L’italiano sul Titanic?

La puntata di Otto e mezzo (LA7) di ieri sera si intitolava L’Italia sul Titanic? ed era dedicata all’aumento dello spread.

Lilli Gruber Titanic.jpg

Mi sono domandato spesso perché la stampa non lo abbia chiamato forchetta o forbice, come si dovrebbe dire in italiano per indicare letteralmente un divario o margine, come si dice comunemente per esempio a proposito dei divari dei sondaggi elettorali, e come sarebbe più comprensibile alla gente.

Mi sono risposto spesso che è perché ci è stato venduto come un tecnicismo straripato dal linguaggio economico sempre più anglicizzato. E il riportarlo senza traduzioni anche nel linguaggio comune è funzionale allo spauracchio che rappresenta da agitare quando conviene, in una manomissione delle parole (per dirla con Gianrico Carofiglio) per cui l’oscurità spesso è voluta.

E così, nel suo acclimatarsi nell’italiano, il termine è passato a indicare la differenza tra il valore dei titoli di Stato italiani (Btp) e quelli tedeschi (Bund), un’accezione pseudotecnica che non si vuole divulgare, e che qualcuno spaccia per “necessaria”, “insostituibile” o “intraducibile” invece di dire più onestamente che è solo “insostituita” e “intradotta” (e c’è una bella differenza!).

Ma la cosa più imbarazzante della trasmissione (imbarazzante solo da un punto di vista linguistico, ci tengo a precisarlo) è stata l’incapacità di pronunciare il titolo scelto.

Quando Lilli Gruber ha rivolto la fatidica domanda all’economista Innocenzo Cipolletta per capire se siamo o no sul Titanic… non sapendo come pronunciarlo ha optato per entrambe le possibilità, all’italiana (titànic) e all’inglese (taitànic). Innocentemente, Cipolletta ha risposto timoroso di sbagliare: “Titànic o Taitànic che dir si voglia…”

Titànic o Taitànic, questo è il problema. Se sia più nobile sopportare la pronuncia storica italiana oppure cancellarla come fosse un errore, davanti all’anglopurismo che ci fa ostentare le pronunce all’inglese, o meglio all’americana, e che considera gli adattamenti fonetici come un segno di ignoranza e di arretratezza invece di un sano e normale processo di assimilazione dei forestierismi ai nostri suoni, come accade normalmente in Francia e in Spagna.

Dietro questo dubbio amletico c’è tutto il nostro complesso di inferiorità linguistico che sta portando al naufragio della nostra lingua. Le pronunce storiche delle parole inglesi entrate nell’italiano per via scritta, e pronunciate all’italiana, si devono ormai esibire in lingua originale. Da giumbo a giambo (jumbo), da puzzle a pàsol, da club a clab… quando accadrà di sentir dire da qualcuno “vater” o “uòter” – che dir si voglia – per indicare un cesso? Tunnel o “tannel”, che dir si voglia…

Che dir si voglia… eccolo il punto. Non vogliamo più parlare l’italiano. E la questione non è racchiusa in una manciata di esempi come questi, il vero nocciolo sta in ciò che sta sotto: il vergognarci della nostra lingua.

Dire Taitanic invece di Titanic come riportato nel Dizionario Olivetti o come spiegato da Beppe Servignini (“Titanic si pronuncia Titanic. Sì, anche se Di Caprio dice «Tai-tanic», fanciulla mia”) è solo la punta dell’iceberg. Ma il problema è la montagna che sta sotto, ben rappresentato da qualche risposta di qualche anglofilo fondamentalista che ha detto la sua nei commenti al pezzo di Severgnini su Io donna.

Iceberg… ecco un’altra parola che viene contrabbandata per intraducibile e necessaria. Eppure, quando il Titanic affondò, la Stampa titolò usando l’italiano banco di ghiaccio, espressione perduta che non ci viene neppure in mente, oggi, anche se un tempo probabilmente veniva spontanea.

Titanic 16 aprile 1912

Passando dal dissesto economico dell’Italia a quello dell’italiano, la domanda di Lilli Gruber dovrebbe essere riformulata: l’italiano sul Titanic?

E il marconista sulla sua torre
le lunghe dita celesti nell’aria
trasmetteva saluti e speranze
per questa crociera straordinaria.
E riceveva messaggi d’auguri
in quasi tutte le lingue del mondo
comunicava tra Vienna e Chicago
in poco meno di un secondo.
(“Titanic”, Francesco De Gregori, RCA 1982)

Mentre molti linguisti brindano agli internazionalismi e danzano contenti senza accorgersi che la nostra lingua sta evolvendo nell’itanglese – e non nella modernità – vale la pensa di ricordare che i superstiti del Titanic sono sopravvissuti grazie all’operato di due marconisti, cioè i radiotelegrafisti, chiamati così in onore di Guglielmo Marconi, inventore della radio, rimasti a inviare messaggi di soccorso fino alla fine.

Ma oggi marconista non si dice più. E allora chi può salvare l’italiano? La nostra classe dirigente che negli anglicismi sguazza? I politici, gli economisti o i giornalisti che li diffondono? Gli anglopuristi cui naufragar è dolce in questo mare di inglese?

Ai posteri, o forse ai post dei futuri eataliani, l’hard sentenza.

18 pensieri su “L’italiano sul Titanic?

  1. Mio padre ha fatto il servizio militare (negli anni Sessanta) come marconista, ma a parte lui solo ora, scritta da te, ho ritrovato la parola: mi sa che da tempo è “naufragata” 😛
    Come dico sempre, Michael Dàglas è figlio di Kirk Dùglas e Jamie Lee Càrtis è figlia di Tony Cùrtis. La tendenza a leggere com’è scritto – seguendo cioè la lingua italiana – si è andata sempre più perdendo e sarebbe divertente ritrovare qualche trasmissione Rai d’annata con i nomi di attori famosi, per sentire come sono cambiati nel frattempo. (Comunque i giornalisti italiani hanno seri problemi di pronuncia: nel 2001 era un fiorire di Bin Làden, Bìn Laden e Bin Ladèn!)
    Ah, ricordo che mi è caduta la mascella sul tavolo tipo cartone animato quando ho scoperto che la parola “privacy” gli inglesi la pronunciano “privacy” e solo noi siamo convinti sia pràivasi 😀

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  2. Caro Antonio, l’italiano possiamo salvarlo noi parlanti facendo ironia con quelli che utilizzano anglicismi in modo inflazionato, proponendo iniziative come la tua aaa.italofonia.info.

    Un paio di idee che butto giù per intavolare il discorso:

    – creare un gruppo facebook o su altre reti sociali per promuovere il tema non solo tra “esperti”
    – organizzare convegni con linguisti e giornalisti che ne scrivano poi nei loro giornali
    – fare rete tra esperti del settore e Accademia della Crusca, che sebbene faccia poco, è tra le istituzioni più credibili
    – sensibilizzare scuole e università
    – promuovere incontri tra linguisti, politici e giornalisti per creare consapevolezza e promuovere un utilizzo trasparente e democratico della lingua nella comunicazione istituzionale e di massa

    Me ne verranno altre. 😉

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    • Sottoscrivo tutto… e ne ho anche altre.
      Il mio progetto è partito nel 2016 e – almeno nei miei intenti – prevede 3 fasi:
      1) dimostrare l’anglicizzazione della lingua italiana, dati alla mano, visto che i linguisti la negano, e smontare le tesi dei linguisti negazionisti (2017: ho provato a farlo nel mio libro e per ora nessuno ha saputo smentire i miei dati, anzi ho creato proseliti anche tra qualche studioso);
      2) creare un dizionario delle alternative (visto che la Crusca non lo fa ho fatto da solo anche questo, in Rete, e sulla carta sta per uscire una versione divulgativa, popolare e spiritosa: http://www.francocesatieditore.com/catalogo/letichettario/);
      3) passare all’azione provando a dare vita a un movimento di pressione con le azioni che dici tu. Questo è il mio prossimo obiettivo, di tutti il più oneroso. Per farlo devo riuscire a creare rete, consensi e appoggi. Ci sto provando e spero di avere i numeri e le forze nel 2019.

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  3. Sono perplesso. “Titanic” non è una parola qualunque ma un nome ufficiale, quindi non da tradurre ma neanche da adattare foneticamente; e, a rigor di logica, se per decenni abbiamo preso l’abitudine di pronunciarlo male dovremmo essere noi a correggerci. Lo abbiamo fatto (per quel che ne so) ad esempio col cognome del più famoso primo ministro inglese del ‘900, per molto tempo pronunciandolo “ciùrcill” e solo in seguito imparando a chiamarlo “cèrcil” senza che la cosa apparisse un atto di sottomissione alla moda degli anglicismi. Ovviamente il problema dell’abuso di vocaboli angloamericani in italiano esiste e non va preso affatto sottogamba, ma quella di “Titanic” mi sembra un’altra faccenda

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    • Dissento. E non capisco, francamente, questo atteggiamento davanti i nomi “ufficiali” o propri che non si potrebbero adattare. Il concetto di “correggere” l’uso storico affermato in italiano attraverso l’adattamento della pronuncia inglese non mi pare accettabile.
      Gli inglesi pronunciano giustamente all’inglese parole latine come junior o media, e hanno adattato parole come novella di Boccaccio in novel, schizzo in sketch. Venendo ai nomi propri non mi pare che gli inglesi parlino di Italia, Venezia o Toscana, ma di Italy, Venice e Tuscany mentre noi abbiano “corretto” l’antico Nuova York con New York e usiamo l’inglese per tutti i nomi degli Stati Uniti (che chiamiamo Usa e non Sua nel nostro zerbinarci, mentre gli americani parlano di Eu e non certo di Ue per l’Unione europea). Trump chiama “Giuseppi” il nostro presidente del consiglio secondo la pronuncia americana, come gli inglesi chiamano “Giossa” Stefano Jossa e se ne fottono allegramente di come lo pronunciamo noi. I francesi – che mi chiamano “Sopetì” quando pronunciano il mio cognome, e non mi pare il caso di “correggerli” ma di rispettare le loro regole di pronuncia – parlano di “uifì”e di “futbòl” non sentono l’esigenza di pronunciare il wi-fi “uai fai” e il football all’inglese. Questa regola di essere fedeli all’inglese sembra valere solo per noi e non gode della proprietà transitiva, nemmeno nel caso dei nomi ufficiali, oltre che per gli infiniti adattamenti dell’italiano nell’angloamericano, che è una lingua ricchissima di prestiti che però vengono adattati alla propria pronuncia, come avviene nelle lingue sane.
      La pronuncia storica di Titanic all’italiana si è affermata perché è entrata per via scritta, e fuor dai nomi propri lo stesso è avvenuto per esempio per tunnel che non mi sembrerebbe sensato pronunciare all’inglese “tanel”. Non capisco perché dovremmo “correggere” le nostre pronunce storiche né quelli che pronunciano “meme” – parola greca – “mime” perché viene d’oltreoceano: e lì perché non la pronunciano alla greca? Perché non sono scemi mi verrebbe da pensare…

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  4. Concordo con te Antonio, e aggiungo altri due esempi. Ai tempi di Schumacher nella Ferrari, i telecronisti inglesi lo chiamavano “Maicol” (invero aiutati anche dall’omografia) e non “Michael”.
    L’esempio di meme mi ha fatto pensare anche alla vittoria greca dell’abbigliamento sportivo che viene pronunciata… “Naich”.

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    • Di esempi ce ne sono infiniti, e tra l’altro valgono sempre per l’inglese, non c’è alcuna attenzione pr le altre lingue per cui, come mi ha fatto notare Gretel, chiamiamo Greta Thunberg come se fosse inglese (invece di Grieta Tumbèri o qualcosa di simile), diciamo Porsh invece di Pòrsce alla tedesca, ìstanbul invece di istànbul, oppure nòbel all’italiana invece che nobél… il che non è un problema, ma non deve esserelo nemmeno per l’inglese.

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  5. E che dire quando gli addetti a fornirci informazioni dicono “midia” e non “media” riferendosi ai mezzi d’informazione. Bisogna ricordare a questi signori, che è un termine latino e non inglese

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    • A questo proposito, nel caso di “junior” ormai non solo si dice sempre più spesso all’americana, ma sui giornali si trova di frequente articolato come le parole in “g”, invece che in “i”, dunque “i junior” invece de “gli junior”. E questo non è una semplice questione di pronuncia, si ripercuote sulla scrittura in modo ben più pervasivo.

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