Coronavirus, lockdown (e tutto ciò che bisogna sapere su tamponing, disinfetting e mask-down)

All’inizio c’è stato il blocco, l’isolamento, la quarantena cinese di Wuhan. Poi è toccato all’Italia, e il governo ha varato provvedimenti restrittivi per il contenimento, proclamando zone rosse, mentre grandi testate giornalistiche italiane attaccavano il governo che uccideva la nostra economia per qualcosa che era poco più di un’influenza, per poi accusarlo, il giorno dopo, di essere intervenuto troppo tardi. Intanto in Europa aleggiavano i sorrisini tipici di capi di Stato come Macron e Merkel, mentre Trump assumeva posizioni negazioniste e nel Regno Unito qualcuno (Christian Jessen) ha liquidato i nostri blocchi come una scusa per non andare a lavorare e qualcun altro (Boris Johnson) ha pensato bene di non fare nulla, se non anticipare agli inglesi che avrebbero perso i loro cari, ma che si sarebbero salvati grazie all’immunità di gregge. Poi ha cambiato idea, sembra; finirà forse per imparare da noi?

Oggi molti sorrisini si sono trasformati in una smorfia di terrore, la risposta italiana è diventata un modello che tutti gli altri Paesi si apprestano a seguire, una soluzione da studiare, utile per salvare il proprio culo, per imparare quali siano le soluzioni che funzionano e anche quali siano gli errori da evitare. Errori in cui mi pare sia più che comprensibile incorrere davanti a qualcosa di nuovo che ci sta travolgendo come un’onda anomala devastante. L’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato la pandemia e ha elogiato i provvedimenti italiani invitando a seguirli.

Finalmente Trump è corso a farsi un tampone e finalmente adesso entrano in gioco anche gli “americani”, con il loro bel modello sanitario che negli ultimi 20 anni abbiamo cercato di imitare tagliando la sanità di almeno 37 miliardi e riducendo i posti letto del 30%. Grazie a questi provvedimenti ci siamo finalmente avvicinati ai numeri di Paesi avanzati come gli Stati Uniti che hanno ben 2,8 posti letto di terapia intensiva ogni 1.000 abitanti, e del Regno Unito che ne ha 2,5. Purtroppo il coronavirus è arrivato prima che potessimo smantellare altri posti letto, e al momento eravamo sopra questi dati, con il nostro 3,2, mentre in Germania ne hanno ben 8! Sono risorse molto diverse per far fronte all’epidemia, e fanno la differenza, perché da questi numeri dipenderà anche il tasso di mortalità dei contagiati e il punto di collasso dei reciproci sistemi sanitari.

Anche se adesso ci affanniamo a raddoppiare questi numeri con uno sforzo eroico per “dis-americanizzarci” al più presto, la buona notizia è che continueremo a fare gli “americani” almeno linguisticamente.

lockdown
Dal Corriere.it di oggi: lockdown strillato senza virgolette né spiegazioni.

Finalmente sui giornali arrivano le giuste parole, e ora che anche negli Stati Uniti l’emergenza sta esplodendo si può finalmente parlare di lockdown. Se penso che fino a ieri il problema era cinese e italiano ed eravamo qui a parlare ancora di blocchi, isolamenti, persino quarantena… mi vergogno profondamente. Quarantena non è nemmeno una parola italiana! È dialetto veneto, in italiano sarebbe semmai quarantina, e comunque è roba arcaica, che risale addirittura a un periodo di tempo di digiuno (un arcaismo che significa non-food) di Gesù nel deserto. E poi se un tempo questo nome era legato ai 40 giorni di isolamento delle persone e delle merci esotiche che arrivavano via mare, oggi il periodo varia a seconda dei casi e delle malattie, dunque “quarantena” che evoca il numero “40” è assolutamente fuorviante, sarebbe più opportuno usare una terminologia più rigorosa, per esempio quattordicena, nel caso del coronavirus.  Ma non vale la pena di discuterne, tutto si può risolvere passando all’inglese. Meglio un bel lockdown.

Vuoi vedere che questa parola oggi in prima pagina sul Corriere digitale diventerà “la” parola che useremo nel futuro al posto di isolamento, blocco, quarantena? Per non parlare di sinonimi poco rigorosi come, che ne so, segregazione, che evoca quella razziale… mi vengono i brividi al solo pensarci. Lockdown è un protocollo di emergenza che blinda e impedisce di uscire da una determinata area. Non se ne era mai parlato sui giornali, se non ai tempi dell’11 settembre e in pochissime altre occasioni in cui era stato virgolettato. In questi giorni viene sbattuto nei titoloni senza virgolette e senza spiegazioni. Eccolo il nuovo anglicismo, il nuovo tecnicismo, il neologismo che ci serviva! Diffondiamolo. Speriamo che lo usino presto anche i nostri politici, a cominciare dai nostri “governatori” delle regioni, anche se in italiano sarebbero i presidenti, visto che il modello federalista che attinge dal lessico d’oltreoceano non hai mai preso piede. Ma tanto anche il Presidente del consiglio è il premier nel linguaggio giornalistico, e il nostro stato sociale (almeno quel che ne resta) è il welfare.

smartworkingSe è pandemia che si usi il linguaggio internazionale, che si usi l’inglese!
Come nel caso dello smart working. O si scrive tutto attaccato smartworking? La risposta è che è lo stesso, tanto in inglese mica si dice così. Milena Gabanelli – grande giornalista ma allo stesso tempo grande massacratrice della lingua italiana, fomentatrice di anglicismi nella propria comunicazione e nei nomi delle sue trasmissioni, da Report a Data room – ieri ne discuteva con Mentana con la massima disinvoltura, senza troppe alternative, come se fosse la cosa più naturale e comprensibile del mondo. E sul Corriere si scrive tuttoattaccato (certe volte).
Un comune vicino a Bologna, Medicina, da ieri è stato chiuso e blindato dall’esercito perché zona particolarmente contaminata, e tutti i giornali riportano virgolettata la stessa fonte che parla “dell’elevata diffusibilità correlata all’alto burden microbico” di quel paese. Frasi copiaincollate con lo stampino che rimbalzano dall’Ansa a tutti i giornali, senza che qualcuno si prenda la briga di tradurre “burden” con carico o con qualcosa d’altro che serva a spiegare di che cacchio si stia parlando, diffondendo burden come un tecnicismo intraducibile e tecnico.

Tra anglicismi e pseudoanglicismi, adesso che il coronavirus non è più roba da cinesi o da italiani, sarà bene adeguare la nostra terminologia. Siam tutti qui che aspettiamo il picco del virus, abbiamo problemi perché le mascherine di protezione sono finite, non sappiamo come sanificare ciò che viene dall’esterno… Questi problemi li avranno presto anche gli altri Paesi. In attesa che i giornali diffondano la nuova terminologia per queste cose che in italiano cerchiamo di esprimere in modo confuso e con parole nostre, propongo ai mezzi di informazione di giocare di anticipo e di aiutarci nel ridefinire tutto con qualcosa di più sintetico, moderno e anglomane.

Basta con ‘sti picchi, che poi magari qualcuno pensa agli uccellini, cerchiamo di darci un tono scientifico e rigoroso e di creare una parola per ogni cosa! Vogliamo parlare, che ne so… del pick-down? Si ha quando un trend (positivo o negativo) raggiunge il culmine e poi discende. E vediamo come risolvere anche il problema del mask-down, una buona volta (la carenza di mascherine), varando qualche provvedimento per lo smart-mask, la produzione italiana intelligente di mascherine, di cui un tempo eravamo ottimi fabbricatori, prima che tutto fosse esternalizzato – scusate: dato in outsourcing – per esigenze produttive funzionali alla logica della globalizzazione e del risparmio. Per non parlare del tamponing. È giusto fare i tamponi a tutti, asintomatici compresi? Da un punto di vista epidemiologico ci aiuterebbe a  capire meglio la diffusione del virus, ma dal punto di vista diagnostico c’è il problema che l’attendibilità dei risultati in assenza di sintomi è bassina, e poi una volta fatto il tampone, per essere tranquilli, lo dovremmo rifare ogni tre giorni…
Soprattutto, invito i giornali a spiegarci come comportarci nel disinfetting (sanificazione suona male, nasconde al suo interno la parola “fica”, e disinfezione evoca i rimedi della nonna, quelli di una volta), di questi tempi ci può salvare la vita. Forse c’è chi crede che questo linguaggio possa salvare la vita anche ai quotidiani che vendono sempre meno…

Forse interrogarsi se l’anglicizzazione sia da mettere in correlazione con il press-down (il calo delle vendite dei giornali) non salverà i quotidiani ma aumenterà la qualità dell’informazione.

27 pensieri su “Coronavirus, lockdown (e tutto ciò che bisogna sapere su tamponing, disinfetting e mask-down)

  1. Quanto dobbiamo aspettare prima di vedere una quarantena contro il morbus anglicus? Questo virus sembra molto più pericoloso al futuro della nostra cultura che questo nuovo “coronavirus”.

    Mi ricordo qualche settimana fa si usavano infatti i termini italiani come “isolamento” e “blocco”. Gli anglosassoni iniziano ad usare “lockdown” per descrivere la situazione in Italia ed ad un tratto tutti i giornali in Italia si convertono. È ridicolo. Da italoamericano, sono così fiero della mia lingua, anzi, mi arrabbio quando non riesco ad esprimermi come vorrei in italiano. Adesso devo pure preoccuparmi di come l’inglese stia distorcendo la lingua italiana. Mah!

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      • Appunto! Quando incominceranno gli inglesi e gli americani ad incavolarsi vedendo come la loro lingua viene maltrattata, storpiata e denaturata?? Eh, troppo pigri, dopo gli toccherebbe magari iniziare finalmente loro a studiarne di altre…

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  2. Vorrei anche aggiungere una nota interessante: il poeta e diplomatico messicano Octavio Paz diceva che quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio. Questa osservazione potrebbe valere anche per la nostra situazione italica ?

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    • Be’ non so se la nostra società si stia imputridendo, però mi pare evidente che l’anglicizzazione del linguaggio vada di pari passo con “l’americanizzazione” socio-culturale-economica che di sicuro ci ha completamente cambiati dal dopoguerra a oggi, in particolare con l’avvento della globalizzazione, che mi pare una nuova forma di colonialismo mondiale basata sull’imposizione a tutti dei modelli d’oltreoceano, economici e non solo.

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  3. Nella penultima diretta FB, il Presidente del Consiglio Conte (e non il “premier”) aveva parlato di “lavoro agile” che non è il telelavoro o lavoro da casa o in remoto, ma almeno è italiano. Ad aggiustare il tiro ci ha pensato la diretta di ieri sera in cui ha citato, in un inglese improbabile, lo “Smart Worki” – utilizzo improprio dello “Smart Working” che oltremanica e oltreoceano indica altro. Il telelavoro in inglese è “home working”. Non se ne esce più e la responsabilità di queste comunicazioni scellerate e poco trasparenti è di politici e giornalisti.

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    • Ho notato ieri sera il passaggio di Conte… che non è nuovo a questo linguaggio che spesso ostenta, ma forse in questo momento ha nella testa cose più importanti cui badare… (anche se la comunicazione del governo in questo frangente è piuttosto discutibile e migliorabile non certo solo dal punto di vista l’uso degli anglicismi). Quello che vedo e che prevedo è che ora che il dramma dell’epidemia stra raggiungendo gli Stati Uniti tutto si anglicizzerà, mentre fino a che rimaneva un problema della Cina e della Sud Corea l’intereferenza linguistica era nulla. Ieri, per esempio, ha fatto la sua comparsa in tv anche la prassi del “drive in test” un sistema inventato in Corea che adesso che è stato copiato negli Usa è stato improvvisamente rinominato così, esattamente come i provvedimenti di contenimento sono diventati lockdown. Qualcosa mi dice che siamo solo all’inizio… accetto scommesse.

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  4. Salve, caro Zoppetti

    non c’entra molto con l’articolo sopra ma notavo l’ultima pubblicità di RaiPlay che annuncia di offrire tre nuove sezioni: Bambini, Teen e Learning. Visto che c’erano, potevano chiamare Kids la sezione bambini, no?
    E si conclude con “Divertirsi da casa is more fun”

    Non ce la possiamo fare!
    Non ce la possiamo fare!

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    • Un po’ di anni fa, ormai, ho vinto il premio Alberto Manzi promosso tra l’altro dalla Rai… e quando penso al ruolo storico nell’unificazione dell’italiano della Rai e di trasmissioni come “Non è mai troppo tardi”, rabbrividisco; non so se Manzi si rivolterà nella tomba, ma comunque la Rai oggi sta distruggendo la nostra lingua. E ripenso a quando faceva i sondaggi sulla comprensione da parte della gente, da cui è nata l’espressione “la casalinga di voghera”, mentre oggi diffonde l’itanglese e lo impone nel modo più prepotente. Che tristezza.

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      • Ed aggiungiamo il fatto che ormai la nuova Rai non somiglia più ad una televisione pubblica: ormai somiglia sempre di più ad una televisione commerciale sulla falsa riga di Mediaset (escludendo però i pochi interessanti programmi di cultura come ad esempio quelli di Piero ed Alberto Angela) e questo non può che avere ricadute anche nel linguaggio.

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        • Direi che da moltissimi anni la Rai ha cambiato la sua imposazione “pedagogica” nel bene e nel male (penso alle censure di Dario Fo) per inseguire la tv commerciale. L’attuale moltiplicazioni dei canali che non sono solo più i tre del passato, però, prevede anche offerte di buon livello, trovo.

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  5. Ma scusate, mobilitiamoci, basta subire! Scriviamo alla Rai (magari forse non adesso, quando le priorità sono purtroppo ben altre ahimè 😣), lanciamo petizioni online tipo change.org o siti simili, basta subire. Antonio scrive il testo e lo facciamo girare viralmente… Tanti poi semplicemente “dormono”, non sono consapevoli, svegliamoli!

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    • Cara Gretel, l’unica buona notizia sul fronte Rai è che “nel 2014, con un’operazione fatta in sordina e senza pubblicità, la Rai, che forse si è resa conto del mancato gradimento da parte del pubblico, ha cambiato il nome a due dei suoi canali dai nomi inglesi, e così Rai International e Rai Educational si sono trasformati in Rai Italia e Rai Cultura.” Ma successivamente tutto si è anglicizzato ulteriormente. Non hai idea né di quante proteste individuali ho mandato, né di quante volte ho invitato a farlo… ho scritto a Di Maio contro il suo navigator, ho scritto a personaggi che si sono espressi contro l’abuso dell’inglese perché mi aiutassero pubblicamente a organizzare una campagna per la promozione dell’italiano (da Nanni Moretti a Riccardo Muti fino a Elio delle storie tese), ma non ho ricevuto risposte. Anche le numerose petizioni che negli ultimi tempi sono circolate e che ho formato hanno raggiunto pochi sottoscrittori, e l’unico esempio di successo è stato il dilloinitaliano di Annamaria Testa nel 2015. Io ci ho provato, e ci provo, ad andare in questa direzione, ma non è facile catalizzare un numero di sostenitori ampio, senza il quale ogni iniziativa rischia di bruciarsi con il rischio di diventare controproducente. Per cui attendo l’opportunità e il momento giusto, quando capirò che ci sono le condizioni (intanto “faccio rete” come si suol dire), se mai arriveranno, pronto per passare “dai lamenti all’azione” come ho intitolato l’ultimo capitolo del mio libro, di cui ti incollo un brano per farti capire che sfondi una porta aperta.

      “Chi non ne può più degli anglicismi, è stufo e irritato, o chi non li capisce e vorrebbe una maggiore trasparenza dovrebbe smetterla di lamentarsi al vento e farsi sentire come cittadino e come consumatore. Passare all’azione non costa poi molto, la posta elettronica è un mezzo facile e veloce. Se 70.000 persone in un mese hanno aderito alla petizione #dilloinitaliano, basterebbe che un numero simile di “attivisti” mandasse una decina di lettere di protesta, e 700.000 lamentele si distribuirebbero tra le redazioni dei giornali, le televisioni, le aziende, le istituzioni e tutti quegli apparati che con il loro linguaggio contribuiscono a diffondere l’abuso dell’inglese e l’impoverimento dell’italiano. (…) Davanti a un titolo di giornale con anglicismi inutili si può scrivere alla redazione la propria insofferenza, il proprio disaccordo, come lettori e clienti. O manifestarlo negli appositi canali in Rete, lasciare commenti, riflessioni, lamentele contro gli abusi o contro la trasparenza delle espressioni usate. I modi di farsi sentire sono tanti, nel nuovo Millennio, e ognuno di noi può lasciare il proprio contributo, la propria traccia o la propria protesta. Oltretutto le aziende sono sempre più organizzate per la recezione del gradimento dei consumatori (spendono ingenti somme per “monitorare il sentiment del web”), e si può approfittare proprio di questi canali sociali. E per le fasce di popolazione che non utilizzano la Rete, esistono comunque anche i canali tradizionali, come la posta ordinaria o il telefono.
      Come cittadini, oltre che come consumatori, possiamo protestare con il Comune di Milano, per esempio, che nel suo sito istituzionale di istruzioni per il noleggio delle biciclette parla di bike sharing, o rivolgerci alle istituzioni, ai partiti e ai movimenti chiedendo loro di attuare proposte politiche di tutela della lingua trasversali, dove destra, sinistra e nuovi poli al di fuori di questi schemi possono trovare un terreno di intesa comune. In questo modo i politici forse rifletterebbero maggiormente anche sul linguaggio che impiegano e ci penserebbero due volte prima di abusarne, davanti allo spauracchio di perdere consensi.”

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  6. Ho scoperto da poco questo spazio e condivido pienamente la tua battaglia. Il pesce purtroppo puzza dalla testa. E’ la nostra cara “classe dirigente” la principale responsabile di questa deriva linguistica che si inserisce del resto nello stato di sottomissione coloniale generale nel quale versa il nostro paese. Mi sono iscritto agli attivisti dell’italiano, anche se in pratica già lo faccio dato che commento su tanti altri blog dove di anglicismi se ne incontra a iosa e che cerco di stigmatizzare al meglio delle mie possibilità.
    Vorrei suggerirti, se già non lo hai fatto e magari dopo che sarà passata questa buriana, di provare a contattare Claudio Messora noto come Byoblu che sta costruendo una televisione alternativa. Lui tratta tanti argomenti importanti con ospiti in genere ignorati nei circuiti delle televisioni principali e conta già un discreto seguito tra l’altro in crescita. Un’intervista sul suo canale potrebbe essere assai utile per aumentare la consapevolezza su questa questione della quale moltissimi ancora non si rendono conto.
    Un saluto.

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    • Grazie Roby, concordo, il problema è la nostra classe dirigente che ha come modello solo quello degli Stati Uniti che vuole imitare spacciando per modernità e internazionalismo il proprio senso di inferiorità. Anche io ho scoperto da poco il canale di Messora che trovo interessante. Proverò a seguire il tuo conisglio,. Un saluto.

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