Le 3000 firme della petizione a Mattarella

Continuo le mie riflessioni sui perché della petizione a Mattarella, #litalianoviva, che conta ormai 3.000 firme. Provo anche a rispondere ad alcune delle critiche basate sulle sciocchezze e sui luoghi comuni di chi non ha studiato e compreso il problema, né tanto meno lo spirito dell’iniziativa.

La nuova questione della lingua

Non se ne può più di sentir dire che è normale che le lingue evolvano o che il francese e tantissimi altri idiomi hanno influenzato l’italiano sin dai tempi di Dante. Queste sono banalità che non si possono che dare per scontate; bisognerebbe essere un po’ più seri e studiare come la nostra lingua si sta evolvendo.

È semplicemente una questione di numeri: dal secondo dopoguerra a oggi – nell’arco di una sola generazione – gli anglicismi sono almeno quintuplicati. Hanno colonizzato i centri di irradiazione della lingua (il lavoro, la scienza, la stampa, l’informatica, l’economia…), si riversano nel linguaggio comune, aumentano di frequenza, penetrano nel lessico di base e, soprattutto, tutto ciò che è nuovo viene sempre più introdotto in inglese crudo, con il risultato che il 50% dei neologismi del nuovo Millennio è costituito da anglicismi. Il punto non è gridare alla morte dell’italiano per becero allarmismo, è constatare che di fatto è già morto, nel senso che ha cessato di evolvere per via endogena, e che registra una regressione davanti all’inglese anche quando esistono parole italiane che finiscono per essere dimenticate o diventare obsolete davanti ai “prestiti sterminatori”. Gli anglicismi non sono perciò una ricchezza, ma al contrario segnano l’impoverimento e la morte del nostro lessico. La loro penetrazione avviene in modo crudo, senza adattamenti, e dunque sta snaturando la nostra identità linguistica, che non è un concetto filosofico e astratto, ma una cosa molto semplice e concreta: nella maggior parte dei casi gli anglicismi costituiscono dei “corpi estranei” che violano le regole dell’ortografia e della pronuncia dell’italiano. Non c’è alcun problema ad accogliere forestierismi non adattati, se sono contenuti in una percentuale fisiologia, è un fenomeno normale che si riscontra in ogni lingua. Ma quando questa percentuale cresce a dismisura, supera nel giro di 70 anni quella di una lingua come il francese che ha una storia di substrati plurisecolari, quando la somma di tutti i forestierismi di ogni lingua del mondo non arriva alla metà degli anglicismi che abbiamo importato in un lasso di tempo così breve, e che usiamo così spesso, c’è un problema oggettivo. Non siamo più di fronte a un fenomeno normale, ma a una creolizzazione lessicale che stravolge la nostra lingua storica. Questi sono fatti. Ogni critica ne deve tenere conto.

Allora la questione, e il terreno del dibattito, è un altra. Dobbiamo chiederci quale italiano vogliamo. Crediamo che la modernità si esprima con l’inglese e vogliamo che la percentuale di anglicismi della nostra lingua diventi in ogni ambito quella del linguaggio del lavoro o dell’informatica?

Bene lo si dica chiaramente, invece di giocare a fare i negazionisti.

Questa idea dell’italiano, però, per me coincide con l’itanglese, e mi vede dall’altra parte della barricata a combattere quello che considero non un segno di modernità, ma il depauramento del nostro patrimonio culturale. Ciò è tutto il contrario del purismo, ostile da sempre ai neologismi. Viceversa, c’è da auspicare un italiano che si sappia evolvere per via endogena, creando le proprie parole e i propri neologismi, invece che importarli dall’inglese.

Chi ha un’altra idea dell’italiano getti la maschera, si schieri dall’altra parte, e difenda l’itanglese senza fare l’ipocrita. I nuovi puristi del Duemila, quelli che vogliono ingessare l’italiano nella sua forma storica senza farlo evolvere perché tutto ciò che è nuovo si dice in inglese, sono gli anglomani. Sono loro – li chiamo anglopuristi – che vogliono trasformare l’italiano nella “lingua dei morti”.

Questa è la nuova “questione della lingua”. Sarebbe ora di dirlo chiaramente.

Non si tratta di fare la guerra ai singoli anglicismi, si tratta di prendere posizione, e di spezzare la strategia comunicativa che spinge a importare l’inglese crudo senza alternative. Il problema non è linguistico, è culturale. Gli anglicismi non sono “prestiti”, con queste sciocche categorie obsolete non si può rendere conto dell’attuale fenomeno dell’interferenza dell’inglese. Quando il confinamento diventa lockdown, il lavoro da casa smart working, quando si coniano all’inglese espressioni come covid hospital, invece che ospedali covid, e si parla di covid pass, covid free, covid manager, covid like, covid test… il problema non è in questi trapianti e in queste ricombinazioni ridicole prese singolarmente; il punto è che abbiamo perso la volontà di parlare in italiano e siamo passati a una strategia compulsiva (la strategia degli Etruschi) che consiste nella scelta di parlare in itanglese.

Una questione politica, non linguistica

Oggi la nostra classe dirigente – dai mezzi di informazione alla politica, dalla scienza al mondo del lavoro – ha scelto l’itanglese, e in questo modo lo diffonde e lo impone a tutti. Per spezzare questa strategia occorre una rivoluzione culturale e politica. Nello scorso articolo ho mostrato perché non è certo alla Crusca che ci si può rivolgere per cambiare le cose. L’Accademia non ha né il potere né la missione di regolamentare la nostra lingua. Solo la politica potrebbe forse investirla di questo mandato, come avviene per le accademie spagnole e francesi. Lì si creano alternative agli anglicismi e la popolazione è libera di scegliere come parlare. Alcune proposte sono accolte ed entrano nell’uso, altre non vengono invece recepite, ma il risultato è che l’anglicizzazione di queste lingue non è minimamente paragonabile alla nostra. Ognuno è libero di usare il lessico che preferisce, ma la libertà sta nello scegliere, se mancano le alternative cade la scelta, e l’inglese diventa un automatismo senza altre possibilità, diventa la tirannia della minoranza che controlla i centri di irradiazione della lingua e che la impone a tutti.

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Le “reti sociali” o i “fondi di recupero” su Correre, El País e Le monde. Da noi sono anglicismi (i “gruppi tech” in spagnolo sono “grandes tecnologicas”, e persino gli Usa sono detti secondo l’ordine della loro lingua: EEUU).

La petizione per eliminare gli anglicismi almeno dal linguaggio istituzionale – una cosa che in Francia è espressamente vietata dalla legge, ma che non verrebbe nemmeno in mente ad alcun politico, come del resto in Spagna – va rivolta alla nostra classe politica. Ma rivolgersi al parlamento avrebbe senso?

Non mi pare.

Non dimentichiamo che i nostri politici son proprio coloro che contribuiscono a uccidere la nostra lingua storica. Se il politichese, sino a tutto il Novecento, era caratterizzato da formule ampollose, astruse o burocratiche, nel nuovo Millennio è diventato itanglese. Dal jobs act al navigator, il lavoro è job, le tasse sono tax, le leggi act, l’economia è economy, i fondi per la ripresa sono introdotti in inglese, recovery fund, e qualcuno parla di un recovery plan per la pandemia. Gli anglicismi politici registrano un aumento preoccupante: quantitative easing, voluntary disclousure, caregiver, stepchild adoption, spending review, spoils system, devolution e deregulation, election day e family day… E in questo linguaggio fatto di establishment, governance, leadership, impeachment, question time, moral suasion, premiership… ci sono anche figure istituzionali come il garante della privacy, o il ministro del welfare, alla faccia della salute del nostro lessico. I giornali rilanciano e amplificano questo vocabolario politicamente scrorrect, mentre si parla sempre più di premier al posto di presidente del consiglio come è scritto nella nostra Costituzione, o di governatori invece che presidenti delle regioni perché si vuol fare gli americani, anche se il nostro sistema non è federalista.

In questo contesto appare poco proficua una petizione rivolta ai politici. Senza scadere nel qualunquismo, bisogna ricordare che negli ultimi anni sono state presentate innumerevoli proposte di legge o di istituzione di un Csli (Consiglio Superiore della Lingua Italiana) che sono sempre rimaste nei cassetti, per riemergere ciclicamente senza che nulla di concreto sia mai stato fatto.

Nel 2012, una petizione dell’Era propose di dire in italiano “question time” e ricevette consensi da ogni parte politica, ma l’iniziativa lodata da tanti solo a parole, non ebbe nei fatti alcun seguito (in Svizzera si dice invece l’ora delle domande, in parlamento e sui giornali).

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“L’ora delle domande” sul Corriere del Ticino.

Nel 2018, Giulia Bongiorno, ministra della pubblica amministrazione del Governo Conte, scriveva:

“Nei primi giorni da Ministro mi sono stati sottoposti alcuni fascicoli – definiti dossier – dai quali emergeva che i problemi più urgenti da affrontare erano:
1) il blocco del turnover;
2) l’inadeguata valutazione della performance dei dirigenti;
3) il digital divide;
4) la scarsa applicazione (…) dello smart working;
4) l’uso improprio del badge per entrare nel luogo di lavoro.
Per affrontarli avrei dovuto partecipare a numerosi meeting; inoltre, mi si rendeva noto che il budget a mia disposizione era – purtroppo – limitato.
Amo l’inglese (…) Eppure credo sia sbagliato, e fuorviante, accettare questa sostituzione della lingua italiana; parlo di sostituzione perché l’uso reiterato delle parole inglesi fa sì che a volte il corrispettivo italiano si perda. Dunque dico basta, con forza, a questo ibrido che forse vorrebbe far sembrare l’italiano più moderno, ma in realtà lo sta svilendo.”

(Lettera aperta del 19 dicembre 2018 per denunciare l’abuso dell’inglese nel linguaggio amministrativo).

Che cosa è accaduto, da allora, è sotto gli occhi di tutti.

Anche le iniziative come Europarole del Dipartimento delle politiche europee, avviata nel 2018, che doveva tradurre gli anglicismi che circolano nell’ambito dell’Unione Europea si è rivelato un progetto vuoto, e da allora ha raccolto solo 37 parole!
Visto che le istituzioni non lo fanno – da quelle politiche alla Crusca – il più grande repertorio esistente nel nostro Paese è il Dizionario delle Alternative Agli Anglicismi (AAA), che ne ha raccolti ormai 3.700, e nasce da un’iniziativa privata senza alcun finanziamento.

Da queste considerazioni è nata la decisione di rivolgere la petizione non alla politica, ma al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la massima carica dello Stato.

C’è chi ha storto il naso davanti all’opportunità di rivolgersi a lui in questo frangente in cui l’Italia versa in ben altri e più gravi problemi. Eppure il lievitare degli anglicismi ha raggiunto picchi inediti proprio durante la pandemia e, soprattutto, le nostre richieste sono davvero facili, e non costano nulla. Non abbiamo invocato leggi come quelle che ci sono in Francia, né domandato di attuare ciò che la politica ha più volte presentato senza che mai si sia realizzato.
Le richieste consistono, semplicemente, in una supplica, perché il capo dello Stato attui un simbolico richiamo alla politica di non utilizzare anglicismi almeno nel linguaggio istituzionale, per il rispetto, oltre che per la trasparenza, che le istituzioni dovrebbero avere nei confronti dei cittadini italiani e del nostro patrimonio linguistico (non dimentichiamocene, quando saremo chiamati alle urne!).
La seconda richiesta è di favorire una campagna di sensibilizzazione contro l’abuso dell’inglese. Anche questa preghiera non ci pare gravosa, e soprattutto non comporta alcuna spesa, visto che gli spazi delle pubblicità progresso sono già previsti. E come si fanno e si sono fatte contro il bullismo o contro la violenza delle donne, potrebbero farsi anche per promuovere la nostra lingua, di cui non è il caso di vergognarsi.

Crediamo che questa petizione chieda qualcosa che dovrebbe essere dato per scontato, qualcosa che nasce semplicemente dal buon senso e che dovrebbe appartenere a tutti. E facciamo fatica a comprendere come si possa non condividere questo appello.

Eppure, se la petizione #dilloinitaliano di cinque anni fa fu ripresa da tutta la stampa, oggi invece non c’è un solo giornale a tiratura nazionale che ne abbia accennato nemmeno con una sola riga. Le 3.000 firme raccolte nascono solo dal passaparola in Rete e tra la gente, mentre i mezzi di informazione e le istituzioni che dovrebbero occuparsi della nostra lingua in modo ufficiale lo hanno ignorato. Al contrario di quanto hanno fatto invece persone di primo piano della cultura nazionale e internazionale.

 

I firmatari e gli amici dell’italiano

Sin dai primi giorni, la notizia della petizione #litalianoviva è stata ripresa e diffusa dall’Istituto Italiano di Cultura di Lima, che l’ha rilanciata dalle sue pagine Facebook, oppure dal sito Corsica Oggi. In Svizzera è stata segnalata dal Forum per l’italiano in Svizzera, e dalla Rivista.ch. E così la notizia si è sparsa per il mondo, tra i firmatari ci sono italofoni tedeschi, dall’università di Barcellona ha firmato un’importantissima profesora emerita di Filologia Italiana, dall’Australia ha firmato la traduttrice Barbara McGilvray, vincitrice di una medaglia dell’Ordine d’Australia dell’Australia Day, per i suoi meriti nel tradurre in italiano. Voglio riportare qualche battuta tratta da un’intervista che rilasciò in quell’occasione:

Barbara McGilvray
Barbara McGilvray.

– Hai notato delle differenze nell’evoluzione della lingua italiana da quegli anni ’60 in cui eri a Roma all’italiano che si parla oggi? Magari il fatto che oggi sia infarcito di parole inglesi? Una volta non era così…
Io cerco di evitare e parole inglesi in italiano anzi sono iscritta a due o tre gruppi di traduttori in Italia, gruppi virtuali, sull’Internet e lottiamo tutti per evitare di usare neologismi inglesi, preferisco evitarli. (…) Spending review mi fa una rabbia (RIDE), ci sono espressioni perfettamente adeguate in italiano, perché usare quelle inglesi? Non lo so…

– O il jobs act…
Jobs act… un altro, no, no… non ne parliamo…

– La nostra rubrica si chiama La lingua più bella del mondo, sei d’accordo con il nome che abbiamo dato a questo segmento?
Assolutamente! Come no?

Se volte sentire queste parole dal suo delizioso accento anglofono, lo potete fare qui (al min, 4,30 circa).

Tra i tanti che hanno firmato e che mi hanno scritto dall’estero ci sono italofoni dall’Argentina, dal Canada, dalla Francia, e anche dal Regno Unito e dagli Stati Uniti.

Possibile che all’estero ci sia un’attenzione per l’italiano superiore alla nostra?

Evidentemente sì.

Ma non è del tutto esatto. Non bisogna confondere il silenzio stampa e delle istituzioni che si registra in Italia con il sentimento degli italiani. L’indifferenza mediatica non corrisponde alla sensibilità di tante persone di ogni fascia sociale (infermieri, medici, farmacisti, parrucchieri, avvocati, imprenditori, formatori, studenti, insegnanti, mamme, agenti immobiliari… c’è anche un suora). E tra i firmatari ci sono poi diversi politici che appartengono a ogni schieramento: da Potere al popolo e Sinistra alternativa passando per il Pd, i 5 stelle, la Lega, sino a Forza Italia, Fratelli d’Italia e alla destra. Ma soprattutto mi ha colpito la presenza di molti personaggi di spicco della cultura del nostro Paese. Non sempre mi è stato possibile verificare se certi nomi sono davvero illustri o se si tratta di omonimi, e non so se Elena Ferrante è veramente lei o se Paolo Repetti è davvero il fondatore e il direttore della collana Stile Libero di Einaudi. So però di certo che hanno firmato professori universitari o accademici come lo psicologo Fulvio Scaparro, il filosofo Fulvio Papi, scrittori come Elisabetta Bucciarelli (vincitrice del premio Scerbanenco) o come la docente Laura Margherita Volante, traduttori di primo piano come la poetessa Claudia Azzola direttrice della rivista TraduzioneTradizione, giornalisti come Alberto Giovanni Biuso, intellettuali che gravitano intorno alla rivista Odissea diretta da Angelo Gaccione, come il medico Teodosio De Bonis (“Ho deciso di iscrivermi ad un corso di lingua straniera: mi è stato consigliato l’Italiano”), lo scrittore Oliviero Arzuffi, i poeti Antonella Doria, Gabriella Galzio e Nicolino Longo… e una lunga lista di donne e uomini che fanno comprendere che esiste un’altra idea di lingua e di cultura, oltre a quella dominante. E che a opporsi all’insensato ricorso all’abuso dell’inglese siamo in tanti.

Per aiutarci a diffondere la nostra iniziativa, visto che i giornali non lo fanno, passa parola, per favore!

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15 pensieri su “Le 3000 firme della petizione a Mattarella

    • La frase di Teodosio De Bonis (“Ho deciso di iscrivermi a un corso di lingua straniera: mi è stato consigliato l’Italiano”) è spettacolare! 🙂 Nella mia lista dei firmatari ho dimenticato di citare gli esperti di musica, perdonami, ma è un elenco davvero troppo ampio.

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    • Non serve un buon corso di lingua italiana…bisogna solo far loro capire che l’Inglese si parla nel Regno Unito, (dove molti Irlandesi, Scozzesi e Gallesi non tanto la parlano tanto volentieri); negli USA, Canada, Australia, NZ, Sud Afr, e in tanti territori del Commonwealth, ecc..In questi territori i loro cittadini tendono a parlarla abbastanza bene, non c’è bisogno che gli italiani tentino di imitarla, storpiandola poi. Nella Repubblica Italiana e nell’ambito del suo territorio la lingua ufficiale per comunicare è ancora solo l’Italiano. Quindi, basta consultare un qualsiasi dizionario della lingua italiana, alla voce “italiano”. Se poi si è internet dipendenti va bene anche ‘lingua italiana’ wikipedia. Credo sia sufficiente per far capire a molti che spesso essi, gli italiani, parlano un non-italiano.Io l’ho appellato ENGLITALISH, una lingua né carne né pesce. A proposito il mio sito è inglesismiplus.wordpress.com

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  1. Dopo aver bacchettato la Rizzoli, ora mi tocca rimproverare la Adelphi. Leggendo un suo recente saggio trovo che l’autore descrive la donna che tentò di uccidere Andy Warhol come «ex sex worker», e per fortuna ha usato il corsivo a sottolineare che non è un’espressione italiana, al contrario della Rizzoli.
    Ero lì che rileggevo la frase: va be’, ’sta tizia era una “lavoratrice del sesso”, ma che vuol dire? Può essere tutto o niente. Poi mi è venuta in mente la serie britannica di Netflix “After Life”, di Ricky Gervais, e mi sono ricordato che il protagonista indica una donna e la chiama «prostituta» (prostitute), al che lei risentita ci tiene a specificare: «Non è “prostituta”, è “professionista del sesso”» (less of the prostitute: I’m a sex worker).
    Ora che ho capito che la donna che tentò di uccidere Warhol era una ex prostituta, mi chiedo: perché i traduttori Netflix sono stati molto più accorti (e italiani) del traduttore di Adelphi? Ad occhio avrei detto che la celebre casa editrice fosse molto più autorevole di una piattaforma di intrattenimento.

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      • La stessa cosa avviene anche nei videogiochi: multigiocatore -> multiplayer, partita/gioco(dipende dal contesto) -> gameplay, giochi social -> giochi sociali???(in spagnolo è stato tradotto con “partidas sociales”), checkpoit -> punto di controllo/punto di salvataggio, etc.

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        • @Lucius Etruscus, “lavoratrice/lavoratore del sesso” si sta ormai affermando, e comprende tra le sue recenti varianti “prostituta/prostituto”. La donna che sparò ad Andy Warhol , considerato il periodo storico, pare abbia lavorato anche come “prostituta”.
          Carla

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          • @ccrivello. Infatti se l’autore l’avesse definita “ex lavoratrice del sesso”, come ha fatto il telefilm citato, non ci sarebbe stato nulla da dire (come “operatore ecologico” per “spazzino” o “monnezzaio”), ma perché usare sex worker? Perché dire in inglese un qualcosa che esiste perfettamente in italiano? Il risultato sarà un triste fenomeno come quello che ha colpito un mio amico: snocciola termini inglesi con gran disinvoltura ma non è più capace di scrivere in italiano, facendo errori e sfondoni da scuola elementare.
            La Mondadori ha traduttori decisamente più bravi, mi sono capitati recentissimi romanzi di fantascienza molto tecnologici in cui la traduttrice ha ridotto allo stretto essenziale l’uso dell’itanglese: è riuscita a dire in perfetto italiano ciò che invece un qualsiasi scrittore o giornalista direbbe utilizzando il 70% di termini inglesi.

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  2. [Fuori tema]
    Non ci credo!
    Oggi sono venuto a conoscenza di una disciplina sportiva che non conoscevo: lo “scì orientamento”…

    Ma è possibile che nel terzo millennio in Italia più di questo non si possa fare?
    da ski orienteering a sci orientamento?!?

    Avrebbero dovuto tradurre o “orientamento sugli sci” o “sci d’orientamento” (tipo sci di fondo)

    Se la teoria della deriva dei continenti fosse stata pubblicata in questi anni l’avremmo chiamata ‘continentale deriva’?

    Non mi capacito di questo sputare sulla lingua con cui mangi…

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