano non ha mai posseduto connotazioni razzistiche.Anch’io ho avuto varie discussioni con alcune persone su questo argomento,ma ormai ,se si insiste nel sostenere questa tesi,si passa per razzisti.Vorrei qui ricordare anche”Angeli negri”,altro famoso brano , cantato da Fausto Leali,che pure non ha alcuna connotazione in tal senso.Io credo che il razzismo non stia nelle parole in quanto tali,ma solo nella mente di chi le pronuncia con intenti offensivi.Non solo il sonno della ragione,ma anche il “politicamente corretto” talora genera mostri.

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    • C’è poco da essere considerati razzisti a ricostruire la storia, tra l’altro ricostruita bene anche da Marazzini o da Coletti sul sito dellla Crusca. L’odierno senso dispregiativo di “negro” nasce dall’accostamento con “nigger” che negli Usa era usato in senso offensivo ed è stato contrastato dal basso, ma in italia le cose erano ben diverse. Personalmente ho vissuto questa transizione linguistica con stupore e ho modificato il modo con cui parlavo normalmente (io ma tutta la società) perché a un certo punto è arrivata l’ondata moralizzatrice che poi si è affermata nell’uso. Tra le alternative ipocrite che circolavano per non essere offensivi, oggi per fortuna in via di abbandono, c’era “uomo di colore”… ma di quale colore si parla? Quasi come se dire “nero” fosse un tabù… Un tempo si usava anche “moro”, basta pensare ai mori della bandiera sarda, o al moro di venezia, una parola che poi è caduta in disuso. Curiosamene negli Usa si parla di afroamericani, ma da noi è poco in uso afroitaliani o afroeuropei, forse per una ben diversa storia dei nostri paesi che non hanno conosciuto la tratta degli schiavi dall’Africa. Il succo, comunque, è che non esistono simili pressioni sociali per stigmatizzare l’abuso dell’inglese e la discriminazione dell’italiano. E sostenere che la lingua si evolve da sola e non si può né deve intervenire è una bufala! Tr l’altro, a proposito degli interventi dall’alto, ultimamente sui siti dedicati al linguaggio politicamente corretto si va predicando che non si dovrebbe dire “cieco” ma non vedente… Ora i ciechi, e l’unione dei ciechi, non si sentono affatto discriminati dalla parola, ed evitarla è un’ipocrisia che arriva da chi cieco non è e forse non conosce nemmeno l’ambiente. Ma non mi stupirei se fra un ventennio diventasse una delle nuove parole tabù, perchè dai e dai è attraverso la pressione sociale e mediatica che si plasma la lingua. E questa pressione mediatica è la stessa che condanna queste cose ma allo stesso tempo introduce, legittima ed educa all’anglicizzazione.

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    • Nelle società angloamericane si sta davvero arrivando a una censura non solo delle parole ma anche della rappresentazione dei tipi umani. Stamattina a BBC Breakfast si ponevano la domanda se Emma Thompson, truccata da donna cattiva grassa in Matilda, potesse offendere chi è grasso. Non ho sentito poi cosa hanno detto ma siamo davvero alla dittatura (prossima ventura) in cui non si può scherzare più.

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      • Il fondamentalismo è un atteggiamento ricorrente in parte della società statunitense. Il problema è la nostra emulazione, invece di una presa di distanza critica. Penso a fenomeni come il cosiddetto “creazionismo scientifico” da insegnare nelle scuole come fosse un’alternativa al darwinismo che ha preso piede negli anni ’90 e che poi l’allora ministro della scuola Letizia Moratti avrebbe voluto emulare in iItalia… Oggi questi fondamentalismi tipici della parte più conservatrice si ritrovano anche tra i progressisti che si spingono al revisionismo più becero persino dei classici della letteratura. Questa atteggiamento, da combattere, si sta allargando anche da noi, e così Paolo Nori ha rischiato di essere censurato dall’università Bicocca di Milano perché doveva tenere una conferenza su Dostojevski in epoca di guerra all’Ucraina…

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  5. In“diciamolo in italiano”si è parlato spesso di linguaggio inclusivo ,di scevà e delle accuse di bieco maschilismo che vengono rivolte alla nostra lingua.Mi pare strano che finora nessuno di questi accusatori abbia puntato il dito contro un altro aspetto “maschilista”dell’italiano;mi riferisco al fatto che talora gli accrescitivi di sostantivi femminili assumano forma maschile: “febbre”diviene “febbrone”,”porta”diviene”portone”,”palla”diviene “pallone” e persino una donna corpulenta diviene un “donnone”.Dobbiamo aspettarci prossimamente qualche intervento in tal senso da parte di queste persone?Che cosa ne pensa Zoppaz?

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    • Sono abbastanza indifferente alla questione, perché convinto sostenitore del fatto che non c’è alcuna corrispondenza tra il genere grammaticale e il genere sessuale a cui si riferisce. Il passaggio da cena a cenone è uno slittamento di genere che si riferisce a qualcosa di neutro, quando il referente è una “persona” (ecco un caso di femminile inclusivo) trovo inutile disquisire sul presunto sessismo di donnino (espressione in uso spiritoso della “comica” Litizzetto), di “puttanone”, o sulla femminilizazione del clitoride (quando la minchia è femminile). Fuori da queste provocazioni, lascio le riflessioni sull’eticità del sesso degli angeli agli interventisti sull’uso che però negano che si debba intervenire nel caso degli anglicismi. Io mi occupo di quest’ultima questione, accetto di adeguarmi al risultato delle crociate linguistiche che prevedono l’uso di ministra o di nero, perché non voglio discriminare nessuno, ma mi piacerebbe vedere anche interventi a tutela dell’italiano di fronte alla sua anglicizzazione e discriminazione.

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      • Sempre più mitico, Antonio! Anch’io sono arcistufa della sovrapposizione del genere sessuale con quello grammaticale. Inoltre non ho bisogno, almeno in tante occasioni, di sottolineare che sono donna e non uomo (femmina per me invece è un’offesa), quando scrivo un verbale mi firmo “il segretario”, così come non mi interessa comunicare neppure se sono nella quarantina, nella trentina o cinquantina (di età), cavoli miei.
        Mi interessa invece che le donne non vengano nei fatti discriminate, prevaricate o subiscano ingiustizie in quanto donne, voglio che una ragazza venga incoraggiata a studiare matematica (e un ragazzo lingue straniere), magari senza ricevere per forza da bimba lei una bambola e lui da bimbo trenini o soldatini.

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        • Mi fa piacere che queste mie stesse convinzioni vengano anche dal mondo donnile (non uso feminile perché non vuoi essere definita femmina 🙂 ) e credo che le battaglie per il riconoscimento dei diritti passino per ben altro che gli aspetti linguistici, che trovo ideologizzati ipocriticamente. Preferisco un mondo dove la parità dei salari e le opportunità delle donne declinate nelle professioni al maschile siano uguali a quelle degli uomini, a una femminilizzazione di superfiie che appare un contentino privo di cambiamenti concreti.

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  6. L’italiano è rimasto vittima della stessa logica con cui si è imposto. In passato dicevano “non imparare il dialetto impara l’italiano perché parli con più persone, perché trovi un lavoro perche ti eleva socialmente” ora in un mondo globale da 8 miliardi di persone l’italiano è diventato un inutile dialetto esattamente come le lingue che cerca di cancellare. Sinceramente meglio così, che sparisca e faccia la stessa fine delle lingue locali.

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    • Non sono d’accordo. A mio avviso il suo commento riflette proprio la mentalità italiana autodistuttiva, di bassa autostima, che poi permette l’imposizione dell’itanglese e di altre becere riforme (che non cito perché esulano dall’argomento di questo spazio). Il castigliano (spagnolo) ha dominato su basco, catalano ecc. ma non si è certo estinto, anzi, è vivo e vegeto. Certo può contare su un numero di parlanti elevatissimo, ma anche su un’Accademia che raccomanda come scrivere e parlare. Anche se fossimo 100 miliardi di persone, l’importanza dell’italiano deriva dalla nostra storia, cultura, stile di vita, cucina, che tutto il mondo ci copia e ci invidia (e io di stranieri ammirati al sentire le parole “italiano” e “Italia” ne ho conosciuti tanti).

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