di Antonio Zoppetti
La scorsa settimana è uscito sulla Stampa un pezzo di Mattia Feltri (“Vento nel vento”, 7/12/22; un grazie a Marco Zomer che me l’ha segnalato) che ben riassume tutta la pochezza e gli stereotipi in circolazione sulla questione degli anglicismi che permeano la mentalità dei giornalisti, ma più in generale della nostra classe dirigente.
È interessante perché le “analisi” – se così si possono chiamare – sull’argomento non costituiscono il tema centrale dell’articolo, ma servono al giornalista per esemplificare tutt’altro, e cioè l’ineluttabilità del passaggio dai pagamenti in contanti a quelli digitali. La tesi è che chi difende i contanti ricorda i “puristi” che si oppongono agli anglicismi, una posizione meritoria ma destinata a perdere, perché il “destino dell’italiano” è segnato come quello della moneta.

Lo spessore dell’articolo evoca quello dei temini di un liceale, e non varrebbe nemmeno la pena di replicare se non fosse stato pubblicato su un autorevole giornale e se non fosse l’emblema di una mentalità distorta da combattere proprio perché diffusa.
Il problema degli anglicismi è ridotto a una questione di “purismo”, e gli esempi riportati di condanna da parte di “meritorie istituzioni a tutela della lingua di Dante” sono che “non si dice team, si dice squadra; non si dice meeting, si dice riunione; non si dice spoilerare, si dice svelare il finale.” Mattia Feltri sembra vivere in un’altra epoca o in un altro mondo. Viene da chiedersi quali siano le “meritorie istituzioni” a cui si riferisce, declinate al plurale. La Crusca? Perché non ne vedo altre, visto che le istituzioni sono in prima linea nella diffusione degli anglicismi, dalla nostra classe politica al Ministero dell’istruzione. Chissà se il giornalista ha mai letto uno dei ventuno comunicati del “gruppo Incipit” della Crusca (21 a fronte di circa 4.000 anglicismi annoverati nei dizionari), volti ad arginare gli anglicismi incipienti e istituzionali (come da programma che si evince dal nome scelto) e non certo a condannare parole ottocentesche come meeting, né tantomeno voci come spoilerare. Le “meritorie istituzioni” che vivono solo nella testa di Feltri fanno parte di una “Crusca immaginaria” e di un “purismo” che esisteva trecento anni fa, o forse negli elenchi dei sostitutivi ai forestierismi stilati dalla Reale Accademia Italiana in epoca fascista. Altrettanto avulsa dalla realtà è l’immagine stereotipata di un’interferenza dell’inglese ridotta a qualche anglicismo ormai acclimatato o marginale (spoilerare oltretutto si può considerare un adattamento che non viola il nostro sistema ortografico e morfologico). Ma davanti all’attuale tsunami anglicus che travolge ogni lingua del mondo, quello che colpisce è la superficialità della visione della lingua sottostante a queste speculazioni. Nella stucchevole concezione distorta dell’italiano, la lingua sarebbe un fenomeno “democratico” che si impone “dal basso a dispetto dei sacerdoti dall’alto, come il volgare si impose sul latino.” Una ricostruzione storica che non sta né in cielo né in terra, visto che la nascita dell’italiano unitario è una conquista del Novecento, e per secoli la gente ha parlato nei propri volgari (al plurale) regionali, mentre il “volgare del sì” è stato una lingua letteraria e artificiale che viveva solo nelle pagine dei libri e che è stato normato soprattutto proprio dal purismo. E, successivamente, l’unificazione dell’italiano è stata una conquista orientata dai programmi scolastici, dall’uso istituzionale-amministrativo, dai giornali, dai mezzi di informazione e di intrattenimento dell’epoca del sonoro… i centri di irradiazione della lingua che oggi invece diffondono e impongono l’itanglese.
Il prezzo che abbiamo pagato per l’affermazione dell’italiano unitario – orientato dall’alto – è stato l’abbandono dei dialetti che in qualche caso sono addirittura scomparsi.
Non se ne può più di questo patetico mito della lingua come processo che nascerebbe dal basso, come se per imparare e padroneggiare l’italiano non fosse necessario andare a scuola. Quanto agli anglicismi, il problema è che non sono affatto un fenomeno che arriva dal basso, l’itanglese è in gran parte il frutto delle scelte linguistiche dei giornalisti – i nuovi sacerdoti dall’alto – che hanno abbandonato le regole virtuose della comunicazione trasparente per riempire i giornali di espressioni come lockdown, green pass, gaslighting, price cap e una neolingua che si impone alla gente in nome di una strategia compulsiva per cui ogni cosa si riscrive in inglese, in un abbandono dell’italiano che non solo non si sa rinnovare creando i propri neologismi, ma finisce per dismettere le nostre parole storiche anche quando ci sono perché il passaggio all’itanglese risulta maggiormente connotativo.
Parole come smartphone e streaming non sono un processo che arriva dalla lingua dei “nostri figli”, arriva dal linguaggio (dall’alto) dettato dall’espansione delle multinazionali d’oltreoceano di cui i giornali sono la principale cassa di risonanza; e se il “destino dell’italiano è segnato” e siamo davanti all’ineluttabile anglicizzazione e allo sfaldamento della nostra lingua che ricorda quello del tardo latino medievale, la responsabilità di questo linguicidio è da attribuire a quelli che ragionano come Feltri. È soprattutto la lingua dei giornali che “costringe” i vocabolari a riempirsi di parole inglesi. Ma ciò che getta nello sconforto più di ogni altra cosa è il paragone tra la lingua e il contante.
L’abbandono del denaro contante e dell’italiano sono due cose dalle conseguenze ben diverse, e non comprenderlo è inqualificabile. “La nostra lingua – per citare Annamaria Testa – è un bene comune. È un patrimonio di cultura, di bellezza, di storia e di storie, di idee e di parole che appartiene a tutti noi, che vale, che ci identifica come individui, come cittadini e come Paese. Dovremmo averne cura.”
La tutela dell’italiano non è una battaglia di retroguardia, come troppo spesso si sente dire dagli anglomani dalla mente colonizzata e collaborazionisti dell’inglese. Non ha nemmeno niente a che fare con il purismo, l’anglicizzazione è un fenomeno che sta travolgendo e snaturando il nostro ecosistema linguistico e che ci sta conducendo alla perdita della nostra identità storica per creolizzarci.
Se le balene rischiano l’estinzione, se la dissennata deforestazione frutto delle dissennate politiche energetiche sta portando a un cambiamento climatico sempre più distruttivo, non si può alzare le spalle e trincerarsi davanti all’ineluttabile modernizzazione. Bisogna cambiare visione, bisogna mettere in campo un’altra idea di sviluppo e di modernità che sia più sostenibile. Il globalese è una minaccia per le lingue e le culture locali che vanno tutelate, protette e difese. Ciò ha a che fare con il problema della salvaguardia delle minoranze culturali e del plurilinguismo. Davanti al rischio di estinzione della cartamoneta la questione si può liquidare con un bel “chissenefrega”, ma davanti all’anglicizzazione, un fenomeno globale che impoverisce e uccide la ricchezza e la diversità linguistica del pianeta intero, ci vorrebbero delle riflessioni più serie di quelle di Feltri. Se la nostra intellighenzia è fatta da questi “pensatori” siamo davvero fritti.
Giustamente si dice a nuora -Mattia Feltri- perché suocera -i poveri lettori- intenda… perché, Caro Zoppetti, codesti giornalisti sono catafratti nelle loro certezze di colonizzati volontari e di collaborazionisti delle multinazionali. e lo sforzo di chiarezza e le più che plausibili argomentazioni addotte a tutela della nostra coscienza culturale sono per costoro come i semi che cadono in un pietreto. Come che sia, complimenti per la tenacia, la passione, la capacità argomentativa!
Giancarlo Rossi
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Sbaglio o Mattia Feltri era lo stesso che, due anni fa, satirizzava la tendenza del linguaggio “inclusivo” (basato sullo scevà) ?
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Sì, è il direttore dell’Huffpost, che continua a sostenere la democraticità della lingua, e scriveva: “L’anglicismo, o direttamente l’inglese, è un’evoluzione spontanea, popolare, inevitabile della lingua; lo schwa assomiglia a un tentativo di imposizione minoritaria con implicazioni morali. Spoilerare è democratico, schwa è oligarchico”. Mi piacerebbe sapere cos’ha di democratico l’imposizione dell’inglese — e l’abbadono dell’italiano — ai cittadini da parte di giornali e istituzioni. Scevà e anglicismi sono entrambi tentativi di cambiare l’uso in modo elitario, e non è un caso che la pronuncia dello scevà sia un suono inglese, è da lì che viene tutto. Ma a sconcertare è l’accostamento tra pagamento virtuale e lingua, come se parlare inglese, italiano o intanglese fosse un particolare accidentale, un vestito che si può benissimo dismettere quando cambia la moda che non ha a che fare con la nostra identità, con il nostro modo di pensare e di essere…
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E poi Antonio ti passo pure questo articolo di Panorama sulla “crisi dell’italiano” spiegato da Marazzini della Crusca: https://www.panorama.it/news/cronaca/crisi-italiano-scuola-libri-lettura-accademia-crusca?fbclid=IwAR2riS6sVhx-7NnglbjDcB9-wpNnPBo8zcREvdsD2Pc7Cx1oRYk-D_KupZ8
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Affermare compiaciuto, da italiano, che il destino della propria lingua sia segnato, è veramente un abominio e fa davvero sospettare (come del resto affermi tu) che ci sia una strategia di imposizione a monte (dall’alto, appunto). Siamo fritti? Sì, anche per la diffusione di tutti questi figli di papà. Oltre tutto, i “custodi del contante” (altra categoria immaginaria) sarebbero ben lieti di usare di più i pagamenti digitali, se le banche italiane la smettessero di far pagare commissioni sui bonifici, abbonamenti alle carte di credito e via sfruttando, come dei parassiti quali sono. Senza tutti questi balzelli, l’economia ne gioverebbe.
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La strategia di imposizione dell’inglese arriva dall’esterno, e farlo diventare la lingua internazionale (spacciata per ineluttabile) conviene ai paesi anglofoni (è un giro d’affari incalcolabile) per motivi non solo economici, ma anche di imposizione dei propri valori e cultura, attraverso la lingua. Il problema è una classe dirigente zerbinata che nemmeno capisce la questione, e agevola dall’interno questo processo distruttivo e di annientamento della nostra storia con compiaciuto e orgoglioso servilismo. E così per loro non c’è problema non c’è problema se parleremo tutti la lingua superiore dei popoli superiori, di cui gli anglicsmi sono solo l’effetto collaterale.
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Sarebbe interessante se Mattia Feltri rispondesse qui
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Ne dubito. 🙂
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Il decervellamento ,caro Zoppaz, mi pare ormai totale e irreversibile: nel mese di novembre abbiamo assistito a un florilegio di “black friday”, “black days” e persino a un “blue saturday”( probabilmente “blue”,che ha anche il significato di “triste” ,e non solo di “azzurro”, per far coppia col “black friday”). Più recentemente (di solito ascolto musica alla radio,mentre mi reco al lavoro , e le interruzioni pubblicitarie sono frequenti) ho sentito annunci pubblicitari infarciti di “yes ,we can” e “too much ”.In mezzo a questo sfacelo , in una rivista distribuita gratuitamente in un supermercato, ho notato la pubblicità di una nota birra italiana che annunciava il recente cambio dell’etichetta e recitava così:”nuova immagine ,stesso gusto unico di sempre”.Quindi si può fare a meno dell’ onnipresente ,inutile e cacofonica paroletta inglese “look”?Evidentemente solo uno su mille ce la fa!
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Il punto davanti allo scempio, culturale prima che linguistico, è: vogliamo prenderne atto e provare a fare qualcosa? Altrimenti l’irreversibilità è davvero tale, e allora preferisco un ragionamento alla Feltri che dà per scontata la fine dell’italiano — ineluttabile — rispetto a quanti continuano a negare e ci spiegamo che “è tutta un’illusione ottica”, o che è tutto normale perché tanto le ingue evolvono e altre belle lungimiranti simili considerazioni.
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