di Antonio Zoppetti

È da poco uscito uno studio dell’Accademia della Crusca che fa il punto sul linguaggio giovanile del nuovo Millennio ed è ricco di nuovi dati e riflessioni interessanti.
Curato da Annalisa Nesi, ed edito da goWare, L’italiano e i giovani. Come scusa? Non ti followo raccoglie gli interventi di vari specialisti che hanno trattato il tema da diversi punti di vista.
Il libro è uscito in occasione della Ventiduesima settimana della lingua italiana nel mondo che si è svolta dal 17 al 23 ottobre, ma che non si è esaurita in questo lasso di tempo e in Germania – dove i corsi universitari non erano ancora partiti – è stata posticipata. Perciò, nella coda lunga della manifestazione, segnalo che martedì 15 novembre terrò una conferenza sullo stesso argomento presso l’Università di Heidelberg intitolata “L’italiano i giovani e l’inglese“.
È aperta a tutti e si potrà seguire via Zoom dalle 18 alle 20 a questo indirizzo: https://heiconf.uni-heidelberg.de/t76z-6ev6-2gr3-x7cz.

Per chi è interessato, ho recensito il libro della Crusca sul portale Italofonia.info, mentre sul canale del linguista Mario Mancini di goWare ho aggiunto le mie considerazioni sul fatto che l’anglicizzazione emerge come uno dei dati più significativi che contraddistingue il nuovo linguaggio giovanile; ma ciò non deve stupire, e bisognerebbe leggerlo alla luce di una ben più ampia anglicizzazione che riguarda la lingua italiana nella sua complessità.
La stagnazione del gergo giovanile che attinge quasi solo dall’inglese
Il linguaggio giovanile è da sempre caratterizzato dal suo essere passeggero. Le nuove generazioni creano un loro gergo che si rinnova continuamente e si distacca da quello delle generazioni precedenti, per cui se negli anni Sessanta per indicare e connotare negativamente chi era “anziano” si usava “matusa”, oggi si usa l’anglicismo “boomer”. Inoltre, una volta adulti, i giovani tendono ad abbandonare le parole che usavano da ragazzi, e vocaboli come “sfitinzia” che nel gergo dei paninari degli anni Ottanta indicava la “ragazza”, tendono a scomparire, perché vengono dismessi dai parlanti che li sfoggiavano. Tuttavia, anche se la gran parte del lessico giovanile finisce con lo svanire, alcune parole sopravvivono e possono entrare nella lingua italiana, magari perché sono riprese e accettate dai giornali, oppure perché vengono ereditate e riproposte anche dalle generazioni successive. Il meccanismo e le percentuali di attecchimento non sono poi diversi da quelli che regolano l’affermarsi dei neologismi, di cui solo una piccola parte è destinata a raggiungere una sua stabilità che sopravvive nel tempo.
Nel caso del linguaggio dei giovani le nuove parole generazionali sono sempre state marcate da una certa creatività nelle coniazioni, e gli elementi di partenza erano soprattutto legati al territorio. Quando la leva era obbligatoria, per esempio, dal linguaggio della “naia” che coinvolgeva la popolazione maschile si importavano espressioni come “burba” o “spina”, che designavano il neofita e il suo essere un novellino spesso connotato come imbranato (una “matricola” nel gergo universitario). Oggi lo stesso concetto è mutuato dall’ambiente virtuale dei videogiochi attraverso espressioni come newbie (probabilmente da “new boy”) che viene poi anche adattato e variato in tanti modi come niubbo, nabbo, nabbone e via dicendo. E a proposito di varianti, va detto che molte parole giovanili del passato erano voci regionali e dialettali, e lo stesso gergo dei giovani era legato alla territorialità e si differenziava di regione in regione.
Oggi lo scenario è cambiato radicalmente. Nel passaggio dalla socialità, che contraddistingueva i movimenti studenteschi e giovanili di una volta, all’epoca dei “social”, l’ambiente di cui i ragazzi del Duemila si nutrono è quello virtuale. La Rete, le piattaforme sociali, i videogiochi, le serie televisive, i film, i video musicali, i prodotti d’oltreoceano tecnologici e di consumo… sono i nuovi punti di riferimento che formano e accomunano i giovani. Questi sono i nuovi “centri di irradiazione della lingua” avrebbe forse detto Pasolini. E poiché questa globalizzazione si esprime soprattutto in inglese e coincide sempre più con l’americanizzazione del mondo, ecco che l’odierno linguaggio giovanile segna un periodo di “stagnazione” in cui la creatività lessicale si è interrotta – come osservano Michele Cortelazzo e Luca Bellone – perché più che altro si importa dall’inglese. E per lo stesso motivo anche le componenti regionali e dialettali vengono meno, per cui il linguaggio dei giovani “ha perso gran parte della varietà (sociale e geografica) che lo caratterizzava per imboccare vie più standardizzate e basate su modelli trasmessi attraverso i social network” (Cortelazzo), mentre si registra una “sensibile riduzione del processo di neoconiazione di parole ed espressioni del cosiddetto «strato gergale ‘innovante’ ed effimero»” (Bellone).
Anche se mancano dei confronti statistici sul numero degli anglicismi presenti nel linguaggio giovanile del passato (da sempre influenzato dalle suggestioni musicali, cinematografiche, letterarie e commerciali d’oltreoceano), è evidente che oggi l’inglese è diventato il punto di riferimento principale che ha cannibalizzato ogni altro aspetto. Tra le 9 parole esemplificate da Cortelazzo ci sono anglicismi crudi come cringe, crush, millennial, pov, trend, scorciamenti come bando (cioè casa abbandonata da abandoned house) e ibridazioni come droppare, floppare e stitchare.
E l’italiano dov’é? Viene da chiedersi.
Kevin De Vecchis ha analizzato un corpus di 398 occorrenze apparse su Twitter nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2021 e il 1° aprile 2022. Su 122 forme italiane “alcune delle quali calcate sul modello inglese (come vibrazioni positive, dall’inglese good vibes)” registra ben “74 prestiti integrali, non adattati, dall’inglese”. Questi anglicismi crudi rappresentano dunque più della metà delle voci, e se si aggiungono anche i calchi e le parole ibride e italianizzate, la presenza dell’inglese rivela tutto il suo ingombro. Se poi si analizzano le cose più nel dettaglio, ci sono ben 18 forme verbali ibride (come “blessare” o “lovvare”) e 3 aggettivi (“basato”, “ghostato”, “scriptato”), oltre ad addirittura 13 espressioni fisse che introducono “pezzi” di inglese più complessi di un singolo vocabolo, e sembrano più una testimonianza di enunciazioni mistilingue che si fanno strada nell’italiano, per esempio “frasi semplici (fight me), complesse (per es. prove me I’m wrong), esclamative (what a time to be alive) o anche sintagmi verbali come per es. is over ‘è finito’, che viene unito a diversi soggetti.” A queste si possono aggiungere locuzioni avverbiali come “too much o l’alfanumerico 2l8 ossia too late, visto che la pronuncia inglese di 2 è simile a too e quella di 8 a ate in late”, e circolano persino delle forme verbali come “fly down” e “to blow up”.
La stagnazione dell’italiano
Se gli interventi degli studiosi della Crusca prendono atto dell’anglicizzazione del linguaggio giovanile, questo fenomeno non è affatto confinabile in questo ambito, e anche se nella pubblicazione non viene detto bisognerebbe registrare che gli stessi meccanismi e la stessa stagnazione coinvolgono più in generale l’intera lingua italiana. Dalle marche dei dizionari come lo Zingarelli e il Devoto Oli risulta che più della metà dei neologismi del Duemila è in inglese crudo, o proviene dall’inglese. Gli adattamenti sono pochissimi e spiccano invece le parole ibride, per cui se i giovani ricorrono a verbi come followare e friendzonare, gli adulti non si fanno problemi a bypassare l’italiano o screenare il suo lessico con altrettanta naturalezza. Se il 98% dei ragazzi trascorre “almeno 5 ore al giorno all’interno degli spazi offerti dai social network” come WhatsApp, Instagram, TikTok o YouTube (Bellone), i loro genitori e professori non sono fuori da queste dinamiche e i giornalisti, gli imprenditori, la nostra intera classe dirigente ha come punto di riferimento soprattutto ciò che viene d’oltreoceano, e le conseguenza linguistiche sono solo la spia di questo cambio di paradigma che non è solo generazionale, ma sociale.

È curioso che l’onorevole Rampelli, indignato davanti ad anglicismi come “dispenser”, si ribelli all’inglese proponendo di usare “dispensatore”. E non perché questa parola non si possa usare in questo nuovo significato perfettamente lecito e comprensibile rispetto a “colui che dispensa”, ma perché le alternative “erogatore” e “dosatore” che esistono da sempre non vengono più in mente davanti all’avanzare dell’inglese che produce “prestiti sterminatori” che fanno regredire e talvolta scomparire le espressioni italiane. È avvilente anche che un certo giornalismo e una certa politica, davanti a queste prese di posizione, non sappia far altro che riproporre in modo strumentale la solita tiritera del fascismo. Questo approccio alla questione è davvero miope perché, di fronte all’attuale “tsunami anglicus”, chi difende e promuove l’italiano dovrebbe evocare al contrario chi fa la Resistenza. E invece di interpretare l’italianizzazione – anche creativa o basata su adattamenti e allargamenti di significato – come una posizione nostalgica, si dovrebbe spostare il punto di riferimento dal ventennio a ciò che oggi si fa in Francia, in Spagna, in Svizzera, in Islanda e nei Paesi democratici e civili che considerano normale e auspicabile proteggere il proprio patrimonio linguistico davanti al globalese che entra in conflitto con le lingue locali, pone problemi di trasparenza, crea barriere di comprensibilità e fratture sociali che discriminano alcuni parlanti, e soprattutto snatura gli idiomi locali fino a metterne a rischio la sopravvivenza.
Anche i giornalisti e i politici, in altre parole, come i giovani, attraverso il ricorso agli anglicismi si identificano, si distinguono socio-linguisticamente, e marcano il loro ambito di appartenenza. Anche loro guardano all’anglosfera come al punto di riferimento principale su cui si formano. Se il dizionario inglese Collins introduce come parola dell’anno “permacrisis” ecco che immediatamente dopo tutta la stampa italiana dedica un pezzo alla nuova parola come se fosse una “nostra” parola. Perché l’anglosfera non è solo il punto di riferimento dei giovani ma dell’intera nostra classe dirigente.

La buona notizia è che “permacrisis” è stata adattata in “permacrisi”, come ho spiegato alla redazione di Oggi che mi ha intervistato in proposito. Ma purtroppo questi esempi di evoluzione linguistica “sana”, sono sempre meno. E davanti agli anglicismi crudi usati snobisticamente per elevarsi bisognerebbe adattare invece che adottare e creare più neologismi per non finire fagocitati dall’itanglese. Dinnanzi agli anglicismi e ai nuovi concetti che ci mancano ci vorrebbero più adattamenti, più risemantizzazioni come “dispensatore” (quando non abbiamo già le nostre parole) e più neologismi creativi, per uscire dalla stagnazione della nostra lingua che anglicismo dopo anglicismo sta soffocando e sembra un albero morto che rimane in piedi ma riesce sempre meno a germogliare a partire dalle proprie radici. Perché i nuovi germogli sono il risultato di trapianti linguistici geneticamente modificati e tutto ciò non ha più a che fare con il purismo o il fascismo, ma con l’ecologia linguistica: l’italiano è un ecosistema schiacciato dal globalese, e se non lo si protegge e promuove non può che fare una brutta fine. Non fare nulla non significa essere “liberali”, significa essere complici della sua regressione e assistere alla sua sopraffazione.
