Milano capitale dell’itanglese

MITO“Milan l’è on gran Milan” diceva una canzone in dialetto meneghino del 1939 (Giovanni D’Anzi, Alfredo Bracchi). Oggi la parola “Milano” ha assunto il genere femminile, il dialetto è praticamente scomparso, e la città è diventata la capitale dell’itanglese.

Soltanto pochi anni fa, nel 2012, un manifesto pubblicitario del Comune ha proposto uno slogan in dialetto: “Tutt cos l’è bel” (e cioè “è tutto bello”), che ha scatenato le polemiche dei “puristi” del milanese che hanno osservato che “ogni cosa” si dice (e si scrive) “tusscòss”.

Ma il dialetto appartiene ormai al passato, e il Comune oggi ha scelto l’inglese per rivolgersi ai cittadini, e nel farlo si cela dietro il (falso) pretesto di fare apparire la metropoli più moderna e più internazionale.

Ieri, alla stazione Garibaldi, all’ombra dei (bei) grattacieli che disegnano il profilo della nuova “skyline milanese”, simbolo della nuova immagine della città, i tabelloni luminosi pubblicizzavano Yes Milano, “il nuovo brand di Milano per la promozione di eventi internazionali”.

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Le nuove iniziative si chiamano Fashion week (fino a poco tempo fa c’era la Settimana della moda), Design week (il Salone del mobile e il Fuorisalone), e poi c’è Food city (ricco di ghiotti “workshop” e “showcooking”), Music week, Museo city, Art week, Piano City, Food city, Arch week, Photo week, Movie week e per concludere Book city. Quest’ultima manifestazione è dedicata ai libri e alla lettura, ci sono presentazioni di autori e libri in italiano, rivolti a italiani, e sentire una denominazione inglese in nome dell’internazionalità è a mio avviso davvero ridicolo e fuori luogo.

Questo linguaggio è una scelta precisa, che rappresenta uno schiaffo per la nostra lingua, ma anche per la nostra storia e la nostra cultura. Gli stranieri che vengono in Italia lo fanno anche perché sono attratti dal nostro Paese e dai nostri prodotti, e la strategia di abbandonare la nostra lingua in nome dell’inglese rischia di scontentare anche loro, oltre a risultare poco comprensibile per molti italiani.

Per citare Annamaria Testa, mentre da noi si moltiplicano le insegne come Wine bar, a New York, nei ristoranti di lusso, si dice vino, perché il nostro termine contiene tutta la nostra eccellenza nel settore, oltre a suonare di tendenza.

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Quanto ai destinatari di questi programmi culturali, bisognerebbe ricordare al Comune che sono soprattutto cittadini italiani e di Milano, che non necessariamente comprendono il significato di market place, o più semplicemente preferiscono il cibo di strada allo street food, le biciclette al BikeMI, e non gradiscono che  nel sito del Comune il servizio di condivisione delle biciclette sia chiamato e intitolato bike sharing. Di esempi del genere che mostrano come la scelta linguistica delle istituzioni milanesi abbia ormai adottato l’itanglese se ne potrebbero fare tantissimi.

La perdita delle parole italiane, che quando esistono diventano spesso obsolete davanti all’entrata dei corrispondenti inglesi, è dovuta anche al linguaggio istituzionale (oltre a quello dei mezzi di informazione). La gente tende a ripetere quello che sente, e quando gli anglicismi diventano i nomi degli eventi o delle cose, quando compaiono urlati nei titoli e nelle manifestazioni senza alternative, con il tempo si finisce per perdere la capacità di dirli in italiano, e cessa la possibilità di poter scegliere come parlare.

Le istituzioni e il Comune di Milano hanno una grande responsabilità nel diffondere questo linguaggio. Questo tipo di comunicazione — oltre a impoverire il nostro lessico — risulta poco comprensibile e trasparente per molte persone, e per altre risulta sempre più eccessivo e fastidioso.

Credo sia arrivato il momento di fare qualcosa e di passare dal fastidio e dalle lamentele all’azione. Come cittadini, come consumatori e come elettori, abbiamo il diritto e il dovere di protestare e di fare sentire la nostra voce. Possiamo per esempio scrivere al Comune esplicitando il nostro rammarico, dichiarando che come consumatori e utenti preferiamo rivolgere la nostra attenzione a prodotti ed eventi promossi in italiano, per poi manifestare, come elettori,  tutto il nostro dissenso davanti a questo tipo di scelte.

Il Comune di Roma, nel 2015, ha tentato di rinnovare il logo della città sostituendo lo storico SPQR con il nuovo motto Rome and You, ma il progetto è stato tempestivamente fermato proprio dalle polemiche e dalle feroci proteste che ne sono sorte.

Nel 2014, con un’operazione fatta in sordina e senza pubblicità, la Rai, che forse si è resa conto del mancato gradimento da parte del pubblico, ha cambiato il nome a due dei suoi canali dai nomi anglicizzati, e così Rai International e Rai Educational si sono trasformati in Rai Italia e Rai Cultura.

Se, a Milano, chi non è d’accordo con quanto sta avvenendo non protesta e non si fa sentire, il linguaggio che parleremo fra trent’anni sarà quello che il Comune ci sta imponendo: l’itanglese. E il rischio che l’italiano faccia la fine del dialetto milanese non è poi così lontano.

7 pensieri su “Milano capitale dell’itanglese

  1. Ma ormai é morto il linguaggio “autentico” di milano, cioé il milanese. Per cui non mi darebbe poi cosí fastidio che l’Italiano morisse. É una legge del contrappasso. Invece di un sano bilinguismo o trilinguismo, é stato scacciato il milanese dagli uffici, dalle scuole, e infine dalle famiglie in malo modo (negli anni 50 lo vietavano di parlare ai figli) , ora si é perso, in nome di una presunta lingua “prestigiosa” . l’italiano fará la stessa fine del milanese. Il problema é il monolinguismo. In cittá veramente avanti (es. Barcellona, zurigo, bruxelles, bilbao, dublino) le lingue locali sono valorizzate, e l’inglese lo sanno tutti. In italia lo stesso monolinguismo che ha ucciso le lingue locali (peccato), ucciderá prima o poi anche l’italiano. Come un contrappasso. Byebye italiano, hai bullizzato i tuoi fratellini regionali, ora preparati a farti schiacciare dall’inglese

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    • Il rischio di un italiano che diventi un dialetto d’Europa è concreto, ma l’analogia lingua-dialetto ha anche molte differenze.
      Il punto è che l’italiano è stata lingua letteraria e non parlata sino a quando è stato unificato nell’epoca del sonoro, durante il fascismo. La messa al bando del dialetto nelle scuole, che la riforma Gentile ammetteva (anche perché molti maestri parlavo il dialetto più che l’italiano) nasce nel 1925 (se vuoi: https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2019/07/29/la-politica-linguistica-del-fascismo-e-la-guerra-ai-barbarismi-parte-i/). Negli anni ’50, con la migrazione verso il nord, c’erano ancora grosse incomprensioni linguistiche per il mescolamento della popolazione, e il dialetto coincideva con l’incapacità di palare in italiano e quindi l’ignoranza. In questo clima è stata abbandonato, per motivi pratici di comunicazione nelle grandi città abitate da italiani di varia provenienza e per cultura. Va detto però che non tutti i dialetti sono scomparsi come il milanese, e in molte parti d’Italia si usano ancora (anche se sono stati un po’ italianizzati) in contesti familiari e locali. E oggi il dialetto stato riconsiderato come segno di cultura, non è più ignoranza, ma ricchezza e conoscenza della cultura locale. Un conto è parlarlo perché si sa solo quello, un conto è recuperarlo come bilinguismo locale. Le cose sono quindi molto complesse.
      L’itanglese, cioè la penetrazione degli anglicismi, riguarda solo il lessico, e soprattutto i sostantivi e le locuzioni, dunque non credo che faccia morire l’italiano, ma semplicemente lo snatura e trasforma in un ibrido dove la creolizzazione è lessicale, non sintattica.
      Personalmente non credo che l’italiano abbia bullizzato i dialetti, o meglio, l’ha fatto in questo contesto storico che ha portato all’unificazione dell’italiano, che però non vedo in modo negativo. Credo che possedere una lingua nazionale sia un bene, e il fatto che questo passaggio abbia portato alla morte di alcuni dialetti è un peccato, ma non è connesso: si può mantenere il bilinguismo storico basato sul dialetto anche parlando la lingua nazionale.
      Diversa è la questione dell’inglese come lingua internazionale che si vuole imporre nel mondo. Quando l’italiano non è più lingua del lavoro in Europa, quando il Politecnico di Milano eroga i corsi in inglese – estromettendo il diritto di studiare nella lingua madre e creando discriminazione – quando il mondo del lavoro parla inglese, la scienza è in inglese e le pubblicazioni si fanno in inglese per avere prestigio (altrimenti sono ignorate)… allora sì: c’è il rischio che l’italiano diventerà un dialetto e che parleremo in inglese in una diglossia per cui tecnica, lavoro, scienza, economia, insegnamento si fanno in inglese. In questo contesto è possibile che l’italiano si trasformi in un dialetto adatto a parlare del quotidiano spicciolo ma incapace di esprimersi negli ambiti strategici della modernità.

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  2. Addì 19 marzo 2021. A distanza di 4 anni la situazione è precipitata. Infuria in questi giorni la moda di usare hub, che potrebbe essere tranquillamente tradotto con “polo vaccinale” , per non parlare del drive trough, che pare più ostrogoto che inglese (e infatti i giornalisti pronunciano “trough” sottovoce, perché non sono sicuri di pronunciarlo come si deve). Ho scritto, a proposito di questa obbrobriosa deriva linguistica, al Corriere della Sera. La mia lettera è stata pubblicata ma messa subito a tacere con una pietra tombale: “i giornalisti scrivono così perché i politici parlano e scrivono così”. Bella scusa eh ?
    L’applicazione Immuni mi ha mandato una notifica in inglese, nonostante il telefono sia perfettamente configurato nella nostra bella lingua. Niente, non se ne esce, “gnente da fa” , si dice a Roma.

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    • Hub si usa ormai al posto di un semplice “centro” con accezione ospedaliera (“Il Sacco di Milano è ormai l’hub di riferimento della Lombardia per il coronavirus”; “Tempi record per l’hub alla fiera di Milano”). L’impronunciabile drive trough è semplicemente un tampone in macchina… che si potrebbe dire ad alta voce. Quanto ai giornali e ai giornaisti, ne ho scritto in così tante occasioni che non so che altro dire, ma ti rimando a questo video creato con una pagina REALE del Corriere.it di due giorni fa che ho intitolato DON’T ALIGHIERI: https://www.youtube.com/watch?v=3Rb56bzFVlE

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    • Infatti le espressioni diffiicli come “drive through” vengono abbreviate in “draiv” o capite male in “draiv in”. Per non parlare del “recòveri” che a me me pare romanesco per i “recoveri in ospedale” e che si aggiunge ai “sòcial”.
      Zoppaz citava qui sopra il Politecnico. In un servizio del tg di dicembre, si notava che non solo i vari reparti del Politecnico erano in inglese, ma addirittura su un foglio stampato e appiccicato a un armadietto si notava “acids”. Ma gli studenti dovranno addirittura parlare tra di loro in inglese??

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