Il fenomeno lingua: italiano, dialetti, lingue europee e anglicismi

Di Antonio Zoppetti

Sono rimasto molto colpito da un libro appena uscito – Daniele Vitali: Il fenomeno lingua. Manuale informale di linguistica su italiano, dialetti e lingue europee (GoWare 2024) – che spicca nel panorama editoriale per almeno tre motivi: la piacevolezza e la scorrevolezza nella lettura, il taglio e la gran mole di dati che contiene.

Nonostante il titolo faccia pensare a un lavoro di manualistica, si tratta di una raccolta di scritti di saggistica brillante che non si configurano come un manuale organico, che spesso può rivelarsi impegnativo o noioso. Sono brevi trattatelli composti in varie occasioni che costituiscono un esempio di divulgazione che arriva a tutti e sa incuriosire. L’autore scrive con un rigore e una competenza che non si trovano spesso, e riesce perfettamente nell’intento di raccontare

la storia dell’italiano e delle lingue dei nostri vicini europei, cercando di divertirci, di sfatare un po’ di luoghi comuni e di prendere finalmente consapevolezza del fatto che la lingua è anche una questione politica”.

Questa dimensione politica – nella sua accezione più nobile, e dunque non legata alle ideologie di partito – viene troppo spesso negata o sottovalutata da una schiera di linguisti che hanno mitizzato la retorica dell’uso e l’idea per cui le lingue siano espressione del popolo e arrivino dal basso. Le cose, andando un po’ più in profondità, non stanno affatto così e l’enorme ricchezza degli argomenti presentati lo dimostra in modo eccellente.

Daniele Vitali è un valido studioso di dialettologia (autore tra l’altro di un dizionario del bolognese), ma è anche un traduttore esperto di lingue caucasiche e di russo che lavora all’Unione europea in Lussemburgo e a Bruxelles. La sua formazione non si limita perciò alla conoscenza della lingua italiana, parte da un punto di vista molto più ampio che guarda contemporaneamente a tutte le lingue (e non solo all’inglese) sul piano internazionale, e soprattutto ai dialetti, sul piano interno. La questione dell’italiano viene perciò trattata attraverso la comparazione da questa prospettiva attentissima al plurilinguismo, che dovrebbe essere più spesso al centro dei libri di linguistica che hanno invece di solito orizzonti ben più limitati.

La regolamentazione degli anglicismi: una questione politica

L’intellettuale medio italiano è di solito pronto a sostenere che la pianificazione linguistica è un assurdo concettuale che non può funzionare – perché non riesce a vedere oltre al proprio naso e sa solo guardare alla politica linguistica del fascismo come se non esistessero altri esempi – ma leggendo questo libro questo impianto ideologizzato crolla davanti ai fatti.

La questione degli anglicismi trova un largo spazio nella pubblicazione, sia da un punto di vista storico, dove c’è un’ottima ricostruzione delle politiche contro i forestierismi del fascismo, sia da quello più attuale, che prende in considerazione la legge Rampelli o alcune recenti dichiarazioni del ministro della cultura Sangiuliano. L’analisi del dibattito è finalmente trattata con un pregevole distacco e taglio critico non ideologizzato, e invece di bollare la guerra ai barbarismi del ventennio in modo manicheo – come il male assoluto o viceversa con nostalgia – analizza con spirito storico i fatti nelle loro implicazioni negative ma anche nei risvolti che hanno portato dei risultati. Con lo stesso spirito, la legge Rampelli, e certe dichiarazioni dei politici dell’attuale governo, sono aspramente criticate attraverso l’analisi degli aspetti più deboli e inapplicabili, ma altrettanto criticate sono le prese di posizione aprioristiche di certi loro detrattori:

A me pare chiaro che giudizi così duri contro Rampelli e gli altri firmatari (più duri di quelli riservati agli estensori delle norme che salvano gli evasori fiscali) non siano frutto di una riflessione giuridica, ma di un riflesso condizionato: forse per sviluppata allergia al purismo fascista, forse per anglo(americano)filia inveterata, forse per indisciplina (anche) linguistica, fatto sta che l’italiano medio risponde da sempre la lingua si evolve’ a qualunque discorso critico relativo alla qualità della lingua che parliamo ogni giorno, come se di una riflessione sul tema non ci fosse bisogno.”

L’insopportabile banalità che “le lingue si evolvono” invocata per giustificare qualunque cosa — soprattutto ciò che fa comodo — è ben ridimensionata. E di fronte all’idea di intervenire davanti all’abuso dell’inglese, Vitali precisa:

Non si tratta, dunque, di dettare dall’alto come si deve parlare, ma di esprimersi in un modo comprensibile a tutti utilizzando il lessico esistente o, se necessario, coniando neologismi chiari ed efficaci come autista e regista. Si tratta cioè di un’operazione di cultura linguistica, o se vogliamo di rigore espressivo, in definitiva di parlar chiaro e con un minimo di buon gusto. Poi qualche proposta nuova si radicherebbe, altre no e dunque le odiate (da alcuni) e amate (da altri) parole straniere in vari casi entrerebbero lo stesso nella nostra lingua. Ma cerchiamo di renderci conto che, aldilà della polemica politica spicciola, una lingua che non sa dare un nome alle cose nuove e deve ricorrere a uno pseudotermine tecnico inglese che in realtà è una parola di tutti i giorni non è una lingua viva, allegramente scoppiettante e pronta allo scambio internazionale: è una lingua malconcia, a cui i suoi parlanti non vogliono poi tutto quel bene.”

L’ingegneria linguistica

Una delle parti più interessanti, raramente trattata e spesso volutamente trascurata nei testi dei linguisti italiani, riguarda l’ingegneria linguistica, e cioè “l’intervento consapevole dell’uomo sulla lingua”, che si è affacciato durante il romanticismo con due diversi approcci dai

risultati gravidi di conseguenze fino ai giorni nostri. Da un lato, con Humboldt nacque l’idea che la lingua fosse l’emanazione dello spirito di un popolo, e come tale sacra, dall’altro proprio il romanticismo dette inizio all’epoca di quella che possiamo chiamare ingegneria linguistica. (…) Col risveglio dei popoli, i poeti e gli scrittori cominciarono a ‘purgare’ le proprie lingue dai forestierismi”.

E così in Italia,

dobbiamo all’ingegneria linguistica (impersonata dal linguista Bruno Migliorini) se oggi in italiano diciamo autista, regista, calcio anziché chauffeur, régisseur, football.”

Ma questo esempio non si può limitare alla parentesi (soprattutto negativa, ma non solo negtiva) del fascismo, e infatti attraverso l’ingegneria linguistica

serbi e croati presero a interrogarsi sul dialetto da elevare a lingua comune, gli intellettuali romeni studiarono un’ortografia italianeggiante per abbandonare l’alfabeto cirillico e gli albanesi organizzarono il Congresso di Monastir (1908) per la riforma della lingua albanese e l’adozione ufficiale dell’alfabeto latino. (…) Grazie all’ingegneria linguistica l’ebraico è tornato a essere una lingua viva, e sono venuti alla luce il neonorvegese e l’irlandese moderno. Senza un intervento attivo con fini precisi, il finnico, il bulgaro, lo sloveno, l’ungherese, l’islandese sarebbero diversi da come oggi li conosciamo; in estone furono persino introdotte parole inventate totalmente a priori per ‘riestonizzare’ la lingua. Lo swahili e il vietnamita sono passati all’alfabeto latino nell’epoca coloniale, il somalo nel 1973 e ancora dopo, a URSS caduta, hanno fatto altrettanto l’Aserbaigian o la Cecenia semi-indipendente nello spazio di un mattino, mentre le autorità di Zagabria hanno tentato di riportare all’antico la lingua croata per riscoprire un passato diverso da quello dei serbi.”


Invece di affermare che gli interventi sulla lingua non funzionano – il che è un falso storico – Vitali analizza le cose caso per caso con grande competenza, e le riflessioni sulla lingua ebraica e anche sull’ucraino davanti al russo durante la guerra sono attualissime e illuminanti.
Questa visione attenta al plurilinguismo e alla storia spazza via una serie di stereotipi tipici italiani perché:

“L’ingegneria linguistica è uno strumento in sé valido che, al pari del telefono, può servire a fare la pace oppure la guerra a seconda dell’intelligenza di chi lo usa. Del resto, è stata l’ingegneria linguistica a permettere la nascita dell’esperanto, lingua pacifista per eccellenza”.

Certo, a volte gli interventi sulla lingua, e anche le riforme ortografiche, sono imposte con la forza (il che non fa parte dell’ingegneria linguistica, ma delle politiche autoritarie) e a volte non funzionano affatto, come è accaduto nel 1991 nel caso della riforma ortografica francese pensata dall’Académie Française per intervenire “su stranezze come la h muta o i plurali in x”; in altri casi hanno invece funzionato, per esempio la riforma ortografica del tedesco, nonostante le grandi polemiche e le feroci opposizioni:

La riforma dell’ortografia tedesca è stata a lungo meditata e poi scientificamente organizzata: a metà degli anni Settanta, i paesi di lingua tedesca (BRD, DDR, Austria, Svizzera, con osservatori da Belgio, Danimarca, Francia, Liechtenstein, Lussemburgo, Romania, Sudtirolo e Ungheria), formarono una Commissione interstatale per l’ortografia tedesca allo scopo di riformare il complesso di regole pragmaticamente costituito dalla redazione del Duden e ufficializzato dalla Seconda conferenza ortografica tenutasi a Berlino nel 1901. Il 1° luglio 1996, dopo 25 anni di lavoro e a DDR scomparsa, i vari paesi hanno firmato la Dichiarazione di Vienna, con la quale s’impegnavano a introdurre la riforma il 1° agosto 1998: da questa data la nuova ortografia è usata in tutte le scuole dei paesi di lingua tedesca, in un periodo di transizione che terminerà soltanto il 1° agosto 2005. Il 1° agosto del 1999 anche i giornali hanno iniziato a usare la nuova ortografia, e i germanofoni hanno scoperto con sollievo che intere frasi, non fosse stato per il daß trasformato in dass, rimanevano immutate (le cifre: da 212 regole si è passati a 112)”.

Leggere queste ricostruzioni storiche basate appunto sulle lingue – declinate al plurale, invece di guardare solo alla realtà italiana o a quella anglofona come se fosse l’unico parametro di riferimento – spazza via una serie di sciocchezze che da noi vanno per la maggiore, per esempio che la lingua sarebbe come un fiume che va dove vuole e non è possibile controllare. Il che non è un’analisi logica o storica, ma una presa di posizione politica e ideologica, e un assioma piuttosto discutibile.

Il libro non tratta solo questo aspetto che ho provato a riassumere, questo è solo uno degli innumerevoli argomenti, sempre affrontati con rigore e piacevolezza. La lingua italiana è presentata come un tema attualissimo, e anche la questione della femminilizzazione delle cariche o dello scevà sono trattate con altrettanta lucidità. C’è una bella storia della lingua italiana, ma accanto a questa ci sono le storie delle lingue europee, c’è la questione politica delle lingue nell’Ue ricostruita in modo storico; e accanto all’italiano ci sono i “ritratti linguistici” con la storia e le caratteristiche del francese, dello spagnolo, del tedesco, dell’inglese, del rumeno, del russo e di tantissime lingue, dal polacco all’albanese, compreso l’esperanto. E non solo, c’è anche la storia dei dialetti italici – e la questione delle differenze tra lingue e dialetti – oppure delle lingue minoritarie non solo in Italia, ma anche all’estero, dal catalano al basco e a tanti altri idiomi che non hanno uno Stato.

È davvero impossibile riassumere la miniera di informazioni che si trovano in questo libro di oltre 300 pagine, che scorrono leggere, invece di essere un mattone. Ma un corposissimo indice analitico facilita proprio le letture trasversali, invece che lineari.

8 pensieri su “Il fenomeno lingua: italiano, dialetti, lingue europee e anglicismi

  1. Grazie per questo riscontro esaustivo e appassionato su un testo che, in tempi in cui davvero i luoghi comuni più imbarazzanti egemonizzano qualsiasi dibattito, è una lettura praticamente irrinunciabile!

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    • Ho appena finito di leggere un libro blasonato dell’Einaudi sull’italiano — che preferisco non nominare — che è l’emblema dei luoghi comuni imbarazzanti, e contiene tra l’altro molti dati errati. Questo invece è proprio ben fatto, e forse trova spazio nel catalogo di un piccolo editore, ma di qualità, proprio perché esce dalla visione egemone anglomane che impera e appiattisce la “grande” editoria.

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  2. E’ da tempo che non commento su questo blog, purtroppo per motivi di studio e universitari ho dovuto disinteressarmi di meno della causa contro gli anglicismi. Ci sono novità riguardo a iniziative volte a tutelare l’italiano dalla morsa linguicida dell’inglese ?

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