Rampini e la patente dell’inglese globale

Di Antonio Zoppetti

Mi sono arrivate varie segnalazioni indignate a proposito di un intervento sul Corriere della scorsa settimana di Federico Rampini intitolato “Gli italiani non sanno l’inglese”.

L’autore si mostra scandalizzato e affranto di fronte a questo fatto. Ma la cosa più imbarazzante del suo resoconto è la modalità con cui sembra scoprire l’acqua calda.


La rivelazione gli è arrivata durante un convegno a Gorizia, mentre uno storico israeliano a quanto pare appoggiava le ragioni dell’attuale sterminio dei palestinesi suscitando le reazioni di protesta e i fischi degli spettatori. A colpire Rampini non sono state le tesi del suo interlocutore – che in fondo è un “progressista” che parla così solo per lo choc del 7 ottobre, chiosa il giornalista – bensì un piccolo dettaglio marginale che fa ben capire cosa si agita nella testa di simili prezzemolini televisivi che si presentano come progressisti ma sono invece l’espressione delle idee più reazionarie della nostra intellighenzia. Questo particolare a margine è che le grida della folla imbestialita non arrivavano in diretta, immediatamente dopo le parole che lo storico pronunciava in lingua inglese, ma in differita, cioè solo dopo la traduzione.

Questo è ciò che ha colpito Rampini, che si è reso conto improvvisamente che il vero problema è che gli italiani non capiscono l’inglese! Un grave problema davanti al quale gli oltre 30.000 morti palestinesi (senza contare i feriti o i mutilati che spesso sono donne e bambini) passano evidentemente in secondo piano (almeno nella sua scatola cranica).

Il giornalista sembra ignorare i dati Istat che ci dicono che in Italia la conoscenza dell’inglese appartiene a una minoranza della popolazione. Evidentemente non conosce nemmeno i rapporti come quelli di Eurostat che mostrano che anche in Europa l’inglese non è affatto compreso dalla maggioranza dei cittadini. E non è neppure a conoscenza delle statistiche di Ethnologue che spiegano che nel mondo l’inglese è conosciuto da meno del 20% dell’umanità (cfr. “Dal bilinguismo territoriale a quello virtuale della globalizzazione“). La sua consapevolezza arriva più empiricamente davanti a un bagno di folla: a Gorizia, “una delle città più ricche, moderne, evolute d’Italia, l’inglese ancora lo parlano e lo capiscono in pochi.” Eppure gli astanti erano gente colta – precisa stupito Rampini – tutta gente che legge persino i libri di storia!

La parola “ancora” dice tutto: l’inglese – cioè la lingua naturale dei popoli dominanti che non studiano altre lingue perché impongono la propria a tutti gli altri – prima o poi trionferà, e finalmente tutta l’umanità si inchinerà alla sua dittatura. È solo questione di tempo.

Questo è il nuovo colonialismo del Duemila, il nuovo imperialismo culturale difeso da chi ha come obiettivo l’imposizione dell’inglese dall’alto con cui educare il mondo intero. I Paesi già anglicizzati sono presentati come un modello aureo e avanzato, gli altri sono considerati “Terzo mondo”, un’espressione politicamente scorretta che si tende ormai a sostituire con “Paesi in via di sviluppo”. E a quale sviluppo li si deve condurre? A quello del modello occidentale, ovviamente, che viene fatto coincidere con quello statunitense, ci mancherebbe altro.

Eppure l’Italia, pur essendo di fatto una provincia americana dal punto di vista sociale, politico, militare, economico e culturale è “ancora” arretrata sul piano linguistico. Ancora una volta, per Rampini, le fonti sulla conoscenza dell’inglese non sono le statistiche ma altre che ricordano i discorsi da bar: “Mi è stato detto che questa cosa cambia improvvisamente se uno, a poche centinaia di metri dalla sede di quel convegno, si reca Nova Gorica. È la città gemella, l’altra metà di Gorizia, in Slovenia, dove l’inglese lo sanno tutti.” E a questo punto sbotta: possibile che una nazione – che probabilmente considera sottosviluppata rispetto a noi sotto altri punti di vista – sia più avanti di noi nella conoscenza della lingua dei padroni?
Al giornalista non viene neppure in mente che forse le persone di cultura della città conoscono il tedesco, o il francese, o altre lingue. Per lui il plurilinguismo non è un valore, e le altre lingue sono fuori dai parametri della neocultura che ha in mente, non contano niente. Nella sua testa c’è solo l’opzione inglese, la Novalingua da imporre orwellianamente a tutte le altre inutili e dannose Veterolingue.

L’apologia della dittatura dell’inglese è la premessa e l’assioma di un disegno strisciante che viene fatto passare in modo manipolatorio:

“Qui abbiamo un problema, guardate: perché non è possibile che in Slovenia un paese che è entrato nell’Unione europea molto più tardi, Paese più povero, piccolo tutti sappiano l’inglese e dall’altra parte del confine no.”

In quest’ultima riflessione da temino liceale, la Slovenia è un Paese “inferiore” (piccolo e povero), entrato da poco nell’Ue (e qui si lascia credere che l’inglese sia la lingua dell’Unione Europea, il solito falso). I modelli virtuosi dell’Europa sono i Paesi già colonizzati linguisticamente, quelli “dalla Danimarca alla Svezia, dove le grandi università insegnano ormai corsi solo in lingua inglese e i bambini sono abituati a vedere i film americani in lingua originale quando hanno cinque anni.”

Finalmente il consueto disegno linguicista emerge e prende forma: consiste nel cancellare le lingue nazionali dall’università (meglio omettere che i Paesi del Nordeuropa stanno facendo un passo indietro nell’anglificazione dell’università perché si sono resi conto che i danni sono maggiori dei vantaggi). E per meglio imporre la dittatura dell’inglese non resta che colonizzare i cittadini sin dall’infanzia, attraverso la tv e i film in lingua originale americana. L’apoteosi di questa visione colonialista arriva nel finale: oggi come oggi, “sapere l’inglese è come avere la patente di guida.”

Questo esempio non è innocente: in gioco c’è proprio la “patente”.

Non basta che il globalese sia di fatto la lingua dominante, diventata imprescindibile in alcuni settori come il mondo del lavoro o della scienza, per cui chi non lo usa è penalizzato ed emarginato. L’obiettivo è l’istituzionalizzazione del globish, che si vuole ufficializzare come la lingua dell’Europa. L’inglese è venduto come il requisito della cultura; a che vale leggere i libri di storia se non si sa l’inglese? E allora non resta che imporlo in tutti i modi, attraverso il potere morbido e quello duro. La prima strategia si basa per esempio sulla trasmissione dei film in inglese, oppure avviene attraverso cavalli di Troia come il progetto Erasmus, nato sulla carta per la diffusione degli scambi linguistici tra gli studenti europei, ma trasformato di fatto nella diffusione del solo inglese, la lingua unica che prende il posto di tutte le altre e le cancella. La stessa prassi che nell’Ue – che sulla carta nasce all’insegna del plurilinguismo – porta a di fatto a usare l’inglese come la sola lingua di lavoro o quasi. E grazie alla von der Leyen è sempre più usato anche nella comunicazione istituzionale rivolta agli europei, un’altra prassi illegittima, come quella dei documenti europei concepiti in alcuni Paesi come l’italia in modo bilingue.

Accanto a queste cose c’è poi la politica linguistica europea a fare in modo che l’inglese sia ufficializzato: è stato introdotto nelle scuole sin dai primi anni dell’infanzia in modo da creare le nuove generazioni bilingui, un progetto che ci costa cifre astronomiche che vengono in questo modo convogliate verso i Paesi naturalmente anglofoni che sono fuori dall’Europa e che non hanno questi costi. Da qui nascono poi i provvedimenti come la riforma Madia che ha cancellato il requisito di “conoscere una seconda lingua” nei concorsi nella pubblica amministrazione per sostituirlo con l’obbligo di “conoscere l’inglese”.

Per quelli come Rampini tutto ciò è rimosso, il loro fine è giustificare la dittatura dell’inglese, costi quel che costi. E un altro esempio riportato dal giornalista la dice lunga sul suo razzismo linguistico e sull’intolleranza e il fondamentalismo con cui guarda chi non parla la lingua dei padroni, quando cita un episodio avvenuto in un cinema ligure dove proiettavano il film Barbie. Per errore l’operatore ha avviato la pellicola in lingua originale invece che nella versione doppiata, e nel pubblico di ragazzine e mamme si è scatenato un putiferio! Quegli ottentotti che non conoscevano l’inglese, secondo Rampini, avrebbero forse dovuto avere un orgasmo davanti alla lingua superiore, invece di pretendere che si parlasse loro nella propria (come previsto all’acquisto del biglietto).

Mentre per Rampini il problema degli italiani è che non sanno l’inglese, per gli italiani il problema sono quelli come Rampini, che non hanno alcun rispetto per la realtà e per la gente, perché hanno in testa solo la propria visione discriminante che vogliono imporre a tutti. L’idea della cultura rampiniana ricorda quella coloniale del generale Gneo Agricola lodato da Tacito perché aveva saputo romanizzare – anche linguisticamente – i Bretoni che aveva assoggettato: i popoli sottomessi chiamavano la romanizzazione “cultura” ma era parte del loro asservimento. Mentre Rampini dichiara di sostenere le sue tesi: “Non perché io abito in America”, la realtà è che quelli come lui si sono asserviti al nuovo impero e agiscono come i collaborazionisti della dittatura dell’inglese, la minoranza oligarchica che vuole prevaricare, sottomettere ed educare tutti gli altri.

Comunque la si pensi, voglio rimarcare un ultimo particolare. Le reazioni alle tesi di questo articolo si sono diffuse in Rete (per esempio sul sito Italofonia.info), ma sui mezzi di informazione – le nuove voci dei padroni dove regna il pensiero unico – tutto tace. Come se queste riflessioni fossero le uniche possibili. E questo è molto grave. Se questa anglomania è la cornice culturale e il presupposto della nuova intellighenzia, poi non c’è da stupirsi dei sempre più numerosi anglicismi che penetrano sui giornali e in ogni settore. Sono solo l’effetto collaterale sul piano interno della dittatura dell’inglese che si vuole legittimare su quello internazionale.

Intanto, alle elezione europee l’astensionismo ha raggiunto livelli mai visti, e mentre alcuni partiti si gongolano dei risultati e gli altri si leccano le ferite, il dato più rilevante mi pare che per la prima volta la maggioranza degli italiani non è andata a votare (se fosse stato un referendum non avrebbe raggiunto il quorum), e se si includono le astensioni questo risultato è ancora più pesante. La nostra classe dirigente, e gli intellettuali alla Rampini, sono una minoranza e un’oligarchia che non rappresenta più il Paese. E forse sono loro che dovrebbero riflettere sulla propria “patente” di giornalisti o politici, non gli italiani.

24 pensieri su “Rampini e la patente dell’inglese globale

  1. Io sto entrando in un ordine di idee, purtroppo non sostenuto da nessuno se non da pochi mohicani, che l’Europa, se realmente volesse sostenere i principi sbandierati sulla carta, quali, ad esempio il multilinguismo, dovrebbe:

    • da un lato incoraggiare con concrete politiche di sostegno scolastico, la diffusione dell’Esperanto, una lingua per la quale al Parlamento Europeo ogni tanto si sveglia qualcuno proponendola come lingua degli atti ufficiali dell’Unione (p.es. l’on. Ljudmila Novak, deputata slovena al Parlamento Europeo: lo propose addirittura nel 2009), senza tuttavia trovare un numero adeguato di sostenitori; è inutile dirlo: è la lingua sovrannazionale assolutamente neutra che non fa danno alcuno alle lingue nazionali, siano quest’ultime di molti o pochi parlanti;
    • dall’altro dovrebbe incoraggiare lo studio e la conoscenza della lingua dei vicini. A Gorizia, così come nelle province di Trieste e di Udine, avrebbe più senso che nelle scuole fosse resa possibile (o, oso dire, addirittura obbligatoria) la conoscenza dello sloveno e del croato. Nella zona dove vivo vi sono comunità oramai sempre più ridotte che parlano una sorta di albanese medievale (detto arbëreshe) e altre comunità che parlano il griko, una sorta di greco anch’esso di probabile origine medievale. Probabilmente nelle forme locali queste lingue sono destinate a spegnersi, nonostante interventi oramai tardivi di mantenerle in vita con velleitari programmi locali. Tuttavia, non mi spiacerebbe se a scuola fosse possibile (e fosse incoraggiato) l’apprendimento dell’albanese e del greco moderno, magari con un programma innanzitutto idealizzato e incoraggiato dalla Comunità Europea per i luoghi di confine e poi puntualmente concordato e affinato nello specifico dai governi degli Stati confinanti: nel caso del Salento, per esempio, tentando a livello politico (nazionale e/o regionale) di concordare coi governi dirimpettai, che anche dall’altra parte del mare sia promosso l’apprendimento dell’Italiano.

    Se è vero, infatti, che i confini di Stato devono avere, inevitabilmente, una ben fissata demarcazione, quante guerre si sarebbero evitate se si fossero mantenuti deliberatamente vaghi i confini culturali e linguistici nelle zone di confine, anziché operare quelle violente imposizione che quasi sempre sono conseguite ai cambiamenti territoriali? Però, sto forse vagheggiando e andando fuori tema…

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    • Sono d’accordo che la soluzione dell’esperanto sia quella più neutra, etica, pacifica e, aggiungo, la più vantaggiosa economicamente, sia nella sua adozione nell’Ue come lingua di lavoro, sia per chi la apprende (e impiega come minimo un terzo del tempo che spenderebbe per impararare una qualsiasi lingua naturale).
      Sono perciò favorevolissimo a una promozione e diffusione dell’esperanto, che invece è stato da sempre soprattuo osteggiato, addirittura perseguitato in alcuni casi, e ridicolizzato con stereotipi falsi.
      Però bisogna vedere come promuoverlo; la sua adozione non può certo avvenire da un giorno all’altro con qualche ipotetico decreto: intanto è parlato da circa 2 milioni di persone, nel mondo, dunque in pratica è una lingua sconosciuta ai più, non esisterebbero nemmeno gli insegnanti se lo si volesse introdurre nelle scuole. Insomma, realisticamente, bisognerebbe farlo conoscere e diffonderlo — spezzando la mistificazione e la marginalizzazione storiche — per vedere se prende piede con la naturale gradualità che queste cose richiedono. La via passa per l’accettazione culturale e sono convinto che chi si avvicina a questo sistema ne rimane affascinato. Naturalmente promuovere l’esperanto non significa cancellare l’apprendimento delle lingue naturali (quindi che non hanno solo un fine meramente comunicativo, ma anche culutrale) nelle scuole, ma questo dovrebbe essere fatto non con l’obbligo del solo inglese, ma all’interno di un modello formativo plurilinguista e pluralista. Se poi uno vuole scegliere di studiare l’inglese ha tutto il diritto di farlo, e di sicuro sarà la maggioranza, ma chi fa altre scelte non deve essere discriminato ed escluso dalla “cultura” dominante.
      L’incentivare l’apprendimento delle lingue limitrofe, ma anche gli approcci che puntano alla reciproca comprensione delle lingue neolatine, è un’altra cosa importantissima, proprio se inserita in un’offerta formativa plurale, invece che basata sulla dittatura dell’inglese.
      Passando dalle riflessioni etiche e teoriche — dunque politiche — alla prassi, non si vede niente del genere nemmeno in abbozzo, purtroppo in campo ci son solo le posizioni coloniali dominanti che Rampini rappresenta benissimo. Perché dietro questo progetto ci sono interessi economici (per gli anglofoni) e culturali incalcolabili, non c’è alcun progetto politico etico.

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    • Sono perfettamente d’accordo sull’idea che nelle zone prossime ai confini si dovrebbe diffondere la conoscenza della lingua del Paese limitrofo, che in alcuni casi (Piemonte e specialmente Valle d’Aosta) è stata anche lingua di cultura per lungo tempo ben radicata anche di qua dal confine.

      Aggiungo poi che, mentre i confini di Stato oggi sono per lo più anche confini di lingue ufficiali, in molti casi non sono mai stati confini a livello di dialetti tradizionali: pensiamo alle parlate francoprovenzali e alpinoprovenzali lungo il confine italo-francese, alle parlate alemanniche da una parte (Alsazia) e dall’altra (Baden) del Reno, al basco e al catalano attorno a un buon tratto della frontiera franco-spagnola ecc.: sino a qualche decennio fa molte popolazioni frontaliere potevano attraversare i confini parlando la propria lingua casereccia venendo capiti e capendo senza troppa difficoltà. Ma oggi siamo linguisticamente “progrediti”, i dialetti e le lingue regionali sono morti o moribondi e le frontiere linguisticamente “aperte” sono divenute “chiuse”.

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  2. Ho seguito quell’incontro (nell’ambito del festival di èStoria) solo nella parte finale, soprattutto per sentire Travaglio e Benny Morris (con il quale Rampini non può tenere il confronto e che comunque non “appoggiava le ragioni dell’attuale sterminio dei palestinesi”), riuscendo ad evitare quasi del tutto quest’ultimo. Ricordo perfettamente chi era l’interprete in quell’occasione, al quale il moderatore ha al termine addirittura fatto i complimenti, assolutamente meritati, è sempre un vero piacere ascoltarlo – infatti, fortunatamente, è ancora buona norma organizzare un lavoro di interpretariato negli incontri a cui sono invitati anche stranieri: di questo si meraviglia Rampini? Che potrebbe comunque astenersi da questa pietosa captatio benevolentiae: Gorizia non è né ricca (2/3 dei negozi hanno chiuso negli ultimi anni), né moderna, né fra le più evolute di Italia (di cui fa parte solo da poco più di un secolo), piuttosto si trova in piena decadenza sia culturale (si salva giusto éStoria) che economica da diversi decenni e il prossimo anno probabilmente farà una serie di brutte figure come “capitale europea della cultura” (insieme a Nova Gorica). Come fa a sapere chi fossero gli spettatori e quanto siano colti??  A parte che mi sembra assurdo dedurre da quanto qui riportato che i goriziani non sappiano l’inglese, in quel caso ne sarei assolutamente fiera, personalmente potrei confermare la sua impressione: da goriziana, io so perfettamente il tedesco, bene l’esperanto, mediamente svedese e spagnolo, e il mio curriculum vitae, dall’asilo all’università, è completamente privo dell’inglese (è un mio grande vanto), una volta era possibile, ora non più (in realtà poi si è così tanto bombardati dall’inglese che si finisce per impararlo comunque, almeno fino a un certo livello). Non ha aggiunto che la stragrande maggioranza degli sloveni oltre confine parla italiano, mentre sono pochi gli italiani che parlano sloveno (il mio, purtroppo, è miserello), oltre ad essere decisamente più furbi, in genere le popolazioni slave sono molto più portate per le lingue straniere rispetto a quelle neolatine. Forse i suoi ospiti non gliel’hanno raccontato, fra le varie chiacchiere da bar.

         Ma anche a prescindere da queste divagazioni e puntigliosità locali e personali, la domanda resta appunto: perché diavolo tutti dovrebbero spendere badilate di soldi e un mucchio di tempo a imparare inglese (lo studio iniziale di una qualsiasi lingua straniera si può anche fare a casa, ma per ottenerne una vera conoscenza tocca nolens volens andare sul posto, e comunque, rispetto ad un madrelingua, rimarrà sempre una sensazione di “inferiorità” psicologica), mentre inglesi e americani quello stesso capitale di tempo e denaro lo usano per studiare altro e avvantaggiarsi su tanti piani? Sono una “razza” superiore? Chiaro, il messaggio subliminale che passa (anche a loro!) quando si sottolinea l’imprescindibilità della conoscenza dell’inglese è proprio questo.

        Se volevi stanarmi, Antonio, ci sei riuscito…

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    • Credo che i luoghi comuni del giornalista in questione siano la sola essenza del pezzo, incluse le deduzioni linguistiche campate per aria, l’enfasi nel dipingere una città ricca e moderna solo per poter giocare con il contrasto della non conoscenza dell’inglese e via dicendo. Rampini ha una visione coloniale da imporre, per questo ho usato la parola “collaborazionista” (presa da una citazione di Michel Serres). La badilata di soldi per l’apprendimento dell’inglese di cui parli sono soldi che finiscono direttamente nelle tasche di chi ha tutto l’interesse a imporre agli altri la propria lingua naturale e contemporaneamente usare i soldi che risparmia nel non fare altrettanto per la ricerca, la salute o le armi. È grave che gli intellettuali non denuncino queste cose e che il loro ruolo storico di diffondere il pensiero critico si riduca oggi a essere la voce del padrone. È grave non vedere la discriminazione e il razzismo dietro queste prese di posizione.

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  3. Ottimo lavoro Antonio, così si fa!

    Di questi “guri” dell’anglomania ne abbiamo fin troppi.

    Comunque, per cambiare argomento, vorrei segnalarti questo interessante sito chiamato “Una parola al giorno”, nel caso vorresti dare un’occhiata o iscriverti: https://unaparolaalgiorno.it/

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    • Meglio prendere quel sito (che Antonio conosce già) con le molle, Davide: a parte alcuni veri esperti con solide basi (es. Salvatore Congiu) che intervengono su parole particolari, le altre, a cura dei fondatori, sono solo autocelebrazioni più o meno personali, volentieri anglofile, spacciate per fatti scientifici.

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      • Concordo con il giudizio di Gretel, anche se mi pare che con il tempo il sito sia migliorato (soprattutto grazie all’entrata di nuovi collaboratori) rispetto all’iniziale approccio dei fondatori, diciamo così, piuttosto discutibile. Sull’approccio davanti agli anglicismi la dice lunga la filosofia dichiarata nel “Manifesto”, intrisa dei soliti luoghi comuni che confondono forestierismi e anglicismi (senza cogliere le abissali differenze numeriche e il loro impatto), in un parallelismo tra l’epoca del francese e dell’inglese stereotipato e superficiale che di nuovo confonde parole crude e adattate. E anche la filosofia di schierararsi contro un imprecisato “cattivo gusto” nella scelta delle parole è abbastanza ridicola; dietro le loro scelte si respira la stessa aria dei passati strali dei puristi che vengono condannati. Pare anacronistico e poco oggettivo prendersela con gli usi dei vocaboli “esausti e sciocchini”, almeno quanto affermare genericamente che i “forestierismi sono una ricchezza”… una premessa aprioristica che lascia il tempo che trova e che non considera che in altri casi possono rappresentare un depauperamento delle lingue locali. Questi giudizi qualitativi, più che quantitativi, mi paiono piuttosto beceri.
        Cito dal loro Manifesto:

        “I forestierismi sono una ricchezza. Non ci sentirete tuonare contro l’inglese, ma ci vedrete schierati parola per parola contro il cattivo gusto, la replica acritica di parole percepite e non capite, e gli usi esausti o sciocchini. Nel diciassettesimo secolo ci si scagliava contro… squallidi gallicismi quali baule, regalo, biglietto o gabinetto: oggi chi criticherebbe l’uso di queste parole? Il problema dell’inglese è che non è conosciuto; e l’intrusione di una lingua ignota in una lingua nota è spesso goffa e inopportuna.”

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  4. A proposito di elezioni europee: non sarà sfuggito come le “famiglie” partitiche europee si siano più o meno adeguate al tutto inglese.

    Prendiamo ad esempio quella risultata di maggioranza relativa, i Popolari:
    non molti anni fa nel simbolo si leggeva PPE/EVP, sigla neolatino-tedesco-olandese. Certo era discriminatoria e non inclusiva, perché quasi il 30% degli abitanti dell’attuale U.E. parla lingue materne in cui non è possibile sciogliere correttamente né PPE né EVP.
    Oggi invece leggiamo EPP, che può essere sciolto correttamente sia dal 2% circa anglofono di madrelingua (percentuale come si vede altissima, pensate un po’, supera persino i parlanti di bulgaro e danese!) e dal 38% da quanti conoscono l’inglese come seconda lingua (c’è solo un piccolo dettaglio, e cioè che per il rimanente 60% di residenti europei EPP rimane una sigla “opaca”).
    Non c’è che dire, grandiosi i progressi dell’inclusione grazie all’inglese.

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    • Osservazione acuta che non si può che condividere (sfonda una porta aperta). Il punto è che l’Ue spinge l’inglese in ogni ambito (lingua di lavoro, della comunicazione ai cittadini) e lo introduce in modo surrettizio e prepotente fregandosene dei principi del plurilinguisimo che vivono solo sulla carta, incurante che tutto ciò è un regalo ai Paesi anglofoni che sono fuori dall’Europa e non ci conviene affatto. Von der Leyen — che spero con tutto il cuore non sia confermata — è in prima linea in questo disegno, ma è solo la punta della montagna di ghiaccio di un fenomeno generalizzato. Intanto la metà degli elettori non è andata a votare.

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  5. Secondo me il tuo migliore articolo di sempre.Hai articolato esattamente il mio pensiero.Rampini dimpostra che l’empatia é sempre più rara in questo mondo da darwinismo 3.0Grazie, Antonio.Peter Doubt

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