Interferenze dell’inglese: narrativa, narrazione, retorica e storytelling

di Antonio Zoppetti

Sempre più spesso capita di imbattersi nell’utilizzo della parola “narrativa” con un’accezione che non esiste nell’italiano storico; viene sciorinata con disinvoltura come un equivalente di “ricostruzione dei fatti” spesso non oggettiva, ma forzata o funzionale alle proprie tesi: la narrativa dei terrapiattisti o degli antivaccinisti (ormai detti solo no vax, anche se in inglese è in uso anti-vaxxer).

La narrativa è invece un’etichetta editoriale contrapposta per esempio alla saggistica, alla scolastica, alla manualistica… e si riferisce ai romanzi o ai racconti, e cioè alle opere di narrazione o di letteratura.
La confusione deriva anche dal fatto che, in inglese, il falso amico narrative significa appunto racconto o narrazione, e quando l’anglocentrismo diviene il modello prevalente, se non l’unico, della cultura e della società, questi slittamenti di significato avvengono sempre più di frequente.

Questo uso di “narrativa” attualmente si può considerare come “erroneo”, perché viola la norma e l’uso storico riportati nei dizionari; ma se non verrà arginato e stigmatizzato come “sbagliato”, “incolto”, “zotico”, “ignorante”, “rozzo” e “tamarro”, se continuerà a propagarsi in modo inarginabile, ai dizionari (dell’uso) non resterà che prendere atto dell’avvenuto cambiamento lessicale, per poi registrarlo, magari in un primo tempo con qualche riserva destinata alla fine a cadere.

L’evoluzione delle lingue segue da sempre questi meccanismi, e non di rado finisce che l’uso, e la forza dell’ignoranza, ha la meglio sulla norma. Per esempio, un’espressione come “macchina da scrivere”, a lungo sanzionata da molti in favore di “macchina per scrivere” – in cui la preposizione per risulterebbe più corretta e appropriata di da – alla fine si è imposta anche quando lo strumento ha cessato di esistere, visto che oggi è stato rimpiazzato dal computer, in inglese. E, a proposito dell’inglese, questi fenomeni avvengono sempre più spesso proprio per la sua interferenza.

L’interferenza invisibile

Le lingue evolvono. Un tempo si sarebbe detto si evolvono. Ma oggi anche la prima forma è accettabile, forse proprio per l’interferenza dell’inglese to evolve, che non richiede il riflessivo, e ci ha abituati a questo uso.

Le lingue cambiano insieme alle società, alle culture e alla storia, ed è un bene che lo facciano, altrimenti non sarebbero vive. Si evolvono anche per via esogena, cioè attingendo dalle altre lingue, come è sempre accaduto sin dall’epoca di Dante, nel cui lessico divinamente fiorentino si rintracciano allo stesso tempo parole di altre regioni insieme a quelle di origine provenzale, latina, araba e di varie provenienze.

Negli ultimi decenni, visionario circola di frequente con il significato di persona lungimirante, che vede lontano – per influenza dell’inglese visionary che ha raggiunto l’apice soprattutto con la mitizzazione di Steve Jobs – invece di designare chi ha delle visioni distorte e allucinate, il significato che da noi era prevalente.

Lo stesso si può dire del verbo realizzare usato nel senso di comprendere, invece di costruire; della parola intrigante nel senso di coinvolgente, invece che nel suo significato storico legato al compiere intrighi; o di basico – in chimica il contrario di acido – usato ormai comunemente con il significato di fondamentale, e cioè “di base” per l’interferenza di basic del basic englisch.
Questi esempi di “risemantizzazioni”, cioè di mutamenti di significato che arrivano dal “prendere in prestito” la valenza che queste parole hanno in inglese, spesso avvengono in modo inconsapevole, e si possono poggiare su significati storici che già circolavano in italiano da tempo, anche se erano secondari. Per esempio la parola compagnia non è solo una brigata di amici, ma già in passato serviva per designare anche una consociazione di artisti e artigiani o una struttura associativa di carattere commerciale (“Sono molti mercatanti, e fanno compagnia insieme”, Marco Polo), dunque una società o un’azienda. Ma il falso amico company (azienda) ha rinforzato questo uso che si ritrova nelle compagnie aeree, assicurative o telefoniche, al punto che nella recente polemica sulla nuova gestione di Twitter, su RaiNews (11/11/22) si legge come fosse normale che secondo Musk “il fallimento potrebbe essere una possibilità se la compagnia non inizia a generare più denaro”.

Viva i falsi amici! Abbasso gli anglopuristi!

Un “purista”, o meglio, un moralizzatore linguistico ostile ai neologismi come ce ne sono troppi (visto che il purismo in senso tecnico è morto e sepolto) è mediamente molto infastidito davanti a questi cambiamenti, che stigmatizza in modo di solito velenoso. Ma questo fenomeno è davvero grave e pericoloso per l’integrità della nostra lingua?

No. Questa almeno è la mia posizione, che vorrei chiarire, perché mi sono davvero scocciato di finire etichettato come “purista” dagli anglomani; come “comunista” dai conservatori che non apprezzano le mie citazioni di Gramsci e i miei strali contro il linguaggio anglicizzato per esempio del Pd (che considero un partito di destra moderata); come “fascista” da chi blatera a sproposito che le mie posizioni sulla lingua ricalcano la guerra ai barbarismi del ventennio. Ultimamente mi sono preso persino del “talebano” perché nel dizionario delle Alternative Agli Anglicismi ho osato constatare che il flashback (anglicismo tecnico cinematografico) corrisponde all’analessi in uso nella critica letteraria, e in una retrospettiva o in un salto indietro (per es. il come è cominciata) in vari usi in senso lato. Curiosamente nessuno scriverebbe all’autore di un dizionario dei sinonimi facendo notare che le alternative riportate non sono perfette (bella scoperta!), tutto dipende dai contesti e dalle scelte lessicali di cui sono alla ricerca i lettori per i loro scopi, e l’unico atteggiamento talebano è non capirlo e confondere il mio lavoro con un elenco di anglicismi “vietati” o da bandire.

E allora, anche se è impopolare, voglio gridare: “W i falsi amici e W l’interferenza dell’inglese”, se passa per l’italianizzazione strutturale e formale. Se in un prossimo futuro “narrativa” acquisterà ufficialmente il significato di “narrazione” o “racconto”, chissenefrega! Se attraverso il linguaggio informatico, per interferenza dell’inglese to implement, spunta e dilaga il verbo implementare con il significato di sviluppare o perfezionare non c’è alcun problema, è un adattamento e una parola italiana (personalmente non la uso e mi ripugna, ma questa è un’altra faccenda ed è solo questione di gusti e di abitudine). Esattamente come un sito (Internet) diventa un luogo virtuale sul modello di web site.

E se in biologia si parla di cure parentali invece che genitoriali – per interferenza del falso amico parent (genitore) – l’italiano non rischia l’estinzione, semplicemente si evolve come è normale, che piaccia o meno. Grave e anormale è invece che il filtro famiglia dei televisori, il controllo genitoriale (ma va bene anche parentale, alla peggio) sia chiamato parent control, e cioè in inglese crudo e con abbandono del lessico e della sintassi italiana. Il pericolo sta negli anglicismi non adattati, e non per motivi di principio, di purismo o di autarchia sovranista, ma per il loro numero sproporzionato e distruttivo che sta facendo scempio del nostro ecosistema linguistico.

Ciò che andrebbe condannato, invece, è l’ottuso atteggiamento di quelli che chiamo anglopuristi. Come i più intransigenti puristi del passato, questi anglomani vogliono cristallizzare l’italiano nei suoi soli usi storici, e dimenticano che le lingue vive hanno la necessità di evolversi per esprimere i cambiamenti e le novità. Recentemente, tutti i giornali hanno dato ampio spazio alla vicenda dell’onorevole Rampelli che è sbottato contro l’uso della parola dispenser, usata in Parlamento, proponendo dispensatore. Certo, in italiano esistono anche erogatore e distributore, e nell’italiano storico dispensatore si riferisce prevalentemente a colui che dispensa (dunque una persona) più che a un dispositivo erogatore. Ma cosa impedisce di usare – correttamente e in modo comprensibile – la parola con un nuovo significato più esteso?
Nulla, a parte le idiozie degli anglopuristi che vogliono ingessare l’italiano ai soli usi storici dimenticando che la lingua è metafora, che il lessico è – e deve esserlo per evolversi – elastico, suscettibile di cambiamenti, e che accanto agli usi codificati esiste per fortuna la possibilità creativa dei parlanti di dare vita a nuove parole e nuovi significati. Per gli anglopuristi che spesso vorrebbero applicare le regole della terminologia alla lingua – con una concezione della lingua monosignificato e meccanica che produce deliri – l’italiano è un monolite immodificabile, dunque preferiscono giustificare la necessità e l’opportunità del lessico inglese, invece che legittimare i nuovi usi che arrivano per via endogena. E con questa (il)logica tutto ciò che è nuovo finisce per essere espresso in inglese, visto che se una cosa è nuova ovviamente non c’è già una parola per designarla. Ma se non la si crea, perché tutto o quasi sembra arrivare d’oltreoceano, questo atteggiamento puristico finisce per aprire le porte solo all’inglese, identificato come la lingua di una nuova e intoccabile terminologia che però non è più in italiano. Oltretutto, davanti a parole come governance e alternative possibili e tentate come governanza, vale la pena di ricordare che nessuna delle due parole (quindi nemmeno l’inglese) appartiene all’italiano storico, e non si capisce perché la prima sarebbe legittima e la seconda no.

Lingua e pensiero: la riconcettualizzazione attraverso l’inglese

Nessuna parola è “straniera” per la sua origine e provenienza, le parole straniere sono quelle che violano il nostro sistema morfologico e grammaticale, i “corpi estranei” – per dirla con Castellani – che non si amalgamano con il tessuto linguistico che li ospita.
Questo principio non appartiene al purismo, era condiviso e dato per scontato dai più feroci antipuristi e aperturisti di ogni epoca, e da sostenitori della modernizzazione dell’italiano e dell’accoglimento delle parole straniere da Machiavelli a Muratori, da Verri a Cesarotti e a Leopardi. Anche rispetto alle posizioni neopuriste di autori moderni come Migliorini e Castellani, teorici dell’italianizzazione, dell’adattamento e delle neologie, si può fare un passo in più: non c’è niente di male neanche ad accogliere corpi estranei non adattati, se costituiscno un numero contenuto e tale da poter essere assorbiti senza pericolo, come avviene per un esiguo numero di parole giapponesi, per poche centinaia di ispanismi o germanismi, e anche per un migliaio di francesismi accolti nei dizionari.
Ma davanti allo tsunami anglicus che travolge e distrugge la nostra lingua, il problema è un altro, e ha a che fare con la regressione dell’italiano, il suo impoverimento e la sua creolizzazione.
Il pericolo è qui, non sta nell’uso di “supportare” al posto di “appoggiare” o “convalidare” (per interferenza di to support) o nel farsi strada del concetto di “resilienza” spacciato come novità rispetto a “resistenza”.

L’invasione di parole e radici inglesi non adattate che ci soffoca e impedisce all’italiano di coniare i propri neologismi, e quindi di evolvere e sopravvivere, è così estesa che sta portando al collasso linguistico e terminologico in sempre più settori, dall’informatica al lavoro, dall’economia alla scienza, dallo sport all’intrattenimento… Ed è l’effetto collaterale di un’anglicizzazione e di un’americanizzazione sociale e culturale prima che linguistica che nasce da una riconcettualizzazione del mondo attraverso le categorie d’oltreoceano che fanno piazza pulita della nostra storia, in un cambio di paradigma in cui i precetti della nuova cultura che si vuole imporre si basano sulla diffusione dell’ignoranza e sulla cancellazione delle nostre radici.

Per tornare alla narrativa e alla narrazione da cui eravamo partiti, vale la pena di ricordare che l’arte della narrazione, intesa come comunicazione persuasiva (scritta e orale), nasce almeno con i sofisti dell’antica Grecia, e si chiamava retorica. L’arte dell’oratoria e della retorica è poi passata alla cultura Romana dell’epoca classica ed è stata per secoli e secoli oggetto di studio e di analisi che si sono arricchite di punti di vista multidisciplinari, dalle riflessioni psicologiche a quelle pubblicitarie. Ma nell’era del marketing dalla retorica si è passati allo storytelling che ci arriva d’oltreoceano, pensato in maniera pragmatica da chi si sveglia un giorno, semplifica e appiattisce secoli di riflessioni magari in nome del problem solving, e ci rivende una “nuova” e moderna tecnica rivoluzionaria che si esprime con “intraducibili” termini in inglese che noi, nel nostro piccolo servilismo, ripetiamo, insegniamo e diffondiamo nelle nuove scuole coloniali senza più alcuno spirito critico. È lo storty-telling di chi ha smarrito la propria cultura e le proprie radici e si fa fagocitare compiaciuto in un processo cannibale, innanzitutto culturale, e quindi anche linguistico.

PS

Buon Natale e buone feste a tutti. E a coloro che – forse credendo di essere internazionali – inviano gli auguri con formule come Merry Christmas, Happy Holidays e simili americanate destinate ai colleghi italiani o alle vecchie zie, vorrei ricordare che non siete solo ridicoli e patetici, siete dannosi collaborazionisti del globalese che sta uccidendo la nostra lingua e cultura.

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15 pensieri su “Interferenze dell’inglese: narrativa, narrazione, retorica e storytelling

  1. Ieri si sono conclusi i Mondiali. Avendo il “privilegio” di poter alternare tv inglese e italiana, mi sono (un po’) divertito a vedere se le abbondanti informazioni erano tradotte in italiano (finalmente. sì! Anche a riprova che non ci sono ostacoli tecnici per questo) e in che modo. E ho anche pensato che, per il calcio, siamo credo gli unici al mondo, con gli statunitensi, a non chiamarlo football o futbòl. Non solo, ma la maggior parte (credo) della terminologia si discosta dall’inglese. Ad es., mentre per gli anglofoni al 45° inizia il “tempo aggiutivo”, per noi è il “tempo di recupero” che, giustamente, recupera il tempo non giocato. Tutto questo per dire che, in questo caso, non ci vergogniamo (giustamente) di aver chiamato uno sport “calcio” (anche se volgarmente si gioca a “pallone”), ma che la parola “football” ci rimbalza, anche se sta dappertutto.
    Sarà perché il calcio è arrivato in un’altra epoca? Lo si dovrebbe fare anche per altri sport come, per es. il curling, dove si usa la “broom”. Non vuoi dire “scopa”? Basterebbe dire “spazzola” perché di quello si tratta, ma pazienza, era giusto per fare esempi sportivi.

    Ti faccio i miei auguri con un noto ideogramma (ultima frontiera, secondo me): Buon Xmas.

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    • L’italianizzazione del lessico calcistico è la quasi sola eredità dell’italianizzazione del fascismo che ha parzialmente funzionato. Non seguo il calcio (in francese football ma pronuniciato alla francese: futbòl) e nemmeno i mondiali, anche se scanalando (= facendo zapping) mi sono imbattuto nei telecronisti che parlavano di extra-time, e mi pare che la terminologia alterni inglese e italiano in espressioni come corner, nel riutilizzo di penality sostituito nel ventennio da rigore… e più in generale nello sport l’anglicizzazione avanza, tanto che la pallacanestro che nella sua storia della lingua italiana Migliorini considerava “definitivamente” affermata al posto dell’inglese oggi è quasi solo basket (pseudoanglicismo decurtato). Quindi sì, l’italianizazione appartiene a un’altra epoca, direi, e mi pare che il linguaggio sportivo, con la scusa di essere internazionale, sia uno dei terreni più anglicizzati, anche se è un ambito marginale. Ma non sono sul pezzo, come si suol dire, anche se noto che i nuovi sport sono tutti in inglese.

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      • In effetti io ho “controllato” solo le sovrimpressioni. Corner già convive con “calcio d’angolo” da tempo, ma è verissimo che l’inglese avanza. Come gli “highlights” che sul sito della Fifa, manco a dirlo sono trascritti così solo in una lingua diversa dall’inglese. Le altre dicono i “momenti salienti” e simili. Ma una volta, si diceva, mi pare, “le azioni” (perché mica fai vedere i tempi morti) o la “sintesi”. Ma pazienza, dopo tutto, il calcio è solo un gioco e l’egiziano per il buon Nando era Arabo.

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  2. Caro Zoppetti, anche questa volta sottoscrivo al 100%.
    Forse però io sono più “talebano” di te perché alcuni adattamenti proprio non li sopporto: ad esempio “finalizzare” invece di “completare”, “schedulare” invece di “programmare”, “bannare” invece di “bandire”, “eleggibile” anziché “ammissibile” o “idoneo” e (novità recente nell’ambito della responsabilità sociale aziendale) “materialità” anziché “priorità”o “rilevanza”.
    Comunque hai ragione: con questi adattamenti dobbiamo convivere, la cosa insopportabile sono i troppi anglicismi crudi.
    Buon Natale e buon anno a tutti!
    N.B.: A scanso di equivoci: “tutti” = maschile plurale grammaticale “non marcato” 🙂

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    • Neanche io li sopporto, ma un conto è l’idiosincrasia e un altro è la loro capacità di distruggere il tessuto linguistico ospitante. Un italiano futuro fatto solo di bannare e finalizzare, anche se non ci piace, resterebbe comunque italiano, mente screenare (a parte il bello o brutto) è un ibrido che porta all’itanglese.

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  3. Per verbi come “implementare” e “performare”, sebbene inizialmente vi sia un’iniziale reticenza sono pur sempre verbi da basi latine, quindi si sposano perfettamente con l’italiano. Quel che non condivido è la risemantizzazione di buona parte del lessico su modello dell’inglese, come “basico” per “basilare”, o “processare” per “trattare/trasformare/elaborare”. Arriveremo a chiamare parenti i genitori di questo passo ? Penso che vi si debba porre un limite a ciò. Per quanto riguarda gli anglismi non adattati, quelli di cui ci si dovrebbe preoccupare realmente, non posso che essere d’accordo. Auguro buone feste a tutta la comunità degli Attivisti dell’Italiano, sperando che l’anno prossimo si consegua qualcosa per la tutela dell’Italiano.

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  4. Un amico mi ha recentemente fatto dono di un costoso panettone artigianale.All’interno della confezione un biglietto recitava così: “il nostro panettone è davvero speciale perché è made with love. I migliori auguri di buone feste dalla pasticceria Xxxx& Xxxx e da tutto il nostro staff !!!”Qui l’inglese c’entra proprio come i cavoli a merenda:perché non dire “fatto con amore” e “da tutto il nostro personale”?Per la cronaca,il panettone era ottimo,ma mi è risultato un po’ indigesto. Buon proseguimento di feste a tutti.

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