La politica linguistica francese: impariamo dalla legge Toubon [1]

Se in Svizzera si investe sulla tutela e la promozione dell’italiano, e se da loro si dice l’ora delle domande al posto di question time, la lezione che ci arriva dalla Francia è ancora più significativa, per comprendere cosa significhi avere una politica linguistica e a cosa possa servire.

La storia della politica linguistica  francese

Nel 1965, De Gaulle commissionò a René Étiemble (autore di Parlez-vous franglais?) un rapporto sullo stato della situazione e fu così istituita una commissione per la terminologia dell’amministrazione per individuare le lacune del vocabolario e proporre nuove parole da sostituire ai termini stranieri.
Dopo questo passo arrivarono i primi provvedimenti legislativi: il decreto del primo ministro Jacques Chaba-Delmas, nel 1972, seguito durante il governo Chirac, nel 1975, da una legge firmata Valérie Giscard d’Estaing. Nel 1984 furono invece i socialisti, visto che la difesa della lingua non è né di destra né di sinistra, a presentare un progetto di legge per vietare i forestierismi nelle pubblicità o nelle denominazioni dei contratti di lavoro, e non certo per sciovinismo, ma per “difendere l’integrità della lingua francese” sancita dalla loro Costituzione: l’articolo 2 recita che “la lingua della Repubblica è il francese”. Nel 1985, dopo l’istituzione di una nuova commissione (attraverso un decreto del primo ministro Pierre Mauroy) fu pubblicato un arricchimento ufficiale del vocabolario con una lista di termini proposti da utilizzare nell’amministrazione e nelle professioni, per esempio cadreur (cameraman), distribution artistique (cast), contrôle (check out), conteneur ( container).

La legge Toubon

Nel 1994 è arrivata la legge Toubon, che rende obbligatorio l’uso del francese non solo in ogni atto governativo, ma anche nelle scuole di Stato, nei luoghi di lavoro e nelle contrattazioni commerciali. Per rispetto alla lingua francese e ai francesi, oltre che per la trasparenza della comunicazione, nel linguaggio istituzionale non si possono introdurre anglicismi al posto di termini francesi, e nessun politico può – né si sognerebbe mai – di introdurre act al posto di leggi, tax al posto di tasse, né di riempirsi la bocca di anglicismi ostentati come question time, spending review, stepchild adoption, voluntary disclosure e tutte queste simili porcherie.

Inoltre, sul lavoro è vietato usare termini stranieri, proprio in nome della trasparenza. Non appena un’azienda si stabilisce nel territorio francese, tutti, i contratti e i documenti, inclusi i programmi informatici, in francese logiciel (e non software), devono essere disponibili in francese. Alcune aziende come la General Electric Medical Systems sono state condannate e multate per non aver tradotto in francese le istruzioni dei propri prodotti.

E “Alcune società sono state severamente sanzionate negli ultimi anni dai tribunali per l’uso illegale dell’inglese. Ad esempio, la società americana GEMS, nel marzo 2006, è stata multata di 570.000 euro per aver trasmesso documenti in inglese senza traduzione ai suoi impiegati francesi. Allo stesso modo per Danone”.

Cfr. Itanglese: due punti di vista dall’estero.

 

Le false opinioni dei linguisti italiani

I provvedimenti francesi da noi hanno sempre suscitato perplessità, perché il nostro unico esempio di politica linguistica è stato quello del fascismo, e parlare di queste cose rischia di scatenare reazioni emotive e di pancia, come se l’unica politica linguistica possibile fosse quella del passato.

Nel 1993 Tullio De Mauro così salutava la notizia della legge Toubon:

Mi si chiede di commentare la legge del Toubon. La prima reazione è che si tratti di uno scherzo. Ma fonti autorevoli dicono di no. Il Toubon fa sul serio. Bisogna rassegnarsi (…) Monsieur Toubon crede di potere arrestare ciò impedendo ai francesi di dire jeans o Chinatown.

Tullio De Mauro, “La legge del Toubon…”, La Repubblica, 22 ottobre 1993.

Naturalmente la legge in questione non proibisce ai francesi di dire jeans, questa è un’affermazione falsa e tendenziosa, e usare la lingua francese nei contesti istituzionali è un segno di civiltà che dovremmo imitare invece che schernire. Ognuno parla come vuole, naturalmente, ma per poter esercitare una scelta bisogna che le alternative esistano e circolino. Da noi nessuno le propone e le fa circolare.

Le posizioni di questo tipo di “liberismo linguistico” di De Mauro si basano su quanto diceva anche Gian Carlo Oli: la lingua non va difesa va studiata. Il che è verissimo per un linguista, ma presuppone che una lingua sia in salute. Invece le lingue si possono ammalare e anche morire. Secondo Claude Hagège, ne muoiono ben 25 all’anno, nel mondo, e se oggi quelle vive sono circa 5.000, fra un secolo saranno la metà, se non cambia qualcosa. E la principale minaccia è proprio l’inglese, che

svolge un ruolo di primo piano tra i fattori della morte delle lingue.”

Claude Hagège, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano 2002, p. 7.

E allora cosa succede se, studiando, si scopre che l’italiano è in pericolo?

Quando ho cominciato a occuparmi di anglicismi la pensavo come De Mauro e Oli, non credevo che l’inglese rappresentasse un problema. Ma poi, andando a studiare e a contare ciò che sta accadendo, mi sono accorto che non era così. E se l’italiano è ammalato bisogna intervenire, come cittadini più che come linguisti.

Da tempo si sta facendo strada il concetto di ecologia linguistica. Da tempo la globalizzazione e il monolinguismo stereotipato che conduce all’inglese rappresenta un pericolo per le lingue locali. In Francia e in Spagna lo hanno capito e hanno adottato provvedimenti. In Italia no. E quel che è peggio, importanti linguisti fanno circolare in proposito notizie false, che è ora di smontare, numeri alla mano…

[continua]

8 pensieri su “La politica linguistica francese: impariamo dalla legge Toubon [1]

  1. L’esempio della Francia non mi sembra interamente degno di lode, se lo si esamina in un’ottica d’ecologia lingustica integrale e non invece a senso unico: si sa come proprio l’articolo citato della Costituzione oltralpina venga spesso invocato per una politica restrittiva nei confronti delle altre lingue di Francia. A che serve riconoscere che anche queste ultime fanno parte del patrimonio culturale nazionale, se poi lo Stato si vieta di promuoverle efficacemente, escludendole da ogni uso ufficiale e concedendo loro col contagocce gli spazi nella scuola pubblica, ossia in pratica rinuncia a proteggerle negli unici ambiti in cui uno stato può democraticamente (cioè non in modo liberticida) fare una politica linguistica?
    Personalmente sono convinto che le lingue nazionali e quelle minoritarie “aut simul stabunt aut simul cadent”: l’alternativa è la stessa, plurilinguismo o glottofagia, solo su scala differente.

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  2. Credo che il concetto di lingua ufficiale, strumento di coesione dello Stato e della popolazione, vada in qualche modo sancito. Possono esserci anche più di una lingua, dipende dai contesti e infatti il modello Svizzero mi pare interessante anche come esempio cui dovrebbe guardare la Ue.
    Però l’esistenza di una lingua ufficiale non significa discriminare le minoranze linguistiche! Si possono incentivare e tutelare con iniziative culturali o sociali, insieme alle lingue straniere, ai dialetti e a tutto. Ma credo che questo stia su un piano diverso da quello di “lingua istituzionale”. Nella nostra Costituzione le minoranze linguistiche sono tutelate nell’articolo 6 e se ne parla anche in un altro paio di punti. Invece sono curiosamente stati inseriti i colori della bandiera, ma non c’è traccia di riferimenti all’italiano come lingua ufficiale. E infatti la Crusca nel 2006 propose alla Camera dei deputati di inserirla nell’art.12 ma alla fine non se ne è fatto nulla.

    A mio avviso il modello Toubon è da studiare, il che non significa né perfetto, né che sia possibile in qualche modo “trapiantarlo” così com’è. Per fare qualcosa di analogo sarebbe necessario quello che c’è in Francia: un qualche organo istituzionale che abbia l’autorità di emanare un dizionario ufficiale, o delle alternative istituzionali agli anglicismi. Ma qui non c’è e senza una simile premessa c’è poco da legiferare. In ogni caso vale la pena guardarsi intorno, oltre alla Francia c’è la Spagna, e in entrambi i paesi sono state fatte anche campagne pubblicitarie e sociali in favore delle lingue ufficiali. E questo approccio può essere anche più efficace di una legge per certi aspetti. In Svizzera si è investito in promozione della lingua italiana con eventi e corsi. Questi sono modelli di politiche linguiste cui guardare per prendere spunti positivi. In Italia appena se ne parla si tira fuori lo spauracchio del fascismo come fosse l’unico esempio di politica linguistica possibile… e questa è una cialtronata.

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  3. Ho lavorato per anni a fianco di colleghi terminologi francesi che avevano a che fare con la Commissione generale per la terminologia e i neologismi e per farla breve loro avrebbero preferito il modello italiano senza alcuna autorità centrale a cui sottostare. L’idea di un qualche organo istituzionale che abbia l’autorità di emanare un dizionario ufficiale può avere senso sulla carta (o visto dal di fuori) ma dal punto di vista pratico presenta moltissimi problemi, soprattutto se si tratta di terminologia settoriale: i due principali sono i tempi necessari per le risposte, incompatibili con le esigenze di mercato, e le competenze tecniche necessarie per dare pareri autorevoli su termini specialistici (non è un caso che la Commissione prenda molte cantonate, come d’altronde è già successo anche al Gruppo Incipit nei pochi interventi fatti finora).

    Credo sia invece preferibile un approccio “dal basso”: andrebbe promossa una conoscenza linguistica più approfondita per un uso più accorto e consapevole delle parole nel lessico comune, quindi innanzitutto divulgazione, come stai facendo anche tu. Negli ambiti specialistici servirebbero invece maggiori competenze terminologiche.

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    • Ciao Licia, anche io preferisco interventi culturali per la promozione e la diffusione dell’italiano, per spezzare la moda deleteria di dirlo in inglese, una soluzione più eficace della tutela della lingua con le leggi. Ma le due cose non sono in contrapposizione. Credo che sia importante distinguere la lingua dalla terminologia, anche se di fatto i confini sono sfumati. L’entrata degli anglicismi degli ultimi 30 anni nel linguaggio comune arriva in larga misura dai settori terminologici. Credo che la creazione di un dizionario ufficiale sia doveroso, come palrare l’italiano nei contesti istituzionali. Ne parlavo proprio due ore fa su radio 3 nella trasmissione “Tutta la città ne parla” e anche il presidente della Crusca Marazzini lo diceva. Le posizioni dei terminologi, e anche le tue quando dici che “i termini non si traducono” sono un male per la nostra lingua. Se poi non si può arginare la terminologia in inglese da un punto di vista tecnico, il secondo filtro dovrebbe quello di fermarla dopo quello che Cortelazzo ha definito il periodo di latenza, e cioè quando travasano nel liguaggio comune. Per fare un esempio, se nel linguaggio tecnico avete scelto di non tradurre browser con navigatore, nel momento in cui questa parola esce dalla terminolgia specialistica e diventa lingua, bisogna che l’alternativa (navigatore) esista. Ognuno parla come vuole, ma per poter scegliere è necessario che le alternative esistano e si facciano circolare. Altrimenti, tecnicismo dopo tecnicismo, l’italiano diventerà itanglese e sarà sempre più inadatto a esprimere le cose nuove. Se l’italiano non si sa evolvere con i neologismi e gli adattamenti e sceglie di usare l’inglese, non c’è futuro per il nostro lessico.

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  4. La tua affermazione “Le posizioni dei terminologi, e anche le tue quando dici che “i termini non si traducono” sono un male per la nostra lingua” per me è davvero sconsolante. È la conferma che in Italia non c’è cultura terminologica e soprattutto che i (pochi) terminologi come non sono capaci di fare divulgazione.
    Quando ripeto che “i termini non si traducono” non voglio assolutamente dire che vanno lasciati tutti nella lingua originale bensì che non bisogna focalizzarsi sulle singole parole della lingua di partenza (L1) e “tradurle”. Si deve infatti analizzare il concetto che rappresenta ciascun termine in L1 e trovare un equivalente nella lingua di arrivo che può anche discostarsi molto dalla scelta fatta nella L1. Esempi dal software con cui tutti hanno familiarità: cronologia e scheda che in inglese sono history e tab.
    Purtroppo spesso chi propone “traduzioni” letterali delle locuzioni inglesi rivela anche una comprensione distorta o limitata del concetto in discussione (e dell’inglese!) e rende le proprie proposte poco credibili e quindi difficilmente accettabili. Qualche dettaglio sull’approccio terminologico e sugli errori di chi tenta traduzioni più o meno letterali: Brainstorming e formazione dei termini in L2
    Temo inoltre che insistendo sulla necessità di “tradurre” gli anglicismi si continui a sottolineare la sudditanza dell’italiano nei confronti dell’inglese. Anche solo per questo sugli anglicismi è necessaria una nuova narrazione.

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    • Non so cosa tu intendi con “traduzione”, ma tradurre equivale a “scrivere e volgere un testo da una lingua all’altra”, non significa necessariamente operare un calco, né fare una traduzione letterale che implica una “sudditanza”, al contrario.

      Nel mondo delle traduzioni si distinguono quelle orientate alla lingua di provenienza (es. la Calzecchi Onesti tradusse l’Odissea cercando di essere fedele riga per riga alla versione greca, il che non è bellissimo in italiano, ma è preziosissimo per la comprensione del testo originale) oppure orientate alla lingua di destinazione (es. Monti tradusse l’Iliade pensando solo all’italiano, non sapeva neanche il greco, e il suo testo è pensato per la fruizione nella lingua di destinazione e non c’è nessuna attenzione per la fedeltà all’originale).

      Venendo all’esempio di Brainstorming: la traduzione che io proporrei (traduzione nel senso che ho specificato) è semplicissima, comprensibilissima ed efficace: sono “parole in libertà” un’espressione che si rifà a una tradizione italiana, evocativa e perfettamente aderente al significato originariodel metodo di Alex Osborn (per la cronaca: nelle aziende non lo si segue affatto alla lettera e si chiamano così delle riunioni operative o creative che molto spesso hanno solo il nome in comune con l’originale).

      Naturalmente non penso minimamente che entri in uso la mia proposta e che tutti la adottino, non è a questo modo che evolve la lingua. Ma mi pare una traduzione perfettamente in linea con i tuoi modelli di L1 e L2 (un approccio che però è controverso perché presuppone non esista il bilinguismo, dove il concetto di L1 e L2 viene meno) e che appunto ripropone il concetto all’italiana, senza alcuna sudditanza dall’inglese.

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    • non so se ho colto il suggerimento… comunque io non sono un traduttore, anche se ne frequento più di uno, e con la Calzecchi Onesti ci ho lavorato personalmente in una versione multimediale dell’Odissea partendo proprio dal suo testo con greco a fronte. La mia definzione di traduzione è quella che si trova sui vocabolari, e il concetto di traduzione va oltre la corrispondenza dei termini, riguarda proprio la resa di costrutti e testi nel senso più ampio.

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